Dal Lago di Tiberiade in su per la valle del Giordano il paesaggio si fa ben presto selvaggio, i campi coltivati e le cittadine cedendo il passo a piccoli moshav o grosse fattorie; l’indicazione per rafting e kayak sul ‘fiume’, in realtà un torrentello secondo gli standard italiani, spuntano tra i filari di melograno e pompelmi. La nostra destinazione, a bordo del minivan servizio-taxi del kibbutz che abbiamo prenotato qualche giorno in anticipo, è Kfar Yshuv, moshav alle pendici dell’Hermon a un tiro di schioppo dal Libano, letteralmente. Sulla strada carichiamo due autostoppisti diretti a una festa da qualche parte nei boschi, lui di Gerusalemme lei di vicino Tel Aviv, e in cinque minuti ho un contatto per esigenze di affitti e appartamenti per studenti, più la conferma che la vita studentesca gerusalemita è di un altro livello rispetto alla snob e costosa Tel Aviv: alto, trilingue ebraico inglese spagnolo, diretto nel profondo nord per un evento nei boschi, volenteroso nel lasciarmi numero di telefono e nome su facebook, non posso che fidarmi del suo giudizio. Il minivan ci lascia sgommando nella polvere del piazzale del moshav, in piedi sotto il peso degli zaini, della borsa frigo bianca e rossa in prestito dall’ulpan e dei trenta gradi e passa del mezzogiorno. Siamo ora nelle mani di Ygal: ‘E’ un posto sul fiume, c’è un sentiero che parte dal moshav’. Il sentiero lo troviamo subito, e c’incamminiamo ciondolanti lasciando le belle case dei moshavnik per i canneti, i campi di grano, gli ulivi e i pompelmi; a perdita d’occhio, nella foschia del monte Hermon, il vuoto: non una casa, non un’antenna, non una strada. A quanto pare l’unico della compagnia (un uruguayano, un’argentina e una greca) a stupirsi sono io: com’è che in un paradiso come questo non ci viene ad abitare nessuno? Sarà passata una mezzora di cammino, a giudicare dalle ali di sudore sulla mia mgalietta, quando Ygal si ferma: ci siamo persi. Il fiume scroscia vicino, ma non c’è modo di raggiungerlo attraverso la giungla di giunchi che lo circonda. Chiama un’amica del moshav per direzioni, e dopo qualche conferma siamo di nuovo di strada, il pesantissimo frigo bianco e rosso sempre al nostro seguito. Tra gli ulivi, giù sul pendio, arriviamo nuovamente a un muro di canne. Lo sconforto passa quando infine scoviamo un pertugio, una specie di ombroso tunnel nel verde, e ci buttiamo a capofitto galvanizzati dallo scrosciare d’acqua sempre più vicino. Il primo spiazzo che troviamo, largo e pianeggiante, ci attrae ma nonostante la stanchezza vince infine la voglia di scoperta, attraversando il fiume seguendo il sentiero che prosegue tra enormi radici. Dopo qualche metro sbuchiamo, sudati e puzzolenti, in quella che sembra la veranda all’aperto di un locale sulla spiaggia: stuoie e tappeti colorati tutt’intorno, un grande anello di pietre per il fuoco in centro, un’amaca, un materasso avvolto in una conica zanzariera bianca appesa ad un ramo, ripiani in bambù tra un tronco e l’altro carichi di stoviglie, utensili, cibo in scatola, una chitarra e un cachon nell’angolo; situato su un’ansa di un secondo torrente, il campo è dotato di altalene sulle rapide e un canotto, un altare con incensi e una piccola statua in argilla in posa yoga, un altro angolo di stuoini con libri impilati. Immobilizzati dalla bizzarra scoperta, incontriamo infine lo sguardo pacifico e divertito di due ragazzi seduti a gambe incrociate fuori da una tenda seminascosta nella boscaglia: non sapendo se chiedere ‘permesso’, lasciamo solo un cordiale ‘shalom’ e attraversiamo la veranda proseguendo oltre. Il bosco riprende il sopravvento, ma non per molto: di nuovo sfociamo in una radura ricoperta di stuoie, due tende e parecchi vestiti a stendere; non mancano stoviglie in riva al torrente e l’immancabile altalena in corrente, proprio su una piccola cascatella che anticipa una piscinetta naturale. L’assenza di cibo fresco e l’ordine nella disposizione degli utensili tradisce il non utilizzo della piazzola, impossibile dire da quanto. Proseguiamo. Il terzo slargo non è una radura e non è arredato, ma si notano visibili segni di una precedente civilizzazione: un cordolo di pietre bianche traccia una stradina da quella che è una evidente piazzola ricavata in un nicchia del canneto alla riva del torrente, e da lì prosegue arrampicandosi un albero che si protende sulle acque, con pietre sempre più piccole su su a perdita d’occhio. Con le stesse pietre, nella sabbia del torrente è disegnato un cuore immerso nella corrente. Sterpaglie crescono un po’ ovunque, ma è tutto sommato un terreno pianeggiante: all’unanimità si sceglie di stabilizzarci qui. Torniamo velocemente a riprendere gli zaini e il frigo, al di là del guado, sfilando nuovamente davanti ai nostri super sistemati vicini, sempre seduti a gambe incrociate fuori dalla tenda, lui in calzoncini, lei avvolta in un lenzuolo e una chioma di rasta.
La piazzola è un parco giochi: acqua, sabbia, terra, pietre, legna, fogliame, corde sparpagliate in giro dai precedenti inquilini. Per prima cosa tiro in piano un fazzoletto di terra su cui piantare la tenda, costruendo un piccolo gradino di contenimento in pietre a secco e scavando con un sasso piatto, mentre gli altri rimettono in sesto la nicchia tra le canne e montano la prima tenda, con tanto di tettoia in bambù per ripararla dal sole. Sistemati gli zaini e organizzato l’angolo cucina sui sassi della sponda, io e Ygal costruiamo un tavolino in bambù su cui prepariamo le tazze per il caffè, mentre l’acqua bolle sul fuoco.
Le giornate, da venerdì a domenica, passano tra letture, bagni nell’acqua gelida, elaborati pasti alla brace, caffè turchi, vino, la costruzione di una sdraio in bambù e cordiali rapporti di vicinato. Da venerdì sera a sabato pomeriggio la piazzola in disuso viene occupata da un gruppetto eterogeneo: israeliani, una francese e tre italiani! Non capitano spesso incontri di connazionali, tanto meno su un torrente in mezzo al nulla nel profondo nord. Chiacchiero a lungo con Marco, di Andria, finito a Tel Aviv al seguito della moglie israeliana conosciuta a Bologna: ‘Lavoro se ne trova, ma la vita è cara.’ Sono ancora indecisi se stabilizzarsi in Israele, e quindi lui non ha ancora investito sull’ebraico: al lavoro, servizio clienti per giocatori di poker online, parla solo inglese e italiano. ‘Qua aprono i siti: se anche hai un’idea, ti serve uno che di fatto sappia realizzarla programmando un computer, e a Tel Aviv è pieno di gente così. Tirano su start-up, le avviano e le rivendono. Certo – aggiunge – prova ad aprire un’azienda da zero in Italia: tra burocrazia e tasse ti passa la voglia.’ Parliamo sorseggiando un caffè dalla mia scorta personale di Lavazza e della sua macchinetta Bialetti in riva, passando dalla politica a Caparezza che, mi dice, bazzica tra Barletta, Molfetta e Andria e capita di bersi una birra insieme: ‘Un bel tipo, un ragazzo a posto’. La piazzola su cui si sono sistemati, racconta Marco, è in prestito da un tizio che abita lì da qualche mese ma che è andato via per qualche giorno; hanno ricevuto il permesso da quelli della prima piazzola, suoi amici, anche loro sono qui fissi. Mi presta una pentola e una salsa al prezzemolo per la pasta di mezzogiorno, e al momento dell’addio sono baci e abbracci.
Stav, nella prima piazzola, è arrivato un mese e mezzo fa. Dopo l’esercito ha girato il Sud America nove mesi, ha lavorato negli Stati Uniti, poi in Svezia, poi India e infine è tornato in Israele. Ha lavorato come operaio a Plasson, la fabbrica di Maagan Michael, e adesso si è preso un po’ di tempo per sé, in questo bosco senza elettricità: mangia, dorme, legge, scrive, chiacchiera con gli amici che vengono a trovarlo per qualche giorno o con i campeggiatori di passaggio come noi. Sta bene qui, col suo cane Geremy, e pensa di starci ancora un po’. ‘Ho la macchina per andare a rifornirmi di cibo, ma non ho ancora dovuto rifare benzina. Non ho tasse né bollette, e tantissimo tempo’. Tecnicamente, spiega, è vietato dormire e accendere fuochi nella zona, ma ‘non so se avete notato, siamo su un’isola tagliata dalla deviazione del torrente, davanti e dietro. I pachanim – nel suo gergo ‘vigilanti’ – sgomberano gli abusivi, ma non hanno voglia di bagnarsi i pantaloni, quindi non vengono fin qui.’ La sua amica ha invece vissuto quattro anni in Grecia col fidanzato italiano, il che le permette di scambiare due parole in lingua originale sia con me che con Ester la greca, oltre al classico giro in India e qualche altra scappatella in Europa centrale con un altro amico che siede con noi attorno al fuoco. Il vecchio nudista che era con loro nel pomeriggio, invece, è un assiduo frequentatore del luogo e, sospetto, manutentore dell’altarino dove l’abbiamo visto meditare. Chiedo a Stav se sa qualcosa di pannelli solari portatili, e immediatamente mi sbrodola taglie e prezzi. Mi racconta che in India aveva conosciuto due americani che, dopo anni di lavoro d’ufficio, si erano messi come riempitori di contenuti di siti free lance e ormai da mesi girovagavano l’Indocina, attaccandosi ogni tanto a qualche presa di corrente, mandando il lavoro in rete e ricevendo lo stipendio in rete. A 26 anni, Stav vive in un bosco senza elettricità, come Robin Hood. Ancora increduli e ammirati, il giorno della partenza gli lasceremo frutta e verdura, pane e il nostro tavolino di bambù, la sdraio invece portandomela a casa, da cui ora sto scrivendo sul terrazzino della mia nuova camera; nella risalita verso il moshav incrociamo un ragazzo che chiede ‘sapete come si arriva all’isola di Stav?’.
Per tutto il viaggio di ritorno, in nostalgico silenzio con la testa appoggiata al finestrino del minivan, medito sul senso di abitare in città, oggi. Shifra una volta in classe ci disse che i kibbutz fecero di necessità virtù, quando non avendo abbastanza tempo ed energie per lavorare nei campi e badare ai figli inventarono la ‘stanza dei bambini’ delegando a uno il compito di essere genitore per tutti, e questo divenne il nuovo modello educativo: la sua lettura è che l’ottimizzazione delle energie addirittura nell’allevamento dei figli era per i genitori accettabile solo giustificandola con il mito del valore del collettivismo; allo stesso modo l’esistenza della città è dovuta a una precisa necessità storica, quando si leggeva solo su libri e i libri erano costosi, e quindi la ‘stanza dei libri’, quando i film si vedevano solo attraverso un enorme proiettore, e quindi la ‘stanza dei film’, quando i dati erano stipati in pesanti archivi di carte ingiallite, e quindi la ‘stanza dei documenti’, quando le idee giravano a voce, e quindi ‘stanza delle discussioni’, quando i dipinti rimanevano su tela quindi ‘stanza dei dipinti’: stipare le persone attorno a questi centri di diffusione dell’informazione era il modo più efficiente per renderla accessibile, più che la sua duplicazione o il suo trasporto. Biblioteche, cinema, uffici, forum, musei, oggi queste funzioni sono svolte con maggior efficienza da piccoli aggeggi portatili di plastica e metallo che trasportano l’informazione dritta nella nostra mano a velocità superiore di qualsiasi mezzo di trasporto urbano che trasporti noi verso di essa: i motivi per spostarsi o rimanere in città vanno cercati in altre proprietà tipiche dell’ambiente urbano, liberandosi dalla superstizione della sua intrinseca virtù. Eppure oggi ancora pochissimi ci pensano, come invece ha fatto il furbo neohippy Stav, e i più restano infognati in sporche, affollate metropoli addirittura troppo stressati e occupati per godersi i bei palazzi e i negozi ma agognando, dalla finestra sul grigio in un ufficio in cui lavorano da soli su un computer, il prossimo ponte per fare un giro in un bel posto. Quel che di unico la città offre è l’appagamento estetico: la bellezza dei palazzi (quelle stesse ‘stanze’ così importanti perchè importanti per tutti), le luci, il rumore della vita che scorre, e le relazioni umane, cioè la possibilità di raggiungere decine di migliaia di persone nello spazio di due fermate di metro. Ma quanto ai servizi, cos’ha il cittadino che Stav non possa ricevere? Tutta la grande categoria di servizi che va sotto il nome di ‘informazione’, come si è visto, arriva all’isola di Stav, su smartphone o computer con internet satellitare. Con un minimo di volontà (una fonte di energia elettrica), Stav può anche inviare notevole quantità d’informazione al mondo: i suoi disegni, i suoi diari, le sue foto, i suoi saluti; considerata l’inflazione di tempo che comporta il suo stile di vita senza trasporti, senza code, senza distanze, forse più di quanta ne invia mediamente il cittadino, pur fisicamente nel ‘centro’ del mondo. La vera differenza della vita in città rispetto all’isola di Stav, Yotvata o Maagan Michael, in grado diverso, non sta né nella quantità di relazioni umane (quante persone si possono amare alla volta, anche quando ci si trova a Città del Messico circondati da venti milioni di abitanti? Al più, una città di venti milioni di abitanti offre in teoria una vasta scelta su quali relazioni intrattenere, ma la pratica, come tutti sanno, è ben più abitudinaria) né nell’accesso all’informazione, ma nei prodotti: la spesa la fai al moshav, McDonald si trova ad Hadera, per una nuova Mercedes devi andare ad Haifa, tal vestito di Valentino lo compri solo in una boutique di Milano o Parigi. Per chi è affezionato alle cose uscire dalla città è un suicidio, ma per chi invece è appassionato d’altro, dalla montagna ai templi hindù, dal giardinaggio al rumore dell’acqua che scorre in un torrente, eppure non è disposto a vivere come un eremita dell’VIII secolo, è fondamentale rendersi conto che finalmente possiamo salvare capra e cavoli in innumerevoli e fantasiosi modi. Per convincermi della veridicità di questo pensiero, stacco la testa dal finestrino e tiro fuori di tasca il piccolo smartphone: prima mando una mail all’università di Gerusalemme, poi scrivo un messaggio su facebook ad un amico in New Jersey, dove non sono neanche mai stato. Fuori scorrono le brulle colline della Galilea, in lontananza svetta il minareto di un villaggio arabo, e nessuno si accorge delle relazioni che sto intrattenendo col mondo.
Ehi Lore, questa isola sarebbe quella che si vede in alcune foto che hai postato?! …dici davvero che col cell riesci a stare in contatto con tutto il resto?! che ri riesce a “staccare la spina” a molte comodità, sicurezze a altro?!
Non con ‘tutto’ il resto: mi manca il tuo faccione barbuto, il sapore del salame, il profumo di Brengaz. Però per quanto riguarda l’informazione digitalizzata, mi arriva tutto…ed è una marea d’informazione che può comprendere gli studi, il lavoro, lo svago, le notizie. Ci siamo abituati, quindi non ci facciamo caso, ma fino a pochissimi anni fa venire in Israele voleva dire perdere qualsiasi contatto con casa. Adesso è molto più facile viaggiare, perchè è molto più difficile ‘staccare la spina’. Pensa, adesso ti scrivo dalla piscina del kibbutz circondato da bambini bardati di occhialini, maschere, pinne e mute!