Dif-ferire

La differenza tra gruppi sociali esiste ed è legittima, per quanto difficile da spiegare. La loro disuguaglianza davanti alla legge anche esiste ma, almeno dal mondo in cui venivo, non è legittima: non dovrebbe esserci, e là dove sussiste è intesa come accidente di un sistema sostanzialmente ugualitario. Il sistema israeliano, invece, ha la sua sostanza nella disuguaglianza. Nè al livello psicologico dei suoi cittadini, né al livello giuridico della sua Costituzione (che infatti non esiste), né a livello filosofico del concetto di Stato Ebraico è assunto il principio di uguaglianza degli individui davanti alla legge; piuttosto, è assunta la loro omogeneità rispetto al gruppo di appartenenza. Il militare è obbligatorio solo per gli ebrei; gli arabi hanno un passaporto diverso; i moduli d’iscrizione all’università comprendono il campo ‘religione’; sia a Yotvata che a Maagan Michael c’è un programma di studio-lavoro esclusivamente per etiopi; l’accesso alla Spianata delle Moschee è riservato ai musulmani per la maggior parte della settimana; uno studente americano ebreo ha gli studi pagati a differenza di uno studente americano non ebreo; ai posti di blocco di uscita dalla West Bank vengonocheckpoint sistematicamente fermati e perquisiti i giovani palestinesi, saltuariamente i giovani turisti, mai gli ebrei; i membri dei kibbutz sono tutti ebrei ashkenaziti [fatto clamoroso, a Maagan Michael è appena diventato membro un etiope, scatenando un inferno di critiche soprattutto dai parte dei colleghi etiopi che lo tacciano di tradimento]; dal villaggio arabo nostro vicino partono fuochi d’artificio ogni sera perchè così celebrano i matrimoni, due settimane fa una ‘nostra’ festa in spiaggia sono partiti due fuochi e immediatamente è arrivata la jeep della polizia; per un arabo che prenota un tavolo in un buon ristorante in centro non c’è posto, per un ebreo sì; solo gli ebrei possono possedere e portare armi da fuoco; gli autobus arabi lavorano anche di sabato, contrariamente alla legge d’Israele; nelle cittadine musulmane conservatrici è vietato vendere e bere alcol; la polizia s’incarica di bloccare le strade d’ingresso ai quartieri ortodossi ebrei di shabbat; a due ebrei è vietato il matrimonio civile; ai nuovi immigrati solo di padre o nonno ebreo è assegnata una zona a parte nel cimitero; i russi vendono carne di maiale senza venire multati; ai giovani arabi è vietato l’accesso alla Spianata delle Moschee; gli studenti delle yeshiva (scuole di Talmud) sono esonerati dall’esercito. Quel che se ne ricava è che ogni strada, ogni edificio, ogni abitazione, ogni individuo è potenzialmente soggetto ad una giurisdizione diversa (principio, questo, inaccettabile per il mondo post-rivoluzione francese) purchè il suo gruppo di appartenenza sia abbastanza consistente da poter essere riconosciuto nella sua specialità: come questo riconoscimento avvenga, è un universo di segni. Al bambino-soldato israeliano (19-20 anni) al posto di blocco basta uno sguardo alla macchina per sapere se sei turista (etichetta della macchina a noleggio) o residente, uno sguardo alle facce per sapere di quale continente sei, due parole per riconoscere se sei arabo israeliano o arabo palestinese, due domande per sapere se stai mentendo: è il loro lavoro, raccontano i miei amici ex-soldati, e in breve imparano a farlo bene; il vecchio con la barba bianca all’ingresso della Spianata ti dice che non puoi entrare ancora prima che provi a raccontargli che sei musulmano, e nel caso avessi davvero la faccia tosta ti chiederebbe di recitare il versetto della settimana, testimoni i due enormi soldati israeliani col mitra in mano; è buon costume che la polizia israeliana non interrompa i matrimoni arabi per multare chi ha sparato i fuochi; per evitare al malcapitato o al provocatore una pioggia di sassi sul parabrezza, le forze dell’ordine chiudono i quartieri ortodossi all’ingresso di shabbat come misura preventiva. Da buon italiano, cresciuto giocando sporco sul limite dell’implausibile-eppur-credibile per non pagare il biglietto del bus, mi salta agli occhi la ristretta, eppur sempre esistente, casistica dell’avere ragione pur contro ogni evidenza: ‘ho l’accento di Ramallah perchè mio padre lavora nell’ONU, e da Nazareth ci siamo trasferiti là per due anni quando io ne avevo uno’; ‘non so il versetto della settimana perchè mi sto giusto ora convertendo’; ‘abbiamo sparato due fuochi in spiaggia perchè la nostra amica greca si sposa, e in Grecia si fa così’; ‘sono buddista e non voglio macchine sotto casa mia perchè c’è altissima probabilità che schiaccino bestioline sacre come topi e scarafaggi’. Così si possono produrre un’infinità di scuse o motivazioni reali per sfumare, allungare, troncare, confondere l’appartenenza sociale, tutte legittime (nel mondo dell’uguaglianza) e tutte irrilevanti (nel mondo della disuguaglianza) di fronte all’imperativo di mantenere la pace sociale in questa polveriera di conflittualità: i casi eccezionali, le minoranze troppo minoritarie, le paranoie individuali restano puntualmente inascoltate, perchè non possiedono una massa critica da poter generare un problema. D’altra parte, poi, nessuno in questo Paese è disposto a omologarsi e a cedere anche solo un’unghia della propria identità (figuriamoci mentire deliberatamente!) per riceverne vantaggio: l’orgoglio dell’appartenenza tira avanti i programmi per etiopi non-si-sa-perchè-etiopi e la discriminazione al ristorante, e non dà tregua all’odio che ha sempre bisogno di una differenza a cui aggrapparsi.. Eppure basterebbe telefonare a nome di ‘Amos Levi’ piuttosto che ‘Mohammad Al-Maroui’, dice l’italiano per cui in fondo ‘è soltanto un nome, l’importante è che si mangi bene’. Per spiegare come girano le cose mi convinco che, in Israele, la disuguaglianza sia il vero diritto per cui ciascuno combatte, sempre pronto a sottolineare alla prima occasione cosa non-è. ‘Siamo tutti uguali’ è il peggior insulto al primato di fondatori dello Stato dei kibbutznikim, alla natività degli arabi, alla divina bontà dei cristiani, allo status di vittime tra le vittime dei profughi etiopi, alla nobiltà di sangue dei russi, al libertinismo dei telaviviani, alla elezione tra gli eletti degli haredim, al sincretismo dei drusi. Sempre tesi tra superbia e rassegnata incomprensione, la chuzpah, altezzosa sfacciataggine, è il carattere saliente degli abitanti d’Israele: ‘Le cose stanno così. Ma non sto a spiegarti perchè perchè tanto non mi capiresti’. Inevitabile che lo Stato di queste persone, di queste mentalità, di queste oggettive differenze tanto aspre e tanto vicine, si faccia garante della spartizione: l’europeissimo mito dell’integrazione non ha chances in un posto così. Il compromesso non può avere luogo nelle abitudini e nelle convinzioni degli individui, ma solo nel loro luogo di residenza: circondarsi di filo spinato e cancelli gialli, come nei kibbutz, o convenire su impalpabili confini da una strada all’altra, come tra Mea Shearim degli haredim e Mas ìáåù öðåò ,îàä ùòøéí -àåô÷ òåìîéJdiyya degli arabi, la soluzione del conflitto in Israele è sempre dare un po’ a te e un po’ a me, e che ognuno faccia quel che vuole all’interno del proprio recinto. Se da noi il problema è dove fissare il compromesso sulle regole uguali per tutti (crocifisso in ospedale sì, crocifisso in ospedale no; cellulare in classe sì, cellulare in classe no; ICI sui luoghi di culto sì, ICI sui luoghi di culto no; negozi aperti di domenica sì, negozi aperti di domenica no) qui il problema è dove fissare il compromesso territoriale: dove finisce il quartiere dei giovani e dove inizia quello delle famiglie che voglio silenzio di notte; dove finisce la collina dei ricchi e dove inizia quella dei poveri; dove finisce la città degli ebrei e dove inizia quella dei musulmani; dove finisce Israele e dove inizia Palestina. I cancelli, che si chiudono e si aprono a seconda di chi li bussa, sono per me insieme fascino e condanna di questo posto. 

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