Yotvata

Dal 6 Novembre mi trovo come lavoratore alla pari (nel gergo locale ‘volontario’) al kibbutz Yotvata, il più fiorente tra l’arcipelago di comunità nel profondo sud del deserto del Negev, a pochi chilometri da Eilat. In Israele. La prima ragione per cui sono qui è imparare l’ebraico in vista dei prossimi due anni di studio universitario a Gerusalemme; la seconda è vivere e osservare da vicino uno degli esperimenti di convivenza comunitaria più singolari dell’umanità: un comunismo reale fondato sull’ugaglianza di mezzi e non la massimizzazione dell’utile. Yotvata, a cui sono stato assegnato dalla sorte, si presta a entrambi gli scopi, ospitando una numerosa comunità di israeliani (tra tutto, più di mille abitanti) ed essendo rimasta fedele alla gestione collettivistica delle risorse, a differenza di molti kibbutz che si sono ‘venduti’ alla privatizzazione.

La società del kibbutz consiste di abitanti veri e propri (kibbutznikim), centinaia di lavoratori esterni senza ‘cittadinanza’ assunti nella latteria, nei campi di datteri, nell’autogrill e nel parco gestiti dalla comunità e provenienti da un po’ tutto Israele, una trentina di volontari. Le famiglie locali abitano attorno al cuore pulsante della vita comunitaria: il refettorio, l’agorà dei gossip del kibbutz. Vivono in villette monopiano tanto belle quanto mal tenute, rispetto agli standard europei: tubi e cavi a vista, condizionatori, muri scrostati, comodissime poltrone macilente, in pieno confortevole sciattume mediorientale; seguono i lavoratori esterni in un anello periferico di malandate case a due piani, sporche oltre che sciatte, dotate di locale verandato che a seconda dell’evenienza funge da cucina-barbecue, sala da ballo, fumeria di narghilè, officina, libreria-studio per i più acculturati; infine noi, in due blocchi di case monopiano adiacenti agli appartamenti temporanei dei ragazzi figli di kibbutznikim tra i 17 e i 19 anni: non ancora membri a tutti gli effetti, non più figli a tutti gli effetti, vivono in appartamentini a gruppi di quattro o cinque per gli ultimi due anni di liceo, quando già iniziano a prestare manodopera per la comunità che li nutre, li educa e gli pagherà gli eventuali futuri studi universitari. A 19 anni, per la durata dei tre anni di servizio militare, si sposteranno in nuove residenze, bene più spartane, all’ingresso del kibbutz, dove passeranno solo i weekend in licenza.

Noi volontari, col fatto che prendiamo la permanenza più come una vacanza che come un lavoro (nonostante le otto ore che ciascuno di noi deve offrire alla comunità), abbiamo addobbato i nostri spazi con ogni genere di comfort: dalle casse e subwoofer per le serate di raggae e samba a televisioni per le proiezioni collettive, dai divani sfondati per la sigaretta/narghilè della buona notte ai tavolini improvvisati per briscola o scacchi, dagli stenditoi per le mutande lavate a mano ai cesti di frutta (la frutta e il latte sono gratis e sempre a disposizione per tutti) per lo snack pomeridiano. Leggenda vuole che i primi volontari, la cui collocazione storica precisa si è ormai persa ma è sicuramente antica, come testimonia la cabina del telefono per le chiamate internazionali, avessero raccattato in giro del mobilio in disuso e inaugurato così l’arredamento, tradizione che tuttora conserviamo: i limiti di proprietà sono sfumati, e nonostante ciò possa sembrare altamente rischioso per l’individuo, è in realtà altamente proficuo per la società. Qualora ci serva un sedia in più, gironzoliamo tra il retro delle villette e gli angoli bui delle stradine battute da biciclette o macchine elettriche, addocchiamo la preda e iniziamo un appostamento/corteggiamento di qualche giorno: se mostra palesi segni di usura, se non viene toccata nè spostata, allora è diritto comune acquisirne possesso. Ad oggi non si sono verificate lamentele al riguardo, il che ci fa supporre che questo sistema di ridistribuzione della ricchezza possa contemporaneamente fungere da riciclaggio degli scarti. Forse per questa balzana abitudine, il quartiere dei volontari è nominato ‘Gipsy Ville’. Oltre a questo, abbiamo a nostra disposizione un bunker dotato di wi-fi, televisione, divani e tavolini per le fredde notti che, già adesso, si fanno sentire con 15 gradi di escursione dal giorno.

Le case sono semplici: un piano, due camere, un cucinino utilizzato solo per dolcetti o stuzzichevoli porcherie, dal momento che mangiamo tutti alla mensa comune dove peraltro io lavoro, un bagno, letti e armadi. Della consunta semplicità il bagno è sicuramente il miglior testimone: in senso antiorario, nel giro di 3 metri quadri stanno un lavandino con specchio e mensolina sormontato da una lampadina penzolante, una tenda doccia che copre un tubo a due metri d’altezza da cui esce acqua, sia calda che fredda a seconda di come si aggiusta l’equilibrio tra due rotelle sgangherate, una finestrella, un gabinetto e un porta carta igienica, la quale è fornita settimanalmente insieme a un profumo per WC, un tombino nell’angolo di pendenza. Il tutto rigorosamente arrugginito, incrostato (tubature e giunture) o scrostato (muri e porte). Nonostante la mostruosa apparenza, il bagno è in realtà un capolavoro d’ingegneria civile: la tenda che arriva a qualche decina di centimetri da terra, lasciando rimbalzare fuori una massiccia dose di schizzi, consente di lavare ad ogni doccia il pavimento, che poi spazziamo verso il tombino con un lungo attrezzo lavavetri. Il lavandino di fronte alla doccia consente di lavare mutande e calze sporche (non conviene mandarle in lavanderia tutti i giorni visto il frequente ricambio che ne facciamo, sudando e sporcandoci al lavoro) con lo stesso shampo con cui ci s’insapona. Infine, stando in piedi davanti al gabinetto nell’atto di adempiere ai propri bisogni si può contemporaneamente ammirare il meraviglioso cielo stellato dalla finestrella.

Tutto è studiato e costruito verso la massimizzazione della funzionalità: il messaggio che l’architettura manda è in primo luogo il valore del lavoro, colonna portante dell’ideologia kibbutz. A creare il resto della magia di quest’Isola che Non C’è di noi bambini sperduti dalla Korea, dalla Colombia, dal Perù, dalla Danimarca, dalla Svezia, dalla Cina, dall’Ecuador, ci pensa la natura meravigliosa e terrificante in cui siamo immersi dall’alba sulle montagne giordane ai grilli allo spuntare delle prime di miliardi di stelle.