Golan delle meraviglie

Netta e Yael mi passano a prendere venerdì di buon ora, di ritorno da Tel Aviv in visita ad una sorta di magazzino che rivende in nero attrezzatura da trekking importata dall’estero: in realtà, casa privata di un giramondo che più che vendere zaini vende i propri consigli. In corsa sulla nostra 4×4 alle pendici del monte Carmelo, che dalla costa a sud di Haifa sale dolcemente verso l’entroterra in un’unica foresta di pini interrotta qua e là da campi e fattorie di kibbutz, mi riportano i percorsi consigliati sull’Himalaya, il sistema degli ostelli in Nepal e dell’affitto di guide-sherpa, i posti da evitare in India e le cose da vedere in Cambogia: partiranno ad ottobre armate di zaino e poche centinaia di dollari, per sei mesi. Come un’intera generazione d’israeliani. Una famosa battuta vuole che quando chiedi a un thailandese qual è la nazione più grande del mondo, ti rispondono a botta sicura ‘Israele’, invasi come sono di ragazzi vagabondi freschi di esercito. Nel tenue traffico mattutino passiamo mucche al pascolo indisturbate, tralicci della corrente sul nulla di praterie già secche, arcipelaghi di rocce bianche affioranti sulla terra rossa; alle fermate dei bus arabi vendono fragole e albicocche, alle piazzole di sosta e alle aree picnic drusi vendono miele, labane e pitta; mai il contrario. Passiamo Dalyyat El Carmel, città drusa di discrete dimensioni, e iniziamo la discesa verso la valle di Jezreel che ospita Afula, Nazareth, Karmiel e si spinge a est fino al Kineret, il Lago di Tiberiade. Le colline vuote cedono il passo ai campi coltivati, l’orizzonte si riempie di casette, che siano quelle quadrate bianche o grige degli arabi o triangolari col tetto rosso degli ebrei, i venditori agli incroci sono rimpiazzati da centri commerciali; quel che resta invariato sono i falchi che girano alti in cielo.

In poco più di mezzora siamo in vista del lago. Scivoliamo dietro Tiberia, in cresta sui monti che segnano la fine del continente europeo, costeggiando immensi campi di angurie; scendiamo due curvoni in mezzo ai frutteti che ci portano dritti al ‘tombino’ del Kineret, il cosidetto Yardenit, custode di eventi storici di grandiosa ispirazione per generazioni: migliaia di cristiani (ho sempre visto indiani e thailandesi, chissà perchè) ogni anno si recano in pellegrinaggio sulle primissime anse del Giordano in uscita dal lago, a pochi chilometri da dove Gesù scelse i suoi e camminò sulle acque, e dove con tutta probabilità San Pietro tirava in secco le reti, per pregare o farsi battezzare, nella falsa convinzione che questo sia il luogo in cui Giovanni battezzò Gesù. In realtà, il fatto avvenne con tutta probabilità in prossimità dell’ingresso del Giordano nel Mar Morto, di fronte a Gerico, ma vista la conflittualità del territorio (attualmente frontiera tra Israele e Giordania, in pieno territorio occupato), negli anni successivi alla guerra dei Sei Giorni il ministero del turismo spostò il sito battesimale. Ma vabè. A pochi passi da questo grande bluff giace Degania, il primo kibbutz. Fondato da un manipolo d’immigrati ancora sotto l’impero ottomano nel corso della cosiddetta Seconda Aliah, la piccola fattoria visse la grande storia del movimento kibbutz: a Degania pochi ragazzini decisero dal nulla di vivere senza proprietà privata, discutendo ogni notte sul da farsi e votando per alzata di mano; in una di queste notti, in prossimità della nascita del primo figlio del kibbutz, votarono per la sua condivisione tra tutti i membri, tutti ugualmente mamma e papà; sempre lì il secondo figlio nato nel kibbutz venne ‘rapito’ dalla sala comune dalla madre che si chiuse con lui in casa, simbolo della proprietà inviolabile, scatenando l’indignazione e l’insurrezione degli altri membri; la coppia infine prese il figlio e se ne andò, lasciando la finestra di casa infranta da una pietra lanciata da un membro del kibbutz, simbolo della proprietà violata. Il figlio della discordia era Moshe Dayan, futuro eroe di guerra, capo delle forze armate e ministro d’Israele; a Degania visse e scrisse Gordon, l’intellettuale che tradusse la religione ebraica nell’ideologia kibbutz divinizzando il lavoro, e Rachel, la poetessa che s’innamorò di quella vita; sempre a Degania avvenne il primo grande scisma ideologico, che diede vita a Degania Bet, lo stesso che divise in seguito molti altri kibbutz; sia Degania Alef che Degania Bet furono in prima linea nella guerra d’indipendenza del 1948. Degania, con Ein Harod, Ein Gev, il kibbutz Kineret e decine di altri insediamenti rivoluzionari, fece della conca bollente del lago di Tiberiade ‘la Mecca’ della nuova ideologia di socialismo agricolo. Peccato che Degania, tecnicamente parlando, non fu mai un kibbutz ma rimase sempre una kvuzah (gruppo) rifiutando di accettare, o immaginare, l’estensione del sistema a decine o centinaia di membri…ed ecco il secondo bluff. In questo nodo di cartelli per siti monumentali e musei, noi pieghiamo di nuovo sui pianori occidentali, entrando nel kibbutz Kineret. Ora privatizzato, resta un meraviglioso insediamento tra datteri, manghi, banani e una fabbrica di cisterne per l’acqua in plastica. Entriamo finalmente nel negozio di attrezzatura da trekking, famoso in tutto il nord per la sua qualità: sarà grande come il reparto calzini di un qualsiasi Decathlon di periferia. I due commessi, navigati kibbutznikim un tempo giramondo, consigliano le ragazze con premura e un pizzico d’invidia, ma sempre nei modi israeliani: ‘E perchè vuoi uno zaino da 68 litri? Ti serve da 45, è più che sufficiente. Quando lasci il nord non ti porti dietro i vestiti pesanti, ti basta poco. E prendi questo con l’apertura verticale, è più comodo quando disfi lo zaino tutti i giorni. Guarda, questo ti va bene’. I ‘forse..’, ‘prova questo…’, ‘io credo…’, ‘ti consiglio…’, ‘cosa ne pensi…?’ sono troncati di netto. Ci sono risposte, ciascuno le sue, e al più si chiede per investigare, per poter rinforzare la propria posizione: ‘Ma quanti siete ad andare? Ma che giro fate? Allora no, non andate per di là, vi conviene fare quell’altro giro’. Difficile da descrivere, una ruvida assenza di filtro formale che lascia spazio all’impertinenza ma che fa anche trapelare un sincero interesse. Quanto alle scarpe, le marche italiane sono le più prestigiose. Alla fine, restiamo nel negozietto più di un’ora e mezza, con tanto di caffè nero nel cucinino nascosto tra le magliette termiche.

Arriviamo a Kanaf per le tre passate. Il sole è caldissimo e il vento fortissimo, Netta assicura che d’estate è sempre così. Dal moshav, in cresta alle spaccature verticali a est del lago, abbiamo lo specchio lucente del Kineret ai nostri piedi e la macchia bianca di Tiberiade proprio di fronte, bella solo da lontano; la terra è nera, vulcanica, e rocce smussate spuntano ovunque dalle fratture che tagliano l’altipiano allargandosi verso il lago, un non-so-che di Jurassic Park. E siamo sulla placca continentale asiatica. Kanaf conta ottanta famiglie, una crescita verticale dalla sua fondazione dopo la conquista del Golan nella guerra dei Sei Giorni. A differenza del kibbutz nel moshav esiste la proprietà privata su lavoro, casa, macchina, arredamento, istruzione dei figli, ma i mezzi di produzione sono finanziati in modo cooperativo: le stalle per le mucche da latte, i vigneti, il parco acquatico giù sul Kineret, il ristorante. Le spese sono finanziate con fondi comuni di membri del moshav e allo stesso modo sono ridistribuiti gli utili, anche se in modo indiretto: praticamente tutti, compresi i figli dei fondatori, lavorano o lavoricchiano nel moshav, ottimizzando risorse. Anche il campo da calcio, i gommoni e le canoe sul lago, le gite annuali, lo scuolabus fino a Katzrin sono finanziati da sovrattasse alla comunità, ed è una gran bella vita. Tra moshav e kibbutz nel Golan se ne contano 32, e con l’unica cittadina dotata di scuola e ospedale, Katzrin, si arriva a un totale di 20.000 abitanti, esattamente come la popolazione drusa che abita i quattro villaggi ai piedi dell’Hermon, il monte al confine con Siria e Libano: vale a dire, il Golan è un’enorme, fertile altipiano vuoto. Verde come l’Irlanda d’inverno e giallo come la Sardegna d’estate, è costantemente punteggiato di mucche per terra ed enormi rapaci in cielo, indifferenti al filo spinato e agli inquietanti cartelli ‘PERICOLO MINE’ tutt’attorno. Cordoloni di rocce ovali, nere e porose creano strane geometrie tra i cardi, impossibile dire se naturali o residui di vecchi confini tra pascoli; poche strade tagliano le pianure buttandosi d’improvviso in curvoni giù per le gole scalate da torrenti perlopiù stagionali, ora gli unici a preservare chiazze verdi di canneti in mezzo alle sterpaglie. In queste fratture, tra cascatelle e grotte, sono stati pervenuti resti di civiltà e uomini primitivi. Qua e là, dal panorama offerto da queste discese, si vedono segni di incendi di campo appena passati; gli alberi sono pochissimi, un po’ come in tutta Israele, ma qui non c’è ancora stato tempo di ripopolarli. In effetti, il Golan è un’Israele in Israele, quanto a storia: conquistato nel 1967, era pressochè vuoto. Le poche migliaia di siriani che vi si trovavano erano per lo più soldati di stanza al confine, alloggiati in villaggetti nelle retrovie di campi minati e bunker, gli stessi ancora visibili al ciglio della strada; al nord, i drusi non sono scappati ma sono diventati israeliani tranne pochi che, scommettendo sulla prossima riconquista siriana, rifiutarono la cittadinanza, la stessa che ora rimpiangono. Sta di fatto che il governo finanziò una ‘aliah’ interna dal centro, secondo gli standard israeliani troppo affollato, alla nuova terra da coltivare e mettere a frutto, e così fu. Da Tel Aviv e dalle città nei dintorni partirono comitive di pionieri che, insieme con l’esercito, sminarono appezzamenti di terreno ed edificarono nuovi insediamenti, prevalentemente moshav: l’ondata di socialismo che portò alla nascita di Degania, 50 anni prima, era già in declino. Ogni mese, mi racconta Netta, si scopriva una nuova sorgente, una nuova casata, una nuova ‘vasca dei comandanti’, piscine artificiali ad uso esclusivo degli ufficiali siriani, si aprivano nuovi sentieri e riserve naturali. Anche i problemi di vicinato d’Israele qui si fanno più stringenti, essendo la Siria a un tiro di mortaio. Dopo lo Yom Kippur l’ONU stabilì zone cuscinetto sul confine, e puntuale è l’incontro con le loro camionette. Pure la gioventù del Golan sembra rimasta agli esordi della storia d’Israele: seconda generazione di fondatori, sono cresciuti con tanto spazio a disposizione, sia per giocare che per immaginare. Dove saranno i prossimi insediamenti? Di cosa si manterranno? Saranno moshav o qualcos’altro? Che ne facciamo dell’enorme deserto che occupa più di metà d’Israele? I ragazzi del Golan si conoscono tutti, e sono cresciuti senza criminalità, senza inquinamento, senza traffico, senza droghe da discoteca, girando su jeep tra camminate e pub; la zona è totalmente a prova di arsim, i tamarri israeliani.

Il cielo del Golan di notte è un’impressionante calotta di stelle, indisturbata da luci artificiali per chilometri; il vento resta, e diventa gelido. Come in montagna, l’unico rumore è l’eco di latrati di cani (o lupi? E’ la zona con più alta densità di lupi del mondo, mi disse una volta Hudi) e dello strano tubare di uccelli.

Dopo qualche giorno, torno in Golan con la gita dell’ulpan. Non mi faccio un cruccio di perdermi la strada, dormendo di filato dal parcheggio del kibbutz Maagana Michael a parcheggio del kibbutz Snir, ai piedi del monte Hermon: sono appena le otto del mattino. Dopo una breve colazione entriamo nel parco naturale, giù per un sentiero sospeso sulla gola in cui scroscia il Banias (arabizzazione del nome latino Panias, perchè gli arabi non sanno dire la ‘p’). L’acqua è cristallina e va a formare profondi giri e piscine naturali, decine di trote stanno immobili in corrente pronte ad acchiappare qualsiasi cavalletta o vermicello imprudente. Siamo già nella stagione secca, eppure non riusciamo a sentirci dal rombo delle cascate. Mai mi sarei aspettato uno spettacolo del genere in Israele. Dopo qualche spiegazione sulle origini del torrente e il suo percorso giù fino al Giordano e quindi al Kineret, proseguiamo la risalita passando un vecchio mulino, tutto in muro a secco, ora occupato da chiosco di gelati tenuto da un druso e una ‘piscina dei comandanti’ zampillante acqua di sorgente. Poco più in alto usciamo dal bosco in una radura con resti archeologici e una grotta incastrata in una parete verticale di granito rosato: il vecchio tempio di Pan con annessa città, nel II secolo capitale della sottoprovincia sotto il dominio romano. Qui ci aspetta l’autobus, e ricominciamo l’arrampicata sull’Hermon.

Stavolta il panorama mi tiene sveglio: da un pianoro immerso nei vigneti si staglia di fronte a noi una vecchia fortezza ottomana, in alto, in basso si stende in lontananza Kiriat Shmona, la città più a nord d’Israele, e Ghajar, la cittadina araba tagliata a metà dal confine col Libano: etnicamente siriani alawiti (la stessa corrente dell’islam a cui appartiene il dittatore Assad, seppur minoranza rispetto alla maggioranza sunnita), il villaggio rimase escluso dalla conquista del Golan del ’67 e terra di nessuno finchè gli stessi abitanti, considerandosi siriani, chiesero di essere annessi ad Israele con il resto della popolazione locale. Nelle due guerre del Libano Israele invase ed occupò il Libano meridionale fino al ritiro nel 2000, ma intanto il villaggio si era esteso in territorio libanese: che fare? Mantenendo il controllo ad interim sul villaggio Israele cercò di liquidare il problema o annettendo l’intero villaggio, o cedendolo al Libano, ma con scarsi risultati dato che la prima opzione si scontra con la legge internazionale, la seconda con la volontà degli abitanti che si considerano prima di tutto siriani, in secondo luogo israeliani naturalizzati ma in alcun modo libanesi, Paese di cui non sanno e non vogliono sapere nulla. In assenza di un interlocutore diretto in quanto Hezbollah, non riconoscendo lo Stato d’Israele, non può intavolare trattative diplomatiche, l’ONU s’incarico della spartizione del villaggio, conferendo la parte sud agli israeliani e la parte nord ai libanesi. Tutti i cittadini hanno cittadinanza israeliana, tutti parlano ebraico, ma quelli che risiedono dopo il checkpoint che divide l’intero villaggio da Israele (il villaggio non è fisicamente diviso al suo interno) hanno difficoltà burocratiche per spostamenti, acquisti, servizi, nonostante per la maggioranza lavorino in Israele. In totale, Ghajar conta circa 2000 abitanti, più o meno la capienza della Scala di Milano: come riescono a tirare su un tal polverone da così poche briciole?


Continuando a salire passiamo il primo dei quattro villaggi drusi che cingono l’Hermon: si presentano come normali villaggi arabi, ciascuna casa col proprio stile, un po’ sconnessa e pacchiana, e in perenne work in progress: armature in ferro a vista sull’ultimo piano, garage senza infissi, vialetti sterrati, sedie a dondolo su pile di sacchi di cemento. Le insegne, sia in arabo che in ebraico, indicano ristoranti, sale da thè, negozi all’ingrosso, elettronica, cianfrusaglie; qua e là, in pieno centro urbano, pascolano capre su quelle che da noi si direbbero aiuole. Le macchine in giro, oltre alle immancabili camionette ONU, sono jeep e pick-up, camioncini o piccoli rimorchi: le smart non vanno di moda, quassù. Alla periferia non mancano piccoli capannoni e fabbriche, ma l’attività principale è l’agricoltura, dalle mele ai melograni, e la pastorizia, mucche, capre e pecore. I drusi parlano arabo e appartengono alla grande famiglia degli arabi tuttavia, a differenza dei beduini, non sono musulmani: drusi è prima di tutto una religione sincretica che unisce credenze giudaiche, cristiane e islamiche più qualche produzione propria, ed è caratterizzata da una profonda chiusura. I drusi non hanno accesso a tutti i misteri della loro Fede, riservati ad una classe sacerdotale di iniziati, ed è vietata la conversione in entrambi i sensi: non si può diventare drusi se non per nascita ed è impossibile smettere di essere druso. Credono nella metempsicosi, la trasmigrazione delle anime dopo la morte, e in un unico principio creatore che ciclicamente si incarna in uomini, sua epifania vivente. Hanno una propria bandiera, appesa ovunque nei loro villaggi, ma non hanno pretese d’indipendenza, obbedendo all’autorità statale sotto cui si trovano: spesso perseguitati e mai al governo di uno Stato sovrano druso, se si trovano in Libano sono fedeli al Libano, e così in Siria, Giordania, Israele; i pochi drusi nel territorio occupato si ritengono ‘palestinesi’. Parecchi di loro si arruolano nell’esercito israeliano e addirittura nella Polizia di Confine, uno dei corpi più violenti che tratta le grane coi i palestinesi, pur non essendo per loro obbligatorio. Segni di riconoscimento sono i lunghi e folti baffi neri su barba sfatta, il largo copricapo bianco, il gilet e i pantaloni alla zuava neri: personaggi comici. A Maagan Michael ne lavorano molti, e pare siano persone molto calme, dolci. I miei contatti si sono sempre limitati all’acquisto di pittah drusit, la loro specialità con labane e zatar. Poco fuori passiamo una delle tante basi militari mentre una batteria di carri sta facendo addestramento: tutti col naso incollato al finestrino incrociamo lo sguardo di questi ragazzini più giovani di noi, vestiti di verde e armati fino ai denti, in piedi in cerchio attorno all’ufficiale, e a me sale un certo languorino. Forse invidia: a chi non piace giocare alla guerra?

Il bus ci scarica in cima al Bental (‘figlio della rugiada’), ‘montagna’ panoramica ex bunker fortificato siriano: in pratica, una collinetta su questa distesa pianeggiante che sbiadisce nella foschia. Salendo un pezzettino a piedi Yaron non perde l’occasione per un po’ di macabra ironia: ‘Dai, che se siamo fortunati vediamo anche la guerra in Siria dalla prima fila’. Dal pianoro in vetta, arredato di balzane statue in ferro attorno al reticolo di bunker e trincee in cemento armato, lo sguardo spazia dall’Hermon a nord, alla Siria a est, alla valle del Giordano che si apre a sud. Reuven, la guida, si prepara con visibile commozione a raccontarci la sua esperienza dello Yom Kippur, non prima di averci indicato Qunetra, su cui siamo letteralmente affacciati, la città in cui due settimane fa avvenne uno scontro pesante tra le forze dei ribelli e l’esercito di Assad: tutt’attorno alla cittadina è bruciato, esattamente fino alla larga strada di separazione con Israele (il cuscinetto ONU), e alcune case sono visibilmente collassate. Al di qua, i trattori dei kibbutznikim passano pacifici tra i filari di vigne, in una nuvola di polvere. In effetti, in occasione degli scontri una folla accorre su quest’altura per godersi ‘i fuochi d’artificio’. Gli unici a risentirne sono i drusi, che hanno il miglior mercato delle mele presso i siriani: con l’intensirsi della situazione con Israele i 300 caschi blu austriaci si sono ritirati (allora a che serve il cuscinetto?), chiudendo l’unico passaggio del confine. Nel 1971 Reuven fu tra i membri fondatori di un kibbutz qui vicino, il che significa prosciugare paludi, portare materiali, costruire case, arare campi: ‘Vedete questo vigneto, qui nella conca (tra parentesi, questa conca è la bocca di un vulcano spento)? Ecco, vedete quel bosco? L’ho piantato io con le mie mani…e questo vi dice quanto sono vecchio. Durante i secoli di dominio ottomano tutta la zona, compresi Siria e Libano, venne lentamente disboscata. I pini che vedete in ovunque in Israele, dal centro a Gerusalemme alla Galilea a qui in Golan, non sono speci autoctone, qui probabilmente era tutto querce. Ma per qualche motivo si decise di piantare pini e cedri. Ad ogni modo, lo Stato continua a piantare alberi, e piano piano riconquistiamo ombra sul deserto’. Faccio un giro con lo sguardo, e dal confine con la Siria in effetti ricomincia il deserto di sterpaglia. Reuven diventa responsabile della sicurezza del kibbutz; nel giorno di Yom Kippur del 1973 si trova come tutti a casa dei genitori nel centro, a festeggiare il giorno più importante del calendario ebraico; al risuonare della sirena accende la radio e si butta in strada: attacco congiunto di Siria ed Egitto; prende un passaggio verso il nord, poi un altro con degli amici che trova per strada, anche loro diretti a difendere il kibbutz. Per iniziare a far paura l’esercito egiziano deve passare il Sinai e il deserto del Negev, due giorni secchi di marcia; dalla Siria, come constatiamo, bastano pochi minuti. Sulla strada verso il piccolo kibbutz vengono attaccati da un caccia, ‘e in queste situazioni non ci sono eroi: cerchi solo di nasconderti dal rumore dei motori e speri che la raffica non ti pigli. Ci buttiamo nei fossi al ciglio della strada, e il nostro camion salta per aria. Arriviamo al kibbutz che è ormai sera, le case sono intatte ma tutte con un buco di due metri nel muro. Siamo tutti in apprensione per l’acquario di pesci di un nostro amico, e miracolosamente lo troviamo intatto sulla sua colonnina, in una stanza ribaltata da una bomba. Tutt’intorno vagano polli terrorizzati, che qualcuno ha avuto l’accortezza di spingere fuori dai pollai, come anche le mucche dalle stalle. Per prima cosa evacuiamo le donne e i bambini, mandandole a fondo valle a bordo delle jeep. Ci arriva l’ordine di evacuare il kibbutz, e lo rifiutiamo: lo difenderemo coi denti! Ci chiama il ministro della Difesa in persona che ci dice: ‘vi trovate esattamente in mezzo tra i nostri carri e quelli siriani, in poche ore ci sarà lo scontro. Fate voi’. Non ci resta che ripiegare, e sperare che rimanga qualcosa della nostra nuova casa’. Ci mostra un leggero declino in mezzo a due colline, pochi chilometri a nord nella foschia: là avvenne lo scontro, con solo 15 carri israeliani contro qualche centinaio siriani: alla fine, i siriani ripiegarono. Punta a un altro pianoro giù nell’afa della valle del Giordano: un altro battaglione di carri siriani arrivò indisturbato fino là, ma non ricevendo ordini dal reggimento non avanzò oltre; in un’ora potevano arrivare al Kineret. Alla fine della guerra Israele respinse l’attacco e anzi conquistò altri chilometri, ma l’Alto Commando vietò all’artiglieria di attaccare Damasco, ormai a una trentina di chilometri. Pochi mesi dopo, il confine venne riportato alla linea precedente. Yaron ascolta in silenzio in un angolo, ed è il primo a voltare le spalle e ritornare al bus: lui era invece nel Sinai, e le cose non gli andarono così ‘bene’. Ma di questo ci parlerà lunedì.

Dopo pranzo a Katzrin, e provvidenziale visita alla birreria artigianale della Basalt, torniamo al Giordano dove facciamo ‘rafting’: in realtà, una molle discesa lungo il fiumiciattolo, tra giunchi ed eucalipti, che ben si presta a digerire la giornata. Ah, Golan, forse un’esperienza ancor più forte del Negev.

Benvenuti a bordo

Con l’imminente fine dell’ulpan sono nell’aria discorsi di cosa ne sarà di noi dopo, del dove andremo e del cosa faremo, e di un inespresso ‘…se mai ci rivedremo’. Il grande balzo in avanti è per chi come me resta qui, salvo eventuale breve ritorno a casa, vale a dire i nuovi immigrati che ormai hanno in Israele la propria casa. La mia posizione è scomoda, dal mio punto di vista, e insolita, dal loro. Il visto da volontario non mi permette di cercare lavoro, la lettera di accettazione all’università mi costringe a uscire da Israele per ottenere il visto da studente, la mia non-ebraicità preclude l’accesso ai servizi dell’ufficio immigrazione e assorbimento, con gli incentivi economici e i programmi d’integrazione annessi, e in tutto questo il mio ebraico è nei mesi divenuto il più forbito del gruppo, suggerendo erroneamente una mia acquisita cittadinanza e quindi arruolamento nell’esercito. Puntualmente, alla tavolata di ulpanisti di turno, mi tocca ricordare a qualcuno la terra di nessuno in cui mi trovo e quindi la ristrettezza di opzioni a me concesse: ‘ah già, tu non ti arruoli’; ‘ah già, tu non puoi applicare a Masa’; ‘ah già, tu non hai l’università pagata’; ‘ah già, tu non puoi rivolgerti all’ufficio di collocamento’, queste le puntuali risposte con una punta d’imbarazzo.

L’assistenza congiunta del kibbutz e dello Stato al nuovo immigrato è impressionante. Se è vero che in Israele vige una spartizione per compartimenti stagni, all’interno del compartimento ‘ebrei israeliani’ opera un’efficiente fabbrica dell’integrazione di cui l’aliah, l’immigrazione ebraica, non è che l’ultimo passo dopo un lungo e articolato processo educativo. Dall’arcipelago dei movimenti sionisti in giro per il mondo (conosco bene la struttura dei movimenti laici, ma non mancano quelli religiosi che si appoggiano a yeshivot), paragonabili ai nostri gruppi parrocchiali, viene allevata una giovanissima elite dirigente di educatori e amministratori a carico dell’Agenzia Ebraica che, attingendo a finanziamenti di privati e alle casse dello Stato d’Israele, offre una vasta gamma di viaggi, viaggini o viaggioni in Israele: anno di lavoro in kibbutz, sei mesi di Taglit (letteralmente, ‘scoperta’), periodi di lunghezza variabile di servizio in comunità [da qui le battute ricorrenti ‘ho sempre voluto fare qualche anno di studio-lavoro in Italia…dov’è l’Agenzia Ebraica quando serve?’ o ‘wow sei australiano? Ma la vita costa cara là…non si può fare aliah in australia, vero?’]. Quel che c’è di comune a questi programmi, facenti capo all’agenzia Masa (letteralmente, viaggio’), è l’assistenza totale ai partecipanti per tutta la durata del soggiorno, dai compagni di viaggio alla residenza al lavoro alle lezioni al materiale di studio alle gite, e il principale scopo d’instaurare nei partecipanti un legame emotivo con Israele. Loro la definiscono un ‘ritrovamento’ del legame con Israele e delle radici ebraiche in Israele, coerenti col credo sionista che muove l’intero sistema. Non so la percentuale di successo di questo ‘innamoramento’ indotto d’Israele, quel che è certo è che un buon investimento: oltre ai relativamente pochi partecipanti che faranno aliah, tutti gli altri torneranno come educatori ai movimenti sionisti del luogo d’origine esaltati e preparati sulla storia ebraica e la storia d’Israele, l’ideologia sionista e il nazionalismo ebraico attuale, la situazione politica e le opportunità economiche della nazione, più un’infarinata generale su filmografia e musica locale…come una piccola laurea in israelismo. A questo universo pre-aliah ho accesso solo indiretto, attraverso i racconti dei miei compagni di corso dai vari Movimenti della Gioventù o Habonim o Dror di Argentina, Cile, Messico, Stati Uniti, Germania, Australia. Ciò di cui ho testimonianza diretta è la fase attuale, cioè la prima accoglienza in Israele e la metodica costruzione di un’identità cultural-popolare israeliana attraverso l’ulpan, con lettura di testi sull’approvvigionamento idrico e abitudini alimentari, ascolto di poesie e canzoni storiche, visita a luoghi dall’alto valore simbolico, commento di notizie ed eventi di cronaca storici per l’opinione pubblica, insegnamento a tavolino di modi di dire e slang. Fino ad arrivare al passo successivo: l’uscita dal kibbutz.

Per chi è in età da servizio militare, la questione è piuttosto semplice: pensa a tutto l’esercito, dalla prima intervista ai test attitudinali alla collocazione nelle diverse unità all’equipaggiamento, con relativo sussidio economico per chi è senza famiglia; tra questi, proprio ieri quattro, su 15 che avevano fatto richiesta, sono stati confermati come soldati ‘adottivi’ del kibbutz: continueranno a vivere qui e lavorare otto ore al giorno fino alla data di arruolamento, per poi tornare a Maagan Michael solo nei weekend e nei giorni di licenza. Un terno al lotto. Per chi non si arruola, la rosa delle possibilità si allarga: a seconda degli interessi individuali, l’ufficio ulpan procura appuntamenti ai diversi uffici pertinenti, chi per trovare lavoro, chi per un secondo ulpan, chi per borse di studio (fino ai 27 il nuovo immigrato ha diritto ad una laurea pagata, o triennale o specialistica), chi per alloggio in campus. Nell’ultima settimana siamo stati bombardati di visite di ‘facilitatori’ dal ministero dell’immigrazione, dall’esercito, dall’assistenza sociale, dall’ufficio di collocamento che forniscono dettagli e prendono contatti con gli interessati. In classe è un continuo di gente che entra e che esce, di emissari con biglietti con date, nomi e numeri di telefono, di burocrati che si presentano a nome di istituzioni, di revisioni di curriculum vitae, di telefonate dall’ufficio ulpan a tal sportello per definire la consegna del ‘pacco’. Oggi è stato il turno dell’Agenzia Ebraica nella veste di una certa Dina dal macchinoso accento russo accompagnata da due soldati della burocrazia militare (i famosi ‘jobnikim’ senza onore rispetto alla virilità dei combattenti), che a turno hanno prelevato i nuovi immigrati per accertarsi della loro sistemazione dopo l’ulpan e, se necessario, ritoccarla. Oltre a questo, i nuovi immigrati si portano da casa una rete di amicizie personali di quelli che hanno fatto aliah prima di loro: possono essere amici della scuola ebraica o dei movimenti, amici di famiglia, parenti israeliani o israelianizzati o semplici conoscenti. Rarissimo che qualcuno arrivi in Israele completamente solo. Salvo poche eccezioni, infatti, i nuovi immigrati provengono da nuovi ghetti in cui la comunità ebraica risiede, lavora, si conserva dal contatto con i goy. Non esistono cancelli né cartelli, né in Uruguay né in Australia, piuttosto quartieri dove se qualcuno vende casa preferisce venderla alla giovane coppia ebrea piuttosto che a non-ebrei, dove se si libera un posto di lavoro hanno la precedenza gli ebrei, dove i negozi chiudono anche il sabato, dove c’è la sinagoga, dove il volontariato si fa presso organizzazioni religiose ebraiche, dove nei vari centri culturali e librerie si organizzano incontri e interviste con israeliani, dove sposare un non-ebreo è una stranezza e può sollevare qualche critica, dove tutti sanno tutto di tutti. Si parla infatti di comunità da poche decine di migliaia di persone, come dire un paesino all’interno di metropoli anche da milioni di abitanti, perdipiù in strettissimo contatto con le comunità di altre città e altre nazioni, così che non è raro per un cileno avere amici in comune con un messicano di Città del Messico perchè ‘avevamo fatto un campo estivo insieme con duecento ragazzi da tutto il Sud America’. Qualche giorno fa Ygal, parlando appunto del che si farà dopo Maagan Michael, profetizza che questo è il momento dei sud americani: ‘In Israele si va a ondate d’immigrazione – inizia a spiegarmi con tono fermo, ed esce la preparazione di un anno di Taglit – ci sono stati i russi, i polacchi, i nord africani, gli yemaniti, gli etiopi, gli indiani, poi di nuovo i russi, un milione negli anni ’90. Ora è il nostro turno: non è raro trovare israeliani venuti dal Sud America o israeliani che parlano spagnolo, e anche a scuola lo insegnano come terza lingua a scelta con l’arabo, la carne del Mercolit [negozio alimentare del kibbutz, dove Ygal lavora] è importata dall’Uruguay e senti in giro di feste asado [tipo di grigliata di carne], e ovunque trovi la yerba per il mate [sorta di thè di erbe amare da bere da un’ustionante cannuccia in metallo, a qualsiasi ora del giorno e della notte].’ Con tutto questo, il mondo dei miei compagni nuovi immigrati è molto più piccolo di quel che sembra, sempre così puntellato di relazioni personali interoceaniche e intercontinentali e tutte misteriosamente catalizzate in questo fazzoletto di terra polverosa. Un che dì claustrofobico, e da una parte ringrazio il mio status da turista in balia degli eventi e di me stesso. D’altra parte mi accorgo che ciò che mi manca è una rete di contatti: dopo quasi nove mesi di permanenza ho molte conoscenze ma non sussiste alcun canale preferenziale tra di esse. Nessuno è pagato per far girare il nome e il contatto di Lorenzo Pisoni alle persone a cui può servire e che a lui possono servire. Se ci penso, neanche in Italia ho una rete di assistenza simile, neppure dopo una vita da cittadino. Quel che non mi fa invidiare o odiare la disparità di trattamento rispetto ai miei omologhi nuovi immigrati è la sua proceduralità: non sono agganci capitati dal cielo ai miei compagni di classe perchè ricchi, potenti, figli di amici, massoni, lobbisti, affiliati di sorta ma in quanto possidenti un passaporto israeliano nuovo di zecca, a sua volta dovuto ad una dichiarazione di discendenza ebraica da parte del rabbinato. E’ una discriminazione sistematica fondata su criteri verificabili (speculare al criterio di discriminazione e sterminio nazista), il che me la rende accettabile in quanto onesta, seppur ideologica: gli ebrei, qui, hanno la precedenza, e nessuno si sogna di sancire una formale quanto ipocrita uguaglianza di diritti (anche se acquisissi la cittadinanza israeliana per matrimonio o residenza non avrei accesso alla facilitazioni, in quanto proprie dello status di ‘nuovo immigrato ebreo’). Tra i miei compagni nuovi immigrati ci sono enormi differenze: il religioso praticante, il figlio di papà americano, il cristiano di padre ebreo, il militare invasato, l’immigrato per necessità, il fervente sionista, il nostalgico kibbutznik, la nuova coppia sposata in vena di cambiamento. Ma non importa. L’assistenza al nuovo immigrato ebreo è completa ed efficiente, a prescindere dalla sua qualità individuale. Sarà il tempo a far emergere il valore dei singoli, chi nella carriera militare, chi in quella accademica, chi in una startup a Tel Aviv, chi nella stessa Agenzia Ebraica, ma intanto tutti hanno ricevuto pari e consistenti opportunità.

Credo che l’Italia, e ogni altro Paese che affronti massicce immigrazioni e conseguenti incompatibilità culturali, abbia molto da imparare dal sistema di assimilazione e integrazione israeliano: prima di tutto la lingua. Investire tanti soldi e tanta formazione nell’insegnare obbligatoriamente, in fretta e con alta percentuale di successo la lingua locale, perchè senza di essa è preclusa ogni altra possibilità di collaborazione, e attraverso di essa la storia, la geografia, la musica, il cinema, la società italiana. Paradossalmente, in cinque mesi ho ricevuto una panoramica più completa della musica popolare israeliana di quanta ne possiedo sulla musica popolare italiana. Infine installare un buon sistema di matching che metta in contatto le persone che hanno bisogno una dell’altra: il prof e lo studente, il datore di lavoro e il disoccupato, il padrone di casa e l’affittuario, il venditore e il cliente. Con un numero di telefono in mano e la garanzia di un ufficio ministeriale non si è mai abbandonati. L’integrazione è fattibilissima, è solo una questione di volontà politica, ma comporta un cambiamento anche da parte degli ospitanti: che il negozio sotto casa inizi a vendere la tal erbetta turca e che mio figlio a scuola studi il cinese come terza lingua è, certamente, una de-italianizzazione dell’Italia in cui sono cresciuto io.

Dif-ferire

La differenza tra gruppi sociali esiste ed è legittima, per quanto difficile da spiegare. La loro disuguaglianza davanti alla legge anche esiste ma, almeno dal mondo in cui venivo, non è legittima: non dovrebbe esserci, e là dove sussiste è intesa come accidente di un sistema sostanzialmente ugualitario. Il sistema israeliano, invece, ha la sua sostanza nella disuguaglianza. Nè al livello psicologico dei suoi cittadini, né al livello giuridico della sua Costituzione (che infatti non esiste), né a livello filosofico del concetto di Stato Ebraico è assunto il principio di uguaglianza degli individui davanti alla legge; piuttosto, è assunta la loro omogeneità rispetto al gruppo di appartenenza. Il militare è obbligatorio solo per gli ebrei; gli arabi hanno un passaporto diverso; i moduli d’iscrizione all’università comprendono il campo ‘religione’; sia a Yotvata che a Maagan Michael c’è un programma di studio-lavoro esclusivamente per etiopi; l’accesso alla Spianata delle Moschee è riservato ai musulmani per la maggior parte della settimana; uno studente americano ebreo ha gli studi pagati a differenza di uno studente americano non ebreo; ai posti di blocco di uscita dalla West Bank vengonocheckpoint sistematicamente fermati e perquisiti i giovani palestinesi, saltuariamente i giovani turisti, mai gli ebrei; i membri dei kibbutz sono tutti ebrei ashkenaziti [fatto clamoroso, a Maagan Michael è appena diventato membro un etiope, scatenando un inferno di critiche soprattutto dai parte dei colleghi etiopi che lo tacciano di tradimento]; dal villaggio arabo nostro vicino partono fuochi d’artificio ogni sera perchè così celebrano i matrimoni, due settimane fa una ‘nostra’ festa in spiaggia sono partiti due fuochi e immediatamente è arrivata la jeep della polizia; per un arabo che prenota un tavolo in un buon ristorante in centro non c’è posto, per un ebreo sì; solo gli ebrei possono possedere e portare armi da fuoco; gli autobus arabi lavorano anche di sabato, contrariamente alla legge d’Israele; nelle cittadine musulmane conservatrici è vietato vendere e bere alcol; la polizia s’incarica di bloccare le strade d’ingresso ai quartieri ortodossi ebrei di shabbat; a due ebrei è vietato il matrimonio civile; ai nuovi immigrati solo di padre o nonno ebreo è assegnata una zona a parte nel cimitero; i russi vendono carne di maiale senza venire multati; ai giovani arabi è vietato l’accesso alla Spianata delle Moschee; gli studenti delle yeshiva (scuole di Talmud) sono esonerati dall’esercito. Quel che se ne ricava è che ogni strada, ogni edificio, ogni abitazione, ogni individuo è potenzialmente soggetto ad una giurisdizione diversa (principio, questo, inaccettabile per il mondo post-rivoluzione francese) purchè il suo gruppo di appartenenza sia abbastanza consistente da poter essere riconosciuto nella sua specialità: come questo riconoscimento avvenga, è un universo di segni. Al bambino-soldato israeliano (19-20 anni) al posto di blocco basta uno sguardo alla macchina per sapere se sei turista (etichetta della macchina a noleggio) o residente, uno sguardo alle facce per sapere di quale continente sei, due parole per riconoscere se sei arabo israeliano o arabo palestinese, due domande per sapere se stai mentendo: è il loro lavoro, raccontano i miei amici ex-soldati, e in breve imparano a farlo bene; il vecchio con la barba bianca all’ingresso della Spianata ti dice che non puoi entrare ancora prima che provi a raccontargli che sei musulmano, e nel caso avessi davvero la faccia tosta ti chiederebbe di recitare il versetto della settimana, testimoni i due enormi soldati israeliani col mitra in mano; è buon costume che la polizia israeliana non interrompa i matrimoni arabi per multare chi ha sparato i fuochi; per evitare al malcapitato o al provocatore una pioggia di sassi sul parabrezza, le forze dell’ordine chiudono i quartieri ortodossi all’ingresso di shabbat come misura preventiva. Da buon italiano, cresciuto giocando sporco sul limite dell’implausibile-eppur-credibile per non pagare il biglietto del bus, mi salta agli occhi la ristretta, eppur sempre esistente, casistica dell’avere ragione pur contro ogni evidenza: ‘ho l’accento di Ramallah perchè mio padre lavora nell’ONU, e da Nazareth ci siamo trasferiti là per due anni quando io ne avevo uno’; ‘non so il versetto della settimana perchè mi sto giusto ora convertendo’; ‘abbiamo sparato due fuochi in spiaggia perchè la nostra amica greca si sposa, e in Grecia si fa così’; ‘sono buddista e non voglio macchine sotto casa mia perchè c’è altissima probabilità che schiaccino bestioline sacre come topi e scarafaggi’. Così si possono produrre un’infinità di scuse o motivazioni reali per sfumare, allungare, troncare, confondere l’appartenenza sociale, tutte legittime (nel mondo dell’uguaglianza) e tutte irrilevanti (nel mondo della disuguaglianza) di fronte all’imperativo di mantenere la pace sociale in questa polveriera di conflittualità: i casi eccezionali, le minoranze troppo minoritarie, le paranoie individuali restano puntualmente inascoltate, perchè non possiedono una massa critica da poter generare un problema. D’altra parte, poi, nessuno in questo Paese è disposto a omologarsi e a cedere anche solo un’unghia della propria identità (figuriamoci mentire deliberatamente!) per riceverne vantaggio: l’orgoglio dell’appartenenza tira avanti i programmi per etiopi non-si-sa-perchè-etiopi e la discriminazione al ristorante, e non dà tregua all’odio che ha sempre bisogno di una differenza a cui aggrapparsi.. Eppure basterebbe telefonare a nome di ‘Amos Levi’ piuttosto che ‘Mohammad Al-Maroui’, dice l’italiano per cui in fondo ‘è soltanto un nome, l’importante è che si mangi bene’. Per spiegare come girano le cose mi convinco che, in Israele, la disuguaglianza sia il vero diritto per cui ciascuno combatte, sempre pronto a sottolineare alla prima occasione cosa non-è. ‘Siamo tutti uguali’ è il peggior insulto al primato di fondatori dello Stato dei kibbutznikim, alla natività degli arabi, alla divina bontà dei cristiani, allo status di vittime tra le vittime dei profughi etiopi, alla nobiltà di sangue dei russi, al libertinismo dei telaviviani, alla elezione tra gli eletti degli haredim, al sincretismo dei drusi. Sempre tesi tra superbia e rassegnata incomprensione, la chuzpah, altezzosa sfacciataggine, è il carattere saliente degli abitanti d’Israele: ‘Le cose stanno così. Ma non sto a spiegarti perchè perchè tanto non mi capiresti’. Inevitabile che lo Stato di queste persone, di queste mentalità, di queste oggettive differenze tanto aspre e tanto vicine, si faccia garante della spartizione: l’europeissimo mito dell’integrazione non ha chances in un posto così. Il compromesso non può avere luogo nelle abitudini e nelle convinzioni degli individui, ma solo nel loro luogo di residenza: circondarsi di filo spinato e cancelli gialli, come nei kibbutz, o convenire su impalpabili confini da una strada all’altra, come tra Mea Shearim degli haredim e Mas ìáåù öðåò ,îàä ùòøéí -àåô÷ òåìîéJdiyya degli arabi, la soluzione del conflitto in Israele è sempre dare un po’ a te e un po’ a me, e che ognuno faccia quel che vuole all’interno del proprio recinto. Se da noi il problema è dove fissare il compromesso sulle regole uguali per tutti (crocifisso in ospedale sì, crocifisso in ospedale no; cellulare in classe sì, cellulare in classe no; ICI sui luoghi di culto sì, ICI sui luoghi di culto no; negozi aperti di domenica sì, negozi aperti di domenica no) qui il problema è dove fissare il compromesso territoriale: dove finisce il quartiere dei giovani e dove inizia quello delle famiglie che voglio silenzio di notte; dove finisce la collina dei ricchi e dove inizia quella dei poveri; dove finisce la città degli ebrei e dove inizia quella dei musulmani; dove finisce Israele e dove inizia Palestina. I cancelli, che si chiudono e si aprono a seconda di chi li bussa, sono per me insieme fascino e condanna di questo posto. 

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The Island

Dal Lago di Tiberiade in su per la valle del Giordano il paesaggio si fa ben presto selvaggio, i campi coltivati e le cittadine cedendo il passo a piccoli moshav o grosse fattorie; l’indicazione per rafting e kayak sul ‘fiume’, in realtà un torrentello secondo gli standard italiani, spuntano tra i filari di melograno e pompelmi. La nostra destinazione, a bordo del minivan servizio-taxi del kibbutz che abbiamo prenotato qualche giorno in anticipo, è Kfar Yshuv, moshav alle pendici dell’Hermon a un tiro di schioppo dal Libano, letteralmente. Sulla strada carichiamo due autostoppisti diretti a una festa da qualche parte nei boschi, lui di Gerusalemme lei di vicino Tel Aviv, e in cinque minuti ho un contatto per esigenze di affitti e appartamenti per studenti, più la conferma che la vita studentesca gerusalemita è di un altro livello rispetto alla snob e costosa Tel Aviv: alto, trilingue ebraico inglese spagnolo, diretto nel profondo nord per un evento nei boschi, volenteroso nel lasciarmi numero di telefono e nome su facebook, non posso che fidarmi del suo giudizio. Il minivan ci lascia sgommando nella polvere del piazzale del moshav, in piedi sotto il peso degli zaini, della borsa frigo bianca e rossa in prestito dall’ulpan e dei trenta gradi e passa del mezzogiorno. Siamo ora nelle mani di Ygal: ‘E’ un posto sul fiume, c’è un sentiero che parte dal moshav’. Il sentiero lo troviamo subito, e c’incamminiamo ciondolanti lasciando le belle case dei moshavnik per i canneti, i campi di grano, gli ulivi e i pompelmi; a perdita d’occhio, nella foschia del monte Hermon, il vuoto: non una casa, non un’antenna, non una strada. A quanto pare l’unico della compagnia (un uruguayano, un’argentina e una greca) a stupirsi sono io: com’è che in un paradiso come questo non ci viene ad abitare nessuno? Sarà passata una mezzora di cammino, a giudicare dalle ali di sudore sulla mia mgalietta, quando Ygal si ferma: ci siamo persi. Il fiume scroscia vicino, ma non c’è modo di raggiungerlo attraverso la giungla di giunchi che lo circonda. Chiama un’amica del moshav per direzioni, e dopo qualche conferma siamo di nuovo di strada, il pesantissimo frigo bianco e rosso sempre al nostro seguito. Tra gli ulivi, giù sul pendio, arriviamo nuovamente a un muro di canne. Lo sconforto passa quando infine scoviamo un pertugio, una specie di ombroso tunnel nel verde, e ci buttiamo a capofitto galvanizzati dallo scrosciare d’acqua sempre più vicino. Il primo spiazzo che troviamo, largo e pianeggiante, ci attrae ma nonostante la stanchezza vince infine la voglia di scoperta, attraversando il fiume seguendo il sentiero che prosegue tra enormi radici. Dopo qualche metro sbuchiamo, sudati e puzzolenti, in quella che sembra la veranda all’aperto di un locale sulla spiaggia: stuoie e tappeti colorati tutt’intorno, un grande anello di pietre per il fuoco in centro, un’amaca, un materasso avvolto in una conica zanzariera bianca appesa ad un ramo, ripiani in bambù tra un tronco e l’altro carichi di stoviglie, utensili, cibo in scatola, una chitarra e un cachon nell’angolo; situato su un’ansa di un secondo torrente, il campo è dotato di altalene sulle rapide e un canotto, un altare con incensi e una piccola statua in argilla in posa yoga, un altro angolo di stuoini con libri impilati. Immobilizzati dalla bizzarra scoperta, incontriamo infine lo sguardo pacifico e divertito di due ragazzi seduti a gambe incrociate fuori da una tenda seminascosta nella boscaglia: non sapendo se chiedere ‘permesso’, lasciamo solo un cordiale ‘shalom’ e attraversiamo la veranda proseguendo oltre. Il bosco riprende il sopravvento, ma non per molto: di nuovo sfociamo in una radura ricoperta di stuoie, due tende e parecchi vestiti a stendere; non mancano stoviglie in riva al torrente e l’immancabile altalena in corrente, proprio su una piccola cascatella che anticipa una piscinetta naturale. L’assenza di cibo fresco e l’ordine nella disposizione degli utensili tradisce il non utilizzo della piazzola, impossibile dire da quanto. Proseguiamo. Il terzo slargo non è una radura e non è arredato, ma si notano visibili segni di una precedente civilizzazione: un cordolo di pietre bianche traccia una stradina da quella che è una evidente piazzola ricavata in un nicchia del canneto alla riva del torrente, e da lì prosegue arrampicandosi un albero che si protende sulle acque, con pietre sempre più piccole su su a perdita d’occhio. Con le stesse pietre, nella sabbia del torrente è disegnato un cuore immerso nella corrente. Sterpaglie crescono un po’ ovunque, ma è tutto sommato un terreno pianeggiante: all’unanimità si sceglie di stabilizzarci qui. Torniamo velocemente a riprendere gli zaini e il frigo, al di là del guado, sfilando nuovamente davanti ai nostri super sistemati vicini, sempre seduti a gambe incrociate fuori dalla tenda, lui in calzoncini, lei avvolta in un lenzuolo e una chioma di rasta.

La piazzola è un parco giochi: acqua, sabbia, terra, pietre, legna, fogliame, corde sparpagliate in giro dai precedenti inquilini. Per prima cosa tiro in piano un fazzoletto di terra su cui piantare la tenda, costruendo un piccolo gradino di contenimento in pietre a secco e scavando con un sasso piatto, mentre gli altri rimettono in sesto la nicchia tra le canne e montano la prima tenda, con tanto di tettoia in bambù per ripararla dal sole. Sistemati gli zaini e organizzato l’angolo cucina sui sassi della sponda, io e Ygal costruiamo un tavolino in bambù su cui prepariamo le tazze per il caffè, mentre l’acqua bolle sul fuoco.

Le giornate, da venerdì a domenica, passano tra letture, bagni nell’acqua gelida, elaborati pasti alla brace, caffè turchi, vino, la costruzione di una sdraio in bambù e cordiali rapporti di vicinato. Da venerdì sera a sabato pomeriggio la piazzola in disuso viene occupata da un gruppetto eterogeneo: israeliani, una francese e tre italiani! Non capitano spesso incontri di connazionali, tanto meno su un torrente in mezzo al nulla nel profondo nord. Chiacchiero a lungo con Marco, di Andria, finito a Tel Aviv al seguito della moglie israeliana conosciuta a Bologna: ‘Lavoro se ne trova, ma la vita è cara.’ Sono ancora indecisi se stabilizzarsi in Israele, e quindi lui non ha ancora investito sull’ebraico: al lavoro, servizio clienti per giocatori di poker online, parla solo inglese e italiano. ‘Qua aprono i siti: se anche hai un’idea, ti serve uno che di fatto sappia realizzarla programmando un computer, e a Tel Aviv è pieno di gente così. Tirano su start-up, le avviano e le rivendono. Certo – aggiunge – prova ad aprire un’azienda da zero in Italia: tra burocrazia e tasse ti passa la voglia.’ Parliamo sorseggiando un caffè dalla mia scorta personale di Lavazza e della sua macchinetta Bialetti in riva, passando dalla politica a Caparezza che, mi dice, bazzica tra Barletta, Molfetta e Andria e capita di bersi una birra insieme: ‘Un bel tipo, un ragazzo a posto’. La piazzola su cui si sono sistemati, racconta Marco, è in prestito da un tizio che abita lì da qualche mese ma che è andato via per qualche giorno; hanno ricevuto il permesso da quelli della prima piazzola, suoi amici, anche loro sono qui fissi. Mi presta una pentola e una salsa al prezzemolo per la pasta di mezzogiorno, e al momento dell’addio sono baci e abbracci.
Stav, nella prima piazzola, è arrivato un mese e mezzo fa. Dopo l’esercito ha girato il Sud America nove mesi, ha lavorato negli Stati Uniti, poi in Svezia, poi India e infine è tornato in Israele. Ha lavorato come operaio a Plasson, la fabbrica di Maagan Michael, e adesso si è preso un po’ di tempo per sé, in questo bosco senza elettricità: mangia, dorme, legge, scrive, chiacchiera con gli amici che vengono a trovarlo per qualche giorno o con i campeggiatori di passaggio come noi. Sta bene qui, col suo cane Geremy, e pensa di starci ancora un po’. ‘Ho la macchina per andare a rifornirmi di cibo, ma non ho ancora dovuto rifare benzina. Non ho tasse né bollette, e tantissimo tempo’. Tecnicamente, spiega, è vietato dormire e accendere fuochi nella zona, ma ‘non so se avete notato, siamo su un’isola tagliata dalla deviazione del torrente, davanti e dietro. I pachanim – nel suo gergo ‘vigilanti’ – sgomberano gli abusivi, ma non hanno voglia di bagnarsi i pantaloni, quindi non vengono fin qui.’ La sua amica ha invece vissuto quattro anni in Grecia col fidanzato italiano, il che le permette di scambiare due parole in lingua originale sia con me che con Ester la greca, oltre al classico giro in India e qualche altra scappatella in Europa centrale con un altro amico che siede con noi attorno al fuoco. Il vecchio nudista che era con loro nel pomeriggio, invece, è un assiduo frequentatore del luogo e, sospetto, manutentore dell’altarino dove l’abbiamo visto meditare. Chiedo a Stav se sa qualcosa di pannelli solari portatili, e immediatamente mi sbrodola taglie e prezzi. Mi racconta che in India aveva conosciuto due americani che, dopo anni di lavoro d’ufficio, si erano messi come riempitori di contenuti di siti free lance e ormai da mesi girovagavano l’Indocina, attaccandosi ogni tanto a qualche presa di corrente, mandando il lavoro in rete e ricevendo lo stipendio in rete. A 26 anni, Stav vive in un bosco senza elettricità, come Robin Hood. Ancora increduli e ammirati, il giorno della partenza gli lasceremo frutta e verdura, pane e il nostro tavolino di bambù, la sdraio invece portandomela a casa, da cui ora sto scrivendo sul terrazzino della mia nuova camera; nella risalita verso il moshav incrociamo un ragazzo che chiede ‘sapete come si arriva all’isola di Stav?’.

Per tutto il viaggio di ritorno, in nostalgico silenzio con la testa appoggiata al finestrino del minivan, medito sul senso di abitare in città, oggi. Shifra una volta in classe ci disse che i kibbutz fecero di necessità virtù, quando non avendo abbastanza tempo ed energie per lavorare nei campi e badare ai figli inventarono la ‘stanza dei bambini’ delegando a uno il compito di essere genitore per tutti, e questo divenne il nuovo modello educativo: la sua lettura è che l’ottimizzazione delle energie addirittura nell’allevamento dei figli era per i genitori accettabile solo giustificandola con il mito del valore del collettivismo; allo stesso modo l’esistenza della città è dovuta a una precisa necessità storica, quando si leggeva solo su libri e i libri erano costosi, e quindi la ‘stanza dei libri’, quando i film si vedevano solo attraverso un enorme proiettore, e quindi la ‘stanza dei film’, quando i dati erano stipati in pesanti archivi di carte ingiallite, e quindi la ‘stanza dei documenti’, quando le idee giravano a voce, e quindi ‘stanza delle discussioni’, quando i dipinti rimanevano su tela quindi ‘stanza dei dipinti’: stipare le persone attorno a questi centri di diffusione dell’informazione era il modo più efficiente per renderla accessibile, più che la sua duplicazione o il suo trasporto. Biblioteche, cinema, uffici, forum, musei, oggi queste funzioni sono svolte con maggior efficienza da piccoli aggeggi portatili di plastica e metallo che trasportano l’informazione dritta nella nostra mano a velocità superiore di qualsiasi mezzo di trasporto urbano che trasporti noi verso di essa: i motivi per spostarsi o rimanere in città vanno cercati in altre proprietà tipiche dell’ambiente urbano, liberandosi dalla superstizione della sua intrinseca virtù. Eppure oggi ancora pochissimi ci pensano, come invece ha fatto il furbo neohippy Stav, e i più restano infognati in sporche, affollate metropoli addirittura troppo stressati e occupati per godersi i bei palazzi e i negozi ma agognando, dalla finestra sul grigio in un ufficio in cui lavorano da soli su un computer, il prossimo ponte per fare un giro in un bel posto. Quel che di unico la città offre è l’appagamento estetico: la bellezza dei palazzi (quelle stesse ‘stanze’ così importanti perchè importanti per tutti), le luci, il rumore della vita che scorre, e le relazioni umane, cioè la possibilità di raggiungere decine di migliaia di persone nello spazio di due fermate di metro. Ma quanto ai servizi, cos’ha il cittadino che Stav non possa ricevere? Tutta la grande categoria di servizi che va sotto il nome di ‘informazione’, come si è visto, arriva all’isola di Stav, su smartphone o computer con internet satellitare. Con un minimo di volontà (una fonte di energia elettrica), Stav può anche inviare notevole quantità d’informazione al mondo: i suoi disegni, i suoi diari, le sue foto, i suoi saluti; considerata l’inflazione di tempo che comporta il suo stile di vita senza trasporti, senza code, senza distanze, forse più di quanta ne invia mediamente il cittadino, pur fisicamente nel ‘centro’ del mondo. La vera differenza della vita in città rispetto all’isola di Stav, Yotvata o Maagan Michael, in grado diverso, non sta né nella quantità di relazioni umane (quante persone si possono amare alla volta, anche quando ci si trova a Città del Messico circondati da venti milioni di abitanti? Al più, una città di venti milioni di abitanti offre in teoria una vasta scelta su quali relazioni intrattenere, ma la pratica, come tutti sanno, è ben più abitudinaria) né nell’accesso all’informazione, ma nei prodotti: la spesa la fai al moshav, McDonald si trova ad Hadera, per una nuova Mercedes devi andare ad Haifa, tal vestito di Valentino lo compri solo in una boutique di Milano o Parigi. Per chi è affezionato alle cose uscire dalla città è un suicidio, ma per chi invece è appassionato d’altro, dalla montagna ai templi hindù, dal giardinaggio al rumore dell’acqua che scorre in un torrente, eppure non è disposto a vivere come un eremita dell’VIII secolo, è fondamentale rendersi conto che finalmente possiamo salvare capra e cavoli in innumerevoli e fantasiosi modi. Per convincermi della veridicità di questo pensiero, stacco la testa dal finestrino e tiro fuori di tasca il piccolo smartphone: prima mando una mail all’università di Gerusalemme, poi scrivo un messaggio su facebook ad un amico in New Jersey, dove non sono neanche mai stato. Fuori scorrono le brulle colline della Galilea, in lontananza svetta il minareto di un villaggio arabo, e nessuno si accorge delle relazioni che sto intrattenendo col mondo.

La rottura di un incantesimo

Appena finita una mattinata di lezione con Yaron, sostituto di Shifra che ha un qualche impegno con il Ministero dell’Istruzione, torno a casa con qualcosa di prezioso in tasca. Dopo una prima lezione sulla Shoah, abbastanza noiosa, dopo la pausa Yaron attacca con la Guerra dei Sei Giorni, ‘in preparazione della gita di giugno sul Golan dove si parlerà dello Yom Kippur, che può essere letto come il pareggio dei conti’. Ho bene in mente, da fresche letture, l’escalation militare egiziana antecedente all’attacco aereo preventivo di Israele, le acrobazie diplomatiche alla caccia dell’interventismo americano mai arrivato, l’aggressività siriana forte dei missili e dei quadri sovietici, il crollo nervoso di Rabin nel momento di massima spannung. Una guerra, i Sei Giorni, che è finita su molti libri, dai manuali di strategia ai romanzi d’avventura, ma che per la prima volta sento raccontata da un israeliano. Yaron era un ragazzino, ai tempi, e non ancora un ufficiale di carri armati come sarebbe stato nella guerra dello Yom Kippur, 6 anni dopo; tuttora riservista di alto rango nell’esercito e laureato in storia, si può permettere di raccontare quegli anni da fuori e da dentro, in grande e in piccolo, buttandoci lì rapporti causali che è difficile trovare solo sui libri o solo nei carri armati: ad esempio, perchè il canale di Suez, artificiale, sia un confine naturale in quanto richiede un piano strategico di attraversamento supplementare alla manovra d’attacco, mentre le alture del Golan sono un confine artificiale in quanto segnato dalla posizione di avanzamento delle jeep israeliane all’entrata in vigore del cessate il fuoco dell’ONU, ma che potenzialmente avrebbero potuto avanzare per chilometri senza bisogno di pianificare una nuova operazione; il coinvolgimento emotivo, per quei sei giorni che hanno più che quadruplicato il territorio israeliano da 20.000 kmq a 90.000, esubera dal capitolo sulla ‘ripresa economica dovuta all’insediamento, lo sfruttamento e lo sviluppo di infrastrutture nei territori conquistati’ e diventa palpabile fierezza di una generazione di nuovi piccoli Davide contro Golia (Egitto, Siria, Giordania e Iraq, che orchestrarono l’attacco congiunto) e il sentimento di invincibilità che invase una società di ex profughi di guerra e Olocausto divenuti modesti agricoltori in piccoli kibbutz, ancora senza piscine, cinema e zoo, odiati da tutti i vicini e sotto pressante minaccia di un nuovo sterminio.

Yaron mostra sulla mappa le linee di attacco nel Sinai, con la riapertura delle rotte marittime verso Eilat precedentemente chiuse da Nasser, e la chiusura di Suez divenuto nuovo fronte tra due Stati in guerra; mostra l’accerchiamento e la ‘liberazione’ di Gerusalemme fino all’ingresso nella città vecchia dalla Porta dei Leoni, con i soldati che si intrufolano trionfanti entro le mura del temp(i)o di Erode scavalcando il carro armato incastrato nella Porta, e la discesa giù giù verso Gerico e la valle del Giordano; mostra l’arrampicata sulle alture del Golan dal lago di Tiberiade sotto il fuoco siriano e la messa in fuga del nemico, le corse contro il tempo delle jeep con la bandiera israeliana sugli altipiani deserti e l’esultanza dei kibbuznikim di Ein Gev alla liberazione dai colpi di mortaio che da anni ostacolavano l’aratura dei campi, pur dentro trattori blindati. Col finire dell’esposizione dei particolari di strategia militare iniziano a comparire accenni alle motivazioni geopolitiche: la battaglia per l’acqua degli affluenti del Giordano nel nord, la provvidenziale occasione di ‘ri’-conquista dei luoghi sacri nel centro, il petrolio, Suez e lo stretto di Tiran nel sud. Con la coda dell’occhio, già noto l’attenzione dei nostri ferventi futuri soldati della classe calare. Quando poi Yaron lascia qualche secondo di pausa per iniziare la trattazione delle conseguenze della guerra, si percepisce la definitiva ritirata dei ‘rambo’ incalzata dall’ingresso dei ‘critici’ nell’arena: Ygal, Avi, Eitan, Eric, Rachel…io, siamo tutti sull’attenti curiosi di vedere, finalmente, come Yaron presenterà i risvolti politici della guerra che ha cambiato i connotati del Medio Oriente.

Quanto ai rapporti col mondo arabo, mette in chiaro che nella seduta della sconfitta Lega Araba del ’68 vengono emessi tre diktat: niente riconoscimento d’Israele, niente pace, niente trattative; la definisce il ‘fallimento diplomatico’ d’Israele che dimostra o scarsa lungimiranza o scarsa capacità politica: ‘un vero vincitore non vince solo la battaglia, ma la sfrutta per chiudere definitivamente la guerra alle proprie condizioni’. La totale chiusura del mondo arabo, umiliato ed espropriato, non poteva che portare al secondo capitolo, cioè la vendetta: lo Yom Kippur. Cita a proposito il comandante americano McArthur, la cui intuizione fu aiutare economicamente e guidare ideologicamente lo sconfitto della Seconda Guerra Mondiale (Germania e Giappone), onde appianare il senso di rivalsa e scampare il pericolo di una futura resa dei conti, come invece era accaduto tra Prima e Seconda Guerra Mondiale. In effetti, fu una buona intuizione.

Quanto alla politica estera, la guerra è una disfatta totale per l’unione sovietica, che vede vanificato il suo investimento di armi e addestramento in Siria ed Egitto, e un successo dell’America e della Francia che avevano rifornito l’arsenale israeliano, il tutto mentre lo stesso fronte è ancora in gioco in Vietnam come lo era stato in Korea: ‘i bambini si scannano, mentre i grandi li guardano e li incitano da lontano’. [Si legge proprio in questi giorni delle trattative tra Netanyahu e Putin affinchè questi ritiri la propria promessa di vendita di missili terra-aria alla Siria di Assad: i bambini continuano a giocare in cortile.] Il sodalizio militare con l’America è destinato a durare e a mutare, con gli anni, la politica e la società israeliana che, paradossalmente, ai tempi era la società più comunista al mondo.

Quanto alle conquiste territoriali israeliane, Yaron definisce la conquista della West Bank un punto di svolta epocale, in cui Israele cambia la propria fisionomia giuridica: da Stato ebraico democratico, diventa Stato ebraico imperialista, con una sacca di popolazione dominata e non riconosciuta al pari del resto della società civile. I cisgiordani conquistati, ai tempi poco più di un milione, non possono ricevere il diritto di voto salvo sottrarre a Israele il suo attributo ebraico: per la demografia del tempo, un milione di nuovi cittadini arabi avrebbe voluto dire sbilanciare i rapporti etnici interni di fatto conferendo il dominio alla maggioranza araba. Anche senza contare le decine di migliaia di profughi palestinesi in Libano, Giordania ed Egitto (i ‘fratelli’ arabi, questi, che nel 1948 conquistarono quella che nei piani ONU doveva essere Palestina di fatto ammazzandola nella culla, che nel ’67 rifiutarono ai palestinesi profughi di guerra l’asilo politico di fatto rinchiudendoli in scatolette di cemento come Gaza e oggi minacciano l’Autorità Palestinese di scomunica se osa scendere a patti con Israele, di fatto abbandonandola all’occupazione militare), il problema è rimasto immutato fino ad oggi con solo una crescita demografica da ambo le parti, con la popolazione palestinese a più di 3 milioni. Il giorno dopo la Guerra dei Sei Giorni, continua Yaron, la nazione si sveglia e scopre di avere due anime: una che si oppone a questa nuova Israele ebraica e non democratica, e che quindi auspica la nascita di uno Stato palestinese sovrano, e una che non vuole cedere su nessuno dei due fronti e, dice Yaron, procrastina con un ‘…agli arabi ci penseremo’, di fatto legittimando lo status quo dell’occupazione [dopo 3000 anni di attesa, nessuno si sogna di tenersi un Israele democratica ma non ebraica]. Le alternative sul tavolo dell’intransigente, in effetti, sono pressochè indicibili: o l’espulsione e deportazione in massa dei palestinesi in luogo da definirsi, o una soluzione finale di hitleriana memoria. Ad oggi, non esistono altri modi per far sparire le persone nel nulla. La frattura, sostiene Yaron, è la tragedia più grande che il suo Paese abbia mai vissuto: ‘certo, prima c’erano le solite diatribe tra ebrei marocchini e polacchi, tra russi e irakeni, perchè i peggiori antisemiti sono gli ebrei, ma eravamo un popolo e una nazione. Dai Sei Giorni in poi, invece, abbiamo una terra e una nazione senza amputazioni, è vero, ma due popoli: c’è chi non si riconosce in questo nuovo Stato e si rifiuta di servirlo, di fare il militare, di pagare le tasse per i coloni in una terra che non ci appartiene.’ Proprio la terra, haaretz, è perno dell’intera questione: le tombe di Abramo e i patriarchi a Hebron, ora ospite, in pieno centro, di un quartiere blindato abitato da 400 coloni armati fino ai denti e protetti da centinai di soldati, con  scuole, strade, ospedali riservate e le vie del mercato arabo ricoperte da una grata protettiva contro le pietre e i divani che piovono dalle finestre degli ebrei; la tomba di Rachele a Betlemme, ora rinchiusa dentro un’isola di mura in cemento armato di otto metri, nel cuore di un quartiere arabo ai cui abitanti è vietato uscire in terrazzo, e così tanti altri posti e posticini dove qualche millennio fa, stando ai versetti a noi pervenuti, successe qualcosa. Ora che è stata ricostituita l’Israele biblica, i religiosi non la mollano più: ‘anche sulla mappa sta meglio così’, rincarano. Com’è possibile che questa super efficiente Israele del 1967, tanto astuta da cogliere di sorpresa e annichilire tre eserciti regolari in meno di una settimana, non avesse tenuto in considerazione il problema demografico della conquista della West Bank e quindi la necessità di una successiva occupazione illegale ed immorale? – chiedo a Yaron – Generali e politici, cosa pensavano che sarebbe accaduto a quel milione di cisgiordani? Che sarebbero magicamente scomparsi da un giorno all’altro? Yaron spiega che c’era un piano, il piano Aalon, che prevedeva in seguito alla conquista la creazione di un cuscinetto di insediamenti israeliani sulla valle del Giordano, a est, che cingesse quindi completamente in una bolla la Cisgiordania, isolata dalla madrepatria. Meno male che non è stato attuato, mi viene da dire. Nonostante i palestinesi facciano di tutto per meritarsi l’occupazione, conclude Yaron, prima delle Intifade la coscienza pubblica israeliana era in profonda crisi: la percentuale di obiettori di coscienza e disertori in continua crescita come la prolificazione di movimenti pacifisti di slogan ‘terra-per-pace’. Dopo il recente ritiro completo delle forze israeliane da Gaza e l’immediata elezione di Hamas, con la conseguente pioggia di missili a cadenza regolare sul sud d’Israele, i movimenti pacifisti hanno perso gran parte della loro presa sul grande pubblico restituendo alla nazione un senso di appartenenza e unità, nell’odio e il timore per il nemico. La situazione è in totale stallo, politicamente parlando, ma l’anima religiosa d’Israele sta prendendo inesorabilmente piede su quella democratica: non si erano mai visti così tanti soldati con la kippah, ammette tra i denti Ygal ripensando alla nostra gita a Gerusalemme di giovedì scorso.

E’ la prima volta che da parte dell’ulpan si apre la questione palestinese, finora sempre sfiorata di striscio e prudentemente evitata. L’apertura mi coglie di sorpresa, ormai che mi ero messo in testa di trovarmi in un caldo nido riparato dalle intemperie del mondo reale, una sorpresa forse maggiore di quella di alcuni miei compagni che, durante la spiegazione di Yaron, si guardavano sconcertati: davvero abbiamo preso la cittadinanza di un Paese con 3 milioni di sudditi dal 1967? Per la prima volta nel corso di mesi ascoltano qualcosa di poco piacevole riguardo a Israele, e l’impatto è duro tanto più che da un carattere militare come quello di Yaron ci si aspetta ligia fedeltà alla bandiera. Se avranno modo di pensare alla questione nei prossimi giorni, credo che molti di loro si confonderanno le idee. Dopo tanti mesi d’immersione e di rimuginamenti sull’identità israeliana, la brutale esposizione dei fatti di Yaron è per me come un colpo di bacchetta che mette tutto al suo posto: le discussioni, i timori, le chiusure, i confronti, le contraddizioni collezionate nei miei rapporti quotidiani rientrano in una logica, ora che mi è stato esplicitamente indicato il momento storico in cui tutto questo è iniziato: Israele non è sempre stata così, nelle aspettative dei più non era previsto che diventasse così. Quel che trovo di desolante, ancora una volta, è come le rare e riluttanti occasioni in cui sono stato trascinato ad esporre davanti ai miei coetanei nuovi immigrati la mia posizione sulla ‘sicurezza nazionale’, come si dice sui giornali, cioè l’occupazione in West Bank, mi sia trovato davanti un muro di crudeltà, arroganza, e cecità di fanatici senza dubbi: Israele è infallibile e dunque intoccabile. La paura di iniziare a fare dei distinguo, perchè non si è certi di quanto in là ci spingeranno e di cosa ci faranno capire, li rende insignificanti bambini-soldato che giocano con gli M-16 di fronte alla lucida amarezza di uno Yaron che, alla loro età, aveva già comandato decine di carri in battaglia e visto morire ai suoi ordini gli amici più cari e, nonostante le evidenti cicatrici che il trauma gli ha lasciato da qualche parte nell’animo, riesce ad ammettere di aver combattuto, e combattere, per una nazione di cui in parte si vergogna.

Alla nostra età

I BaMBaCHim (acronimo di Bnei Meshek Bezman Chofesh, figli di kibbutz in periodo di vacanza) sono ragazzi provenienti da altri kibbutz e moshav che lavorano a Maagan Michael per cicli di 10 mesi. Quasi un centinaio, sono prevalentemente impiegati nella fabbrica Plasson o nell’industria ittica, tutti freschi di esercito. A differenza di noi ulpanisti stipati in camerette da tre, vivono in singola in un quartiere tutto loro giù sulle vasche dei pesci lontano dal ‘centro’, sempre sotto un cielo di stelle disturbato solo dalla scarsa illuminazione di Jizr al-Zarqa, il poverissimo villaggio arabo qualche chilometro a sud del kibbutz. Tra ulpanisti e bambachim non c’è una gran frequentazione, un po’ per gli orari di lavoro non coincidenti un po’ per la distanza fisica delle nostre ‘basi’, ma soprattutto per l’abisso linguistico e culturale che separa i più. Mercoledì, giovedì e venerdì sera capita di vedere la frangia dei pontieri lanciare saluti e small talk a qualcuno di noi dai tavoli del pub (di fatto localizzato nel cuore del quartiere ulpan), ma restano contatti superficiali e perlopiù finalizzati a tenere aperti canali preferenziali verso le ulpaniste. Cacciatori di teste, i bambachim fin dal primo giorno sondano il terreno chiedendoci che aria tira, se c’è qualcuna che parla bene ebraico o che vuole andare a un fuoco in spiaggia da loro, ma da quel che ho visto agli israeliani manca qualsiasi forma di eleganza o savoir faire, e come risultato più che collezionare scalpi di svedesi e colombiane collezionano picche. Da parte nostra, vista la mostruosa percentuale di maschi tra i bambachim, tra cui non si contano più di dieci ragazze, c’è poco interesse e una oggettiva difficoltà relazionale che allontana e spaventa: se tra i giovani americani, spagnoli, austriaci come tra gli italiani è scontata una dose d’ipocritica formalità per rompere il ghiaccio, presso gli israeliani non esiste nulla di tutto ciò. I ‘prego’ per far sedere l’ospite sul divano più comodo, l’offrirgli da bere, il rivolgergli domande per integrarlo nel gruppo, l’accondiscendere alle sue richieste non fanno parte del rituale d’accoglienza, che al contrario prevede uno sforzo da parte nel nuovo arrivato per mostrare la propria dignità e giustificare così la propria presenza come membro costitutivo, e non supplementare, del consesso: tra ragazzi israeliani ho sempre visto l’ospite interrompere, prendere la parola, obiettare…farsi valere. Figuratevi come reagisce la studentessa di Chicago, perdipiù ancora bloccata sul no-parlou-ibraico-benne e le ‘r’ arrotolate piuttosto che grattate…

Col fatto di avere alle spalle una gavetta di relazioni interpersonali israeliane di tre mesi a Yotvata, uno slang ebraico essenziale per la sopravvivenza tra battute e insulti, e un amico, il rosso cappellone Omri, in comune con un bambach, al mio arrivo a febbraio avevo fin dai primi giorni legato bene con qualcuno di loro, tra un serata al pub, un pomeriggio in spiaggia o una partita a calcio. Da quel che ho visto, i bambachim uniscono il funzionalismo a-estetico israeliano allo svago, generando un’atmosfera di selvaggio relax: i divani sono lacerati e i cuscini spaiati, ma sono piazzati nei posti giusti e spazzolati di tanto in tanto; le pizze e gli stuzzichini si mangiano senza piatto ma ciascuno spiluccando dallo stesso vassoio, ma ci sono i tovaglioli; il quartiere ha cavi penzolanti da tutte le parti, condizionatori a vista e biciclette buttate agli angoli d’ingresso, ma funziona tutto alla perfezione; il da bere è messo in tavola in scatole di cartone e il cin cin è fatto in bicchieri di plastica, ma se ne fa uno via l’altro. Il comfort c’è, e di altro livello, ma non è contemplata la sua confezione; è una totale assenza di stile: in ebraico si dice ‘musnach’. Le camere, invece, quelle sì se le arredano bene: una sorta di collezionismo, ciascuno appende, appoggia, appiccica i cimeli di nottate, feste, serate (o mattinate) di tranquillo chiacchierare bere fumare. Lavorano duro in fabbrica, in gruppi di sei-sette, spesso di notte, e guadagnano decentemente. Come a Yotvata, il gruppo di lavoro assegnato non cambia, e finisce col diventare una seconda pelle; è una costante israeliana. Ricordo una delle prime settimane, sarà stato fine febbraio, chiacchierando appollaiati sulle capanne di legno in spiaggia all’ora del tramonto, Fishman (così lo chiamano tutti e ancora non ho scoperto il suo vero nome) mi prova a spiegare cosa sono gli amici dell’esercito: ‘Non li scegli, semplicemente ti capitano. E te li tieni per tre anni, non ci sono cazzi. Quando capisci che non puoi cambiarli, allora inizi ad amare anche quello che di loro non ti piace…e poi ti mancano. Con loro condividi tutto, le brande scomode il cibo schifoso il freddo il caldo lo zaino da 30 chili, si supera tutto insieme. Sono più che fratelli.’ I quattro tappi di Goldstar inchiodati agli angoli del mobiletto di camera sua, mi ha raccontato ieri sera, sono il suo e quelli di tre buoni amici dell’esercito, che lo vennero a trovare il 5 gennaio: ‘Eravamo là sulla capanna a penzoloni, avevamo fumato un po’ e stavamo bevendo e chiacchierando stam, così, quando è arrivato un diluvio, ma di quelli potenti! Bam, una caterva d’acqua da un cielo nero fino all’orizzonte.’ Si ferma un attimo: ‘Oh, nessuno di noi si è mosso. Niente, tutti e quattro immobili insieme sotto la pioggia, in silenzio, dopo mesi che non ci vedevamo.’ Stravaccato sul letto [regola d’oro per sapere di chi è la casa quando si è ospite di amici, mi hanno svelato, è ‘vedere chi sta più comodo’, una vera perla!] apre una foto sul maxischermo sul mobile: la spiaggia di Maagan Michael, nuvole sparse, un enorme arcobaleno e quattro bottiglie di birra incrociate sulla sabbia, il tutto fotoshoppato a mo’ di disegno a pastello. ‘Questa l’ho fatta dopo il diluvio. Abbiamo giurato di vederci ogni 5 gennaio sul quel trespolo, per sempre’. Poi apre il cassetto più basso del comodino, e mi mostra con un sorriso una bottiglia di Goldstar vuota, come ne vanno via anonime migliaia al mese.

Finito l’esercito a 21 anni, a 22 o giù di lì i bambachim escono da quasi un anno di lavoro e vacanza a Maagan Michael con un discreto gruzzolo, pronti per un 4-6-8 mesi di viaggio per il mondo: Sud America e Indocina sono i continenti più gettonati per via del costo contenuto e lo sballo garantito, ma non manca chi si trova una qualche agenzia di volontariato o attività varie ed eventuali negli Stati Uniti, Canada, Australia. Quasi nessuno si lancia sull’Europa, roba da signori. L’anno sabbatico, dopo un anno passato a guadagnarselo, è un must dell’israeliano medio: dicono che dopo tre anni di esercito, in cui ti dicono ogni istante cosa devi fare e cosa non puoi fare, vuoi solo andare a zonzo dove davvero ti va di andare, tatuarti drogarti e farti stupire da quel che ti capita. Fishman sostiene che ormai la maggioranza dei nostri coetanei, tornati dal viaggio, si rimettono a lavorare un altro anno per poter ripartire. Sa con precisione quanto puoi guadagnare in Israele e con quale sistemazione, e quanto spenderai in viaggio e con quale sistemazione; ha fatto i suoi calcoli, i risparmi gli basteranno per quattro mesi di Sud America: quando li finirà tornerà. Perchè ritornano. Fishman la chiama ‘la corsa ai 30′, i 30 anni, età entro cui bisogna sistemarsi: studiare, trovare un buon lavoro, una buona israeliana e fare tanti bambini. Rimango spiazzato, non è esattamente il sogno che si aspetta da una generazione che si concede di fisso due anni di gozzovigliamenti per il mondo: piuttosto tatuatori, imprenditori di varia natura, scrittori, politici, musicisti, diplomatici. Invece Fishman mi assicura che in Israele non c’è ragazzo che non pensi ad essere padre con una sicurezza economica per tirare su famiglia, perchè questa è la gioia della vita e il suo scopo fondamentale. In effetti, così è per tutti i coetanei israeliani che conosco. E’ scioccato dal fatto che ci sono persone, in Italia e nel resto del mondo, che non la pensino così, che hanno scelto di vivere senza bambini per fare qualcos’altro: ‘Ma allora per chi stiamo a questo mondo? Di chi ci prendiamo cura? Ti assicuro, in questo Stato solo chi ha qualche problema rimane da solo, perchè nessuno vuole prenderselo. Nessuno sceglie volontariamente di restare solo’. Non abbiamo molto da dirci, solo da stupirci della reciproca alienità. L’impressione che ne ricevo, da qui come dall’ottimismo generale, la creatività, l’umiltà nel prestarsi a lavori di manovalanza, la consapevolezza della precarietà della vita, l’anti-ecologismo, il nazionalismo, è di un’Israele attuale come l’Italia del dopoguerra, quanto a mentalità, quando fare bambini era un’ovvietà.

L’impressione che danno gli israeliani, così gretti e realisti sulla priorità assoluta di realizzare i bisogni prima dei sogni, stride sempre con i dati che abbiamo su Israele, il secondo Paese più scolarizzato al mondo (e sicuramente uno tra i meno secolarizzati), il più sviluppato per imprenditoria giovanile, il più tecnologico nell’invenzione e l’impiego di sistemi energetici alternativi, uno tra i più variegati quanto a stili di vita. Quale magia avvenga nel passaggio dall’impostazione dell’esistenza individuale, così tradizionalista, all’organizzazione della coesistenza collettiva, così creativa, è un’altra cosa che mi ripropongo di scoprire.

Calma e sangue freddo

Lunedì mattina ero come di consueto al piccolo zoo. Per prima cosa al mio arrivo, attorno alle 7, controllo l’acqua e il cibo dei roditori e dei pulcini, e il grado di umidità dell’incubatrice per le uova: galline, tacchini, galline ‘moshi’ (più piccole e buffe nei loro batuffoli di piume bianche), quaglie, pavoni, uccelli della passione, in questo periodo siamo pieni di nuovi arrivi che necessitano una discreta attenzione. Riempite le mangiatoie e i distributori d’acqua e sistemati le eventuali vittime della notte (pulcini o topolini selvatici caduti nelle nostre trappole con Bamba, sorta di patatina di arachidi, come esca) nel freezer o direttamente gettati in pasto al serpente, passo al recinto delle capre per la mungitura quotidiana. Per prima cosa rovescio nella mangiatoia una buona cassa di fieno, per zittire il loro belare affamato e abbassare i toni generali, dopodichè riempio un secchio di mistura di cereali dalla dispensa e porto il carrello con i barattoli per il latte le salviettine disinfettanti per le mammelle. Da brave caprette di Pavlov quali sono, al solo vedermi tornare col secchio verde iniziano a scalpitare spintonandosi davanti al cancelletto di ferro: perfino la nostra asinella, dall’altra parte della steccionata, inizia a ragliare speranzosa. La capra bianca, l’unica che mungiamo, non oppone resistenza al collare che le metto prima di saltare dentro il recinto e correre fino alla mangiatoia dove riverso la mistura, onde evitare qualche incornata dei famelici ovini. Sistemata la chiassosa combriccola di caprette di montagna e caprette nane, posso finalmente piazzare il secchio sotto il naso della capra da latte e mungere con metodo il quotidiano litro e mezzo da cui caveremo yogurt e labane (formaggio acido mediorientale da servire con olio e zatar, mistura di spezie, e da trangugiare a palettate di pittah). E’ proprio mentre mettevo i due barattoli caldi di latte appena munto in frigo che, controllata l’ora in attesa dell’arrivo di Hudi, il capo, mi accorgo di due chiamate perse dall’ufficio ulpan. Richiamo e mi risponde Shirli, comunicandomi che il giorno successivo avrei lavorato con il chatzran (letteralmente ‘uomo dei cortili’, praticamente il tuttofare arabo Hamudi che, con l’argentino Eric, vaga per il kibbutz a bordo di un trattorino con rimorchio per traslochi e trasporti eccezionali). E’ la seconda volta che mi chiedono in prestito, e a malincuore confermo l’appuntamento per il giorno successivo, alle 7 in ufficio: mi spiace perchè allo zoo abbiamo un po’ di progetti in ballo, dalla rete per fare ombra al recinto delle capre al nuovo giardino per le spezie da cui estrarremo gli olii essenziali al nuovo impianto d’irrigazione per i banani e le papaye appena piantante. In più Hudi mi ha promesso di mostrarmi come produrre un enzima naturale per il compost, a base di lievito di birra, fogliame di sottobosco e muffa bianca.

Al suo arrivo, annuncio a Hudi la novità e mi risponde che già lo avevano informato, la mattina stessa, e che si trovava nel pieno di una recriminazione: stizzito per lo strettissimo anticipo della comunicazione e per l’invadenza dell’ordine (nessuno gli chiese il permesso di ‘rubargli’ il lavoratore per un giorno), aveva già mandato un’email a Shirli, che a sua volta lo aveva già rimandato al gradino superiore da cui era partito l’ordine. Trovato il responsabile, di nuovo Hudi aveva mandato un’email di protesta: ‘L’ulpanista è l’unico nel kibbutz che sa come nutrire gli animali e mantenere lo zoo in caso di mia assenza, cosa succede se domani per un qualche motivo non riesco ad essere al lavoro? E se avessi preso un giorno di ferie? Nessuno me l’ha chiesto. Non è la prima volta che succede, allora piuttosto non datemi l’ulpanista e mi arrangio da solo’. In effetti, anche lui ha le sue ragioni. La giornata prosegue con il giro dei conigli e dei porcellini d’India, dei pappagalli verdi, dei lemuri e della cinghiala Mimi, la regina dello stagno senza una gamba. A sera, dopo lezione, è organizzata una festicciola degli ulpanisti in piscina: anguria sul prato, tuffi, pallavolo. Incontro a bordo vasca Shirli, trentenne nata nel kibbutz che se la spassa come referente di noi ragazzi dell’ulpan tra gite, feste e quant’altro, e non manco di buttarle lì un ‘…comunque ha ragione Hudi’, così per prenderla in giro. Non mi stupisco della sua dura reazione, messa in conto sia per il suo carattere che per i modi israeliani, e disquisiamo un po’ io prendendo le parti di Hudi e dello zoo in cui c’è tanto lavoro da portare avanti, lei accusando Hudi di aver tirato su un gran polverone per nulla e tirandosene fuori, avendo lei soltanto riferito la comunicazione e non preso la decisione.

Ieri mattina mi trovo infine con Eric, Hamudi e Martin dal Sud Africa, anche lui in preso in prestito dagli avocadi, per traslochi vari da una casa all’altra e di tonnellate di tavoli e sedie dal parco della piscina ad un altro giardino. Bella giornata, per metà passata sdraiato al sole sul montacarichi del trattorino su e giù per la giungla del kibbutz. Al ritorno in ufficio, per le 11 e mezza, Shirli chiede com’è andata e se è stato davvero così grave saltare un giorno allo zoo. Colgo l’occasione per dirle che l’appunto del giorno precedente era solo per ridere, che non ne so niente di tutta la questione e che tutto sommato è anche bello cambiare mansioni, ogni tanto. La sua faccia smunta dal fumo appare subito più rilassata e si stende in un sorriso: ‘Bene che ci sei arrivato da solo, perchè pensavo che avessi frainteso un po’ i ruoli. Non sai niente di come funziona e…’ ‘e non voglio sapere’, la interrompo. Si chiude così la questione, con un nescaffè tiepido e un commento alla prima pagina del giornale, con un pazzo che ha fatto 4 morti in una banca a Beer Sheva perchè non gli avevano concesso il prestito: ‘Quasi come in America’, è il commento asciutto di Amir, l’altro responsabile da dietro il desk.

Stamattina invece ero di nuovo allo zoo, a mio agio tra le capre scalmanate e la cinghiala viziata. A bordo del nostro trattorino, saliamo in sala da pranzo per le solite 8 e mezza, affamati come lupi. Sto gironzolando tra i carrelli delle insalate quando vedo Shirli, di schiena a Hudi, che si serve due fette di pancarrè. Non appena lo nota, gli bussa sulla schiena e gli butta lì sarcastica: ‘Hudi, non l’avrai mica presa sul personale?’ ‘Mah hapitom! Figurati! Solo non ti avevo vista. Sai che è una mia vecchia battaglia sugli ulpanisti, ma ho già scritto alla segreteria’ ciao-ciao, ciao-ciao e si chiude così la questione. La scena mi ha spiazzato. Non ero pronto a questa irruzione dei rapporti professionali nella vita privata, non l’avevo considerata. Mangiando il mio panino cetrioli-pomodoro-uova ritorno mentalmente sugli accadimenti e mi è chiaro che si è sfiorata la crisi diplomatica: bastava che m’impuntassi per rimanere allo zoo o che Shirli o Hudi la prendessero davvero sul personale a innescare la spaccatura e trascinare il kibbutz in una faida. Chi con chi, e chi contro chi per questioni passate, conti in sospeso, simpatie e invidie: una palla di neve difficile da arginare quando si siede tutti a due passi in sala da pranzo, si va insieme in piscina, si hanno i figli a scuola insieme, si bisbiglia di sera ai tavolini del caffè. Hudi e Shirli hanno più o meno la stessa età, avranno di certo fatto giochi e vacanze insieme, recite e attività al moadon con l’ulpanista dei tempi, e come già sarà capitato in altre occasione con altri vecchi amici si sono trovati ad avere interessi e direttive conflittuali, e a doverle risolvere del tutto e in fretta prima che si arrivi davvero a togliersi il saluto in sala da pranzo. I racconti che sentiamo lasciano intendere che su queste cose crolla un kibbutz. Ho molto apprezzato il gesto di Shirli, mi ha quasi commosso: capire che facendosi nemici non si va da nessuna parte, e che malgrado tutto bisogna venirsi incontro. Quanta pazienza questi kibbutznikim…

Rimuginamento su discorsi passati

Sarà passato più di un mese, ormai. Eravamo a una grigliata di compleanno sui tavolacci della spiaggia, con carne uruguayana trasudante sangue e birre gelide in sacchetti di plastica. La tavolata era divisa in due sezioni: kasher e non. Ricordo che rimasi stupito, per la prima volta in kibbutz mi capitava di imbattermi nell’osservanza religiosa. Dei commensali, in realtà, solo Noar è osservante: gli altri tre o quattro al suo tavolo osservano la sua osservanza, così, per solidarietà. Noar gira sempre col cappello, mimetica kippah nel territorio nemico dell’ateismo kibbutz. Oltre a lui, olandese, c’è il gruppone dei sudamericani, il francese Nino, un sudafricano e un americano mezzo iraniano; unico non dell’ulpan è Hamudi, arabo, collega di lavoro del festeggiato. La lingua veicolare è l’ebraico, macchiato di stralci di conversazione, battute e comunicazioni di servizio in francese, spagnolo o inglese. Il pranzo trascorre veloce tra i gossip del kibbutz e chiacchierate passatempo, sotto un caldo sole di primavera: i kite e i windsurf tagliano il mare davanti a noi, qualcun’altro approfitta dello shabbat per fare picnic e grigliate, in lontananza sulla sabbia.

Stiamo già raccogliendo le bottiglie vuote nelle casse dei vuoti a rendere, quando si arriva in qualche modo a parlare del pub e della sua frequentazione di esterni: il venerdì sera transennano l’ingresso ed entrano solo gli amici dei kibbutznikim e degli ulpanisti, o gli amici degli amici. Lo spazio è stretto, la musica pessima e la gente peggio: non mancano i pestaggi tra ubriachi, per questo il kibbutz ha infine predisposto il servizio d’ordine. La clientela è tutta della zona, da Hadera ad Haifa, e qualcuno puntualizza che non ci sono arabi. Una ventina di occhi si puntano su Hamudi, immediatamente tirato personalmente nella questione. Non ha mai visto un rifiuto esplicito di arabi al kibbutz, dice, più che altro non ha mai visto arabi in coda per l’ingresso. Racconta che a Zichron, meno di dieci kilometri da Maagan Michael, è stato più volte respinto all’ingresso: ‘Ci provano con qualche scusa, ti dicono che il locale è pieno e non c’è posto. Quando hanno le palle, al più ti dicono che hanno un certo tipo di clientela’. Ebrei, s’intende. ‘E sai cosa facciamo noi? Gli diciamo che se non ci fanno entrare gli diamo fuoco al locale.’ [‘vi diamo fuoco al locale’, testualmente, è lo slogan della più razzista tifoseria israeliana, il  Beitar Gerusalemme, nato come satira e tristemente divenuto realtà, qualche mese fa, quando la tifoseria ha infine davvero dato fuoco ad una sede del club per protesta con l’acquisto di giocatori musulmani da parte della società. Amara ironia sentire questa frase in bocca a un arabo musulmano, perdipiù nel vivo di una recriminazione contro il razzismo degli ebrei.]

Con la nota aggressività sbruffona, la stessa del vecchio di Eilat (Il lato oscuro), del leghista varesotto e di tutti i calcinculisti di ogni tempo, continua: ‘Non ci fai entrare? E noi ti spacchiamo tutto. Sai quante volte siamo entrati e siamo usciti senza pagare? Certo, non si meritano i miei soldi questi qua. E prova a dirci qualcosa, se hai il coraggio. Io sono il cassiere qui al kolbo (il market del kibbutz), sai cosa? Da domani non faccio entrare gli ebrei, pensa un po’. Non mi ci vuole niente, lo faccio, non me ne frega un cazzo.’ La curiosità incalza da parte nostra: ‘E cosa succede se arrivi a casa ubriaco?’ ‘Se nessuno mi vede, niente, in casa non mi dicono niente. Anche mio padre beve. Ma davanti a un anziano del villaggio mai berrei una birra o fumerei una sigaretta, nessuno lo fa – s’infervora lasciando andare l’accento gutturale arabo in un ottimo ebraico – Voi non sapete cos’è il rispetto. Un anziano è un anziano, bisogna rispettarlo a testa bassa. Voglio bere? Però non davanti a lui’
‘Ma tutti sanno che tutti bevono, è ridicolo.’
‘Sbagli! Il rispetto prima di tutto, se non mi rispetti non puoi dirmi niente’. Siamo confusi e divisi, tra tutti, ma di comune c’è il sentore d’ipocrisia. ‘Quindi nel tuo villaggio non puoi compare la birra, però se vai dagli ebrei e la compri poi la bevi tranquillamente a casa?’
‘Da noi non si beve in strada, e basta. Non si discute, è una questione di rispetto e prima di tutto tu devi dare rispetto. Alle tradizioni, alla religione, agli anziani.’
‘E ci sono le discoteche dove abiti tu?’
‘Discoteche?? Ti giuro, puoi fare il giro di tutti i villaggi arabi di tutta Israele, non troverai una discoteca neanche a pagare un milione. Da noi non ci sono discoteche, e se provi ad aprirla salta in aria il primo venerdì sera’.
‘…però tu vai a ballare, dagli ebrei.’
‘Certo, dagli ebrei. Da noi non si può fare e basta, ed è giusto perchè sono brutti posti, con gli ubriachi e le ragazzine puttane. Da noi non si fanno queste cose.’

La discussione divampa, in focolai diversi della tavolata e in lingue diverse. A un certo punto si arriva a parlare del cibo kasher e della chiusura totale dei servizi pubblici di sabato. Ygal, sionista radicale, ‘ebreo nuovo’ senza religione ma piena cittadinanza israeliana, pur essendo nato e cresciuto a Montevideo, si scaglia contro le lobby religiose che tengono in pungo questo Paese rendendo la vita difficile alle persone normali e allontanandolo da quello che era il sogno secolare e democratico che gli diede i natali. Si alza pacata, allora, la voce di Noar che sentenzia: ‘L’ebraismo è una religione. Questo è lo Stato Ebraico, che rispetta le regole della religione. Non posso dirti che non sei ebreo, anche se sei ateo, perchè questo è peccato e solo Dio può farlo. Sei di famiglia ebraica, ma devi anche credere nella religione. Altrimenti cosa ti distingue dal goy? Altrimenti cosa distingue questo Stato dagli altri? Perchè dovrei vivere qui e non rimanere in Olanda?’. Ygal si agita, innervosito. E’ uno scontro tra titani, tra due correnti opposte e conflittuali dell’ebraismo e, in fondo, di teoria politica: secolarismo contro confessionalismo. Noar è lucido, ma glissa sulla mia domanda: quanta religiosità è sufficiente a rendere lo Stato Ebraico ebraico de facto? La religiosità di chi porta il cappello come kippah, di chi aspetta tre ore tra un pranzo di carne e uno di latte, di chi ne aspetta sei o di chi si fa crescere barba e ricciolini, si veste di nero, si chiude a studiare Talmud tutto il giorno, si sposa con una donna senza diritti ed istruzione che si rasa i capelli e mette una parrucca, fa tredici figli a cui non può garantire il pane a fine mese e a cui insegna a tirare pietre alle macchine che osano passare di shabbat? Da tremila anni i rabbini scrivono il Talmud, litigando su chi e come stia rispettando la mizvah (precetto di Dio), ciascuno rivendicando la vera religiosità che trova grazia agli occhi di Dio, e più il tempo passa più le divergenze crescono, le interpretazioni confliggono, le incomprensioni si incancreniscono. Lo stesso Noar ci dice che è all’inizio, che si sta ‘fortificando’ piano piano aggiungendo regole alla propria ascesi religiosa: punta ad arrivare in alto nell’osservanza, ed essere così un buon ebreo. Ma il punto è, a dove deve puntare la legge dello Stato? A quale ebraicità e di quale livello si può fermare Israele e compiacersi della propria identità? Di certo, a nessuna delle correnti interne andrà mai bene qualunque compromesso. L’equilibrio attuale, tendente sempre più alla confessionalizzazione di quello che nato come Stato d’ispirazione comunista-atea, non accontenta Noar, che ritiene lo Stato degli ebrei troppo simile a quello dei non ebrei. ‘Sia chiaro, uno Stato davvero ebraico non può essere democratico’. Naturale, uno Stato costituzionalmente confessionale non riflette necessariamente il sentire dei suoi cittadini, ma ne norma i comportamenti di fatto considerandoli sudditi: esprime come dovrebbero essere, non come essi sono.

L’intero scambio di battute durò in tutto un quarto d’ora, non di più. Mi ci è voluto un mese di rimuginamenti e dormite su per capire cosa è veramente successo in quella tavolata: una visione della complessità senza speranza di semplificazione della multiculturalità per compartimenti stagni israeliana…o quasi. In quella grigliata di compleanno si sono mescolate le carte, nonostante tutto. Il risentimento degli arabi e la loro ipocrisia, il fascino del sionismo e la sua fragilità, la coerenza dell’integralismo e la sua inattuabilità. Già, l’integralismo religioso è la grande rivelazione. Col suo cappellino-kippah e il suo cibo kasher, Noar sembra così lontano da noi; così vecchio si direbbe in Italia: chiuso nelle sue superstizioni e formule magiche, preghiere mormorate in una lingua mistica aspirando ad una vita di esercizio spirituale attraverso un irreggimento delle più banali azioni quotidiane. Quel che rinfaccia ad Ygal, ventenne qualunque da Montevideo, Milano e Melbourne eppure ‘diverso’ per qualche inspiegabile inciampo metafisico che neppure lui sa spiegare, è che membro di una religione è chi ci crede e lo dimostra nei fatti, a prescindere da dove e da chi è nato. Quella che abbiamo studiato come la grande apertura del Cristianesimo, l’universalismo contro il particolarismo dell’ebraismo precedente, è accolta senza battere ciglio dall’integralista Noar per cui ebreo è solo chi segue l’insegnamento della Torah, fatto salvo l’occhiolino al divieto di contestare l’ebraicità di un altro ebreo. Da questa illuminata considerazione l’integralista conclude che lo Stato Ebraico è fatto per i fedeli, e non per gli appartenenti non meglio specificati, e addirittura arriva a rendersi conto che un tale Stato non è compatibile coi  principi democratici. In questa gabbia di pazzi tra tutti il più ragionevole mi sembra Noar, nonostante l’orrore delle conclusioni a cui arriva.

Il sistema degli uomini straordinari

Ci sono molte ragioni per cui non vivrei in un kibbutz, neppure uno tanto ricco come Maagan Michael, tutte connesse alla ristrettezza di spazi: vedere le stesse persone tutti i giorni in sala da pranzo, e viceversa essere visto da loro; sentire i racconti di ciò che questo ha detto e quello ha fatto, senza però aver mai scambiato una parola né con questo né con quello; avere contatto visivo quotidiano con tutte le possibilità di carriera che il kibbutz offre e percepire lo spazio della propria iniziativa individuale stretto entro i rigidi paletti delle decisioni comunitarie. La subordinazione alle burocrazia comunitaria per l’ottenimento di lavoro e casa, tutto sommato, passa in secondo piano (si tratta sempre di lavori piacevoli e case più che decenti), rispetto alla costrizione a stare così tanto insieme, così tanto vicini e per così tanto tempo. Nessun paesino di campagna, nessuna setta religiosa ha paragonabile influenza del collettivo sull’individuale come ne ha il kibbutz, e non è una questione economica. Prendiamo il caso del divorzio: quando una coppia di membri del kibbutz divorzia ad ognuno viene assegnata una casa capace di ospitare i bambini, che a distanza di massimo dieci minuti a piedi possono stare con la mamma o col papà, e mangiare con uno o con l’altro in mensa a piacere. Le spese di mantenimento, come per tutti i bambini, sono a carico del kibbutz. Il comunismo del ricco kibbutz Maagan Michael (come anche Yotvata) offre al divorziato una sistemazione economica e logistica eccellente, inesistente ‘fuori’. Quel che chiede in cambio, però, è continuare a lavorare fianco a fianco dell’ex nei campi o nella fabbrica finchè si liberi un altro posto di lavoro e la richiesta di trasferimento venga approvata, vederlo ‘uscire’ (come si può uscire qua dove tutto è dentro? La nozione di appuntamento è molto confusa, qui nel kibbutz) con un altro kibbutznik che conosci da quando sei bambino (perchè tutti si conoscono da quando sono bambini, tutti hanno giocato nel moadon con gli ulpanisti, tutti sono stati in barca insieme nella lezione di vela, tutti hanno fatto le gite comunitarie insieme, tutti hanno ballato insieme alle grandi occasioni), e col tempo veder sbiadire quel briciolo d’intimità che si era rosicata negli anni finchè anche l’ex si riduca a personaggio, comparsa o sfondo della trama di racconti della sala da pranzo. Quando la sottomissione alla comunità è così conveniente come nel ricco kibbutz Maagan Michael, è chiaro che il vero prezzo da pagare è l’assenza di privacy. Molti sostengono che sia un prezzo irrisorio, visto lo stile di vita che se ne guadagna, ma io credo che non abbiano osservato abbastanza. Ci sono facce meno note, facce che sgusciano via appena possibile, che non siedono e non discutono alla caffetteria, facce che non salutano e non hanno niente da raccontare, da commentare, da puntualizzare, da rinfacciare. Ho avuto modo di conoscerne personalmente qualcuna di queste facce, insofferenti alle cavillose questioni e agli infiniti pettegolezzi del kibbutz e arrabbiati, logorati dalla lotta per l’intimità: sono quelli che cercano di starsene in pace per conto proprio, con la propria famiglia e il proprio giardino, in un luogo in cui i giardini sono solo pubblici e per molti anni non è esistito il concetto di famiglia. In qualche modo, cercano di non pagare il prezzo dovuto. Il ripiegamento sul ‘proprio’ e la sua tutela è un salto discreto, talvolta addirittura una lucida scelta di rottura col sistema: Merav, a Yotvata, me lo aveva insegnato con la sua ascetica alienazione dal costante brusio dell’universo kibbutz. Yadid, sempre al bancone dei gelati di Yotvata, aveva a sua saputa sintetizzato tutto in una massima: ‘Guarda come si siedono in sala da pranzo: se rivolti all’assemblea dei commensali, per vedere e controllare chi si siede con chi e a quale tavolo, o se di spalle, mangiando a testa bassa’. Da quel giorno iniziai a farci caso: io mangio sempre rivolto al salone.

Senza una buona dose di ficcanasismo, il kibbutz è morto: dove finisce la vita privata e dove inizia la vita pubblica, dove finisce il pettegolezzo e dove inizia la politica, in un posto dove i servizi più essenziali, dal cibo alla casa, sottostanno a criteri ugualitari e collettivi?

Quando giunse il giorno in cui alla maggioranza dei kibbutznik non piaceva il cibo della mensa, avvenne la più significativa rivoluzione economica di Maagan Michael.

Il biennale iter di selezione del candidato kibbutznik valuta soprattutto la personalità, i modi, il linguaggio, i gusti del candidato: il rifiuto è puntualmente legato a una qualche brutta storia da sala da pranzo, e non ad una mancanza sul luogo di lavoro.

A Plasson, la fabbrica del kibbutz, lavorano attualmente 1400 persone, la maggior parte non membri del kibbutz. Come in ogni azienda, c’è bisogno di chi dia gli ordini e di chi li esegua: il punto è, allora, chi sei tu kibbutznik, par inter pares, per dare ordini a me pure kibbutzink? Nessuno si piega, e la situazione degenera: disobbedienza, fraintendimenti, discussioni, petizioni di principio sull’uguaglianza di tutti i membri. Col tempo, gran parte dei dirigenti sono stati assunti da fuori il kibbutz, sorta di podestà a cui tutti i kibbutznikim, ugualmente altezzosamente padroni della fabbrica, obbediscono pur senza piegarsi.

Il segretariato del kibbutz è diviso in commissioni, l’esecutivo delle decisioni collettive prese a maggioranza. Prendere decisioni, in un ambiente tanto angusto, vuol dire sempre fare un torto a qualcuno, qualcuno con cui bene o male si è cresciuti insieme. Qualcuno che magari si è soliti invitare a cena il sabato sera, i cui figli vengono a casa tua il pomeriggio, qualcuno la cui nipote è tua genera. Vista l’assenza di candidature volontarie, negli anni è stata introdotta una parziale rotazione degli incarichi, di modo che tutti prima o poi si debbano sporcare le mani; ma la questione resta irrisolta. Al fondo, comunque, è chiaro a tutti che proprio chi è pronto a sporcarsi le mani è il vero kibbutznik, quello che crede sia giusto e bello vivere così, nonostante la fatica, e paga il prezzo fino in fondo esponendosi di petto al vespaio. Da quel che sento dire in giro, e già avevo sentito a Yotvata, è una razza in via d’estinzione: il ripiegamento sul ‘proprio’ imperversa.

Qui ci sono firme, firme che ritornano e raccolgono le diverse correnti in cui anche più menefreghisti, alla fine, si riconoscono o meno: su petizioni, avvisi, comunicati, manifesti, eventi, sono le firme degli attivisti del kibbutz. Una settimana fa in sala da pranzo era allestito il banco delle urne, si votava per la restrizione o meno della metratura delle nuove abitazioni, da 160 a 140 metri quadri: tema spinoso, vista la mancanza di spazio fisico che strangola il kibbutz. Un fascicolo di 4 o 5 pagine, firmato da un tal kibbutznik, argomentava la petizione, con toni vagamente retorici di richiamo al bene della comunità e alla sua storia, ricordano da dove si era partiti e di come ci si è abituati bene con gli anni. Hudi, il mio capo allo zoo, si ferma a votare mentre usciamo dopo la pausa colazione: non legge neanche il fascicolo, segna la sua scelta SI-NO alle varie domande del questionario e lo infila nell’urna.

A suon di proposte e petizioni frutto dell’impegno civico di singoli, il kibbutz cambia. L’altra faccia degli spazi stretti, infatti, è l’autodeterminazione della comunità: quel che è sottratto a livello individuale è restituito con interessi a livello collettivo. Regolamentazione edilizia, investimenti etici, sistema pensionistico, tassazione, circolazione del traffico e giù giù fino al colore dei lampioni, praticamente nulla sfugge al diretto controllo dell’assemblea dei membri e dei suoi organi rappresentativi. Noi abituati a vivere ‘fuori’, da soli nel grande oceano di Stati, banche e mercati, non possiamo nulla contro i suoi grandi problemi; o almeno, così crediamo: ho lasciato l’Italia in balia dello spread, misteriosa entità che avrebbe deciso il nostro futuro senza che nessuno sappia spiegarci cosa sia e chi l’ha voluta. Il kibbutz, invece, rinchiude in una bolla di 6 km di diametro e 2000 anime la realtà sociale e i meccanismi che la muovono, offrendo l’occasione di studiarli da vicino e gli strumenti politici per modificarli.

Fino a pochi anni fa Maagan Michael aveva una produzione intensiva di banane: immensi campi coperti da sottili ‘zanzariere’ biancastre d’inverno e ora aperti per l’estate, con i frutti impacchettati in sacchetti di plastica blu affinchè maturino in fretta e gli uccelli non li rovinino. I bananeti richiedono una grande manodopera e una gran quantità d’acqua, e il kibbutz sopperiva assoldando lavoratori esterni per quello che è uno dei lavori, tra tutti, più faticosi e meno qualificati. Con gli anni si è alternata manodopera etiope, araba, sudanese e infine thailandese, a seconda di chi fossero i più miserabili sulla piazza: era quello che oggi si chiama lavoro precario, alla giornata senza garanzia e senza diritti. Le discussioni salirono nel kibbutz, qualche firma richiamando il principio autarchico di riferimento per cui la comunità stessa deve sopperire ai propri bisogni senza ricorrere ad esterni che lavorino per il kibbutz senza godere in qualche misura dei suoi servizi, e qualche altra rimandando al più generale diritto dei lavoratori a garanzie e dignità. Shifra, nella lezione del primo maggio, ci racconta che infine passò a maggioranza l’abbandono dei campi di banane per l’investimento sugli avocadi, di più facile coltura con macchinari da lavoro. Così, conclude orgogliosa, Maagan Michael eliminò dal proprio sistema il precariato con un’elegante soluzione: i thailandesi stipati in baracche a pochi kilometri dal kibbutz e pagati alla giornata per lavorare in una nuvola di zanzare sotto il sole bollente vennero integrati nel kibbutz come studenti di agricoltura, beneficiando di un sussidio ministeriale, e alloggiati in un quartiere tutto loro che resta qui a pochi metri dall’ulpan, lavorando nei super tecnologici filari di avocado per cicli semestrali accreditati presso il ministero. Hanno accesso ai servizi come tutti noi abitanti del kibbutz, vivono in camere singole con aria condizionata e, ci confessa Shifra, se la passano meglio di noi ulpanisti. Certo, si obietterà, è stata una scelta garantita dalla fiorente situazione economica del kibbutz, che può addirittura permettersi di fare il signore concedendo ai propri lavoratori diritti extra: vero, ma resta il fatto che questa scelta l’hanno fatta, quando potevano tranquillamente continuare con lo sfruttamento.

Non ho seguito come sia andata a finire, ma lo stesso vale per le concessioni edilizie di cui sopra: si vota in un giorno per il SI o il NO, e dal giorno dopo la metratura consentita è ridotta o aumentata del 10, 15 o 20%. ‘Fuori’, bisogna scrivere la petizione, raccogliere migliaia di firme, mandarle all’ufficio a Roma con tutti i bollini giusti sennò viene tutto annullato, sollecitare la pratica, sperare che venga vagliata da una qualche commissione parlamentare, approvata e che quindi torni indietro nel percorso di attuazione dalle regioni alle province ai comuni e, infine, ai palazzinari. Gli italiani lo hanno fatto con la legge popolare di abolizione dei privilegi parlamentari, per dire il caso di punta, e il fascicolo giace intonso in qualche cassetto in qualche ufficio di una qualche maggioranza parlamentare, che complice la legge elettorale nessuno ha scelto. Non è prevista una ulteriore procedura per attuare quella che è già una legge dello Stato italiano, stando alla Costituzione.

Il minuscolo kibbutz, asfissiante nel suo calpestare la vita privata e trascinarla nell’agorà sotto gli occhi di tutti, è d’altra parte di facile analisi e immediata manipolazione, e questo investe i suoi membri politici di grande responsabilità etica: ciò che raccontano, fanno, scrivono, votano cambia la condizione di vita di tutti, dal cibo che mangiamo al numero dei wind surf nel club velico. Nonostante gli atteggiamenti borghesi di superficie e gli strenui sforzi di molti nell’emanciparsi dal Grande Fratello, la struttura politica di Maagan Michael resta radicalmente diversa (non saprei come altro definirla), perpetrando contro la loro volontà, e spesso a loro insaputa, la leggenda di questi uomini straordinari. 

Mappa di Maagan Michael

Agrodolci ambulatoriali

Nei mesi ho preso una certa confidenza col sistema ospedaliero israeliano. Oltre all’assistenza statale gratuita, il cui servizio più importante è sicuramente il pronto soccorso, con il programma ulpan ho ricevuto assicurazione presso Clalit, imponente servizio sanitario a cui si affida più del 60% degli israeliani. Il costo dell’assicurazione, ho scoperto con stupore, dipende dal reddito annuo e quindi non è uguale per tutti, a parità di servizio erogato. Con la mia tesserina magnetica identificata sul passaporto (anche i turisti possono assicurarsi), non ho che da presentarmi al piano dell’ambulatorio desiderato, passare la tesserina sullo schermo e confermare la mia presenza all’appuntamento fissato precedentemente al telefono. In più di cinque visite, di cui una come accompagnatore e una all’ospedale statale, negli ospedali israeliani non ho mai dovuto aspettare più di un quarto d’ora prima di essere ricevuto. Lo stesso vale per le lastre, richieste dal medico in ambulatorio ed effettuate nei sotterranei in meno di mezzora, in totale. Le struttura del Clalit di Hadera è nuovissima (meno di un anno di attività) pulita e comoda, mai affollata e sempre climatizzata. In questa cornice da Dr. House in un qualche ospedale privato in Pennsylvania o Massachussets, fa improvvisa irruzione un vecchio beduino col bastone. Prende l’ascensore con me e lo lascio un po’ sperduto al secondo piano, nel suo velo bianco cinto dal cordino nero in fronte, finchè non incontra il provvidenziale aiuto di un’infermiera di passaggio che gli mostra lo schermo magico per la prenotazione: ancora stordito, tira fuori da una piega della lunga tunica marrone la carta magnetica e con diffidenza la passa sullo strano aggeggio, che gli sputa fuori il biglietto con numero di turno e ambulatorio. Soddisfatto, s’incammina ciondolante tra le porte a vetri e i corridoi asettici di ortopedia.

Fuori dal mio ambulatorio, stamattina, un altro vegliardo aspetta il suo turno, aggrappato al trepiede pronto a scattare al proprio turno. Una famigliola di arsim, i tamarri israeliani, disturba la sua concentrazione masticando rumorosi suoni gutturali; il bambino è impaziente e continua ad andare e venire tra una sala d’attesa e l’altra. Un’enorme massaia araba dai denti gialli avvolta in un pezzo unico a fantasia floreale, sulla sessantina, fa una battuta al bambino e attacca un bottone alla composta signora che le siede di fronte: iniziano a parlottare, credo del tempo o degli acciacchi come i pazienti in sala d’attesa di tutto il mondo, ma non sto ascoltando. Dalla tv poco in alto sopra le nostre teste la giornalista comunicando l’arresto di potenziali terroristi di Al-Qaeda in Canada. In Israele c’è un notiziario ogni ora, ed è difficile accorgersi che dicano qualcosa di nuovo da un’edizione all’altra; il parlottio attorno a me continua indisturbato. E’ il mio turno.

La procedura si apre con il passaggio della tessera magnetica sull’apposito lettore incorporato alla tastiera. Aperto il fascicolo online, il dottore può consultare i referti dei due precedenti dottori che mi hanno visitato: lussazione del ginocchio, niente fratture, tendini a posto, emorragia interna e risucchio di sangue e liquidi vari; febbraio. Operazione all’unghia incarnita; marzo. Quel che non può leggere è che il grasso dottore brasiliano che mi ha tagliuzzato l’unghia è un appassionato sfegatato di Milano, e così tra un bisturi e una siringa di anestetico ci regalammo una lunga chiacchierata sulle meraviglie di Brera e del Museo Ambrosiano, del pane di Pattini & Marinoni in via Garibaldi, di quanto è emozionante San Siro anche senza interesse per il risultato della partita, del nostro congedo con il mio invito a visitare San Satiro, in via Torino, alla sua prossima visita. Questo invece è palesemente russo: mi ordina di stendere la gamba sul lettino e in due minuti esegue le manovre per controllare la tenuta del groviglio di muscoli e tendini che circondano la mia rotula. Conferma il buono stato del tutto, quindi mi prescrive un gel nell’eventualità di un’infiammazione e un tutore nell’eventualità di partite di calcio. Mi congeda dall’alto del suo pizzo bianco con cordialità, e cedo il passo sulla porta alla ballonzolante massaia araba dai denti gialli.