Netta e Yael mi passano a prendere venerdì di buon ora, di ritorno da Tel Aviv in visita ad una sorta di magazzino che rivende in nero attrezzatura da trekking importata dall’estero: in realtà, casa privata di un giramondo che più che vendere zaini vende i propri consigli. In corsa sulla nostra 4×4 alle pendici del monte Carmelo, che dalla costa a sud di Haifa sale dolcemente verso l’entroterra in un’unica foresta di pini interrotta qua e là da campi e fattorie di kibbutz, mi riportano i percorsi consigliati sull’Himalaya, il sistema degli ostelli in Nepal e dell’affitto di guide-sherpa, i posti da evitare in India e le cose da vedere in Cambogia: partiranno ad ottobre armate di zaino e poche centinaia di dollari, per sei mesi. Come un’intera generazione d’israeliani. Una famosa battuta vuole che quando chiedi a un thailandese qual è la nazione più grande del mondo, ti rispondono a botta sicura ‘Israele’, invasi come sono di ragazzi vagabondi freschi di esercito. Nel tenue traffico mattutino passiamo mucche al pascolo indisturbate, tralicci della corrente sul nulla di praterie già secche, arcipelaghi di rocce bianche affioranti sulla terra rossa; alle fermate dei bus arabi vendono fragole e albicocche, alle piazzole di sosta e alle aree picnic drusi vendono miele, labane e pitta; mai il contrario. Passiamo Dalyyat El Carmel, città drusa di discrete dimensioni, e iniziamo la discesa verso la valle di Jezreel che ospita Afula, Nazareth, Karmiel e si spinge a est fino al Kineret, il Lago di Tiberiade. Le colline vuote cedono il passo ai campi coltivati, l’orizzonte si riempie di casette, che siano quelle quadrate bianche o grige degli arabi o triangolari col tetto rosso degli ebrei, i venditori agli incroci sono rimpiazzati da centri commerciali; quel che resta invariato sono i falchi che girano alti in cielo.
In poco più di mezzora siamo in vista del lago. Scivoliamo dietro Tiberia, in cresta sui monti che segnano la fine del continente europeo, costeggiando immensi campi di angurie; scendiamo due curvoni in mezzo ai frutteti che ci portano dritti al ‘tombino’ del Kineret, il cosidetto Yardenit, custode di eventi storici di grandiosa ispirazione per generazioni: migliaia di cristiani (ho sempre visto indiani e thailandesi, chissà perchè) ogni anno si recano in pellegrinaggio sulle primissime anse del Giordano in uscita dal lago, a pochi chilometri da dove Gesù scelse i suoi e camminò sulle acque, e dove con tutta probabilità San Pietro tirava in secco le reti, per pregare o farsi battezzare, nella falsa convinzione che questo sia il luogo in cui Giovanni battezzò Gesù. In realtà, il fatto avvenne con tutta probabilità in prossimità dell’ingresso del Giordano nel Mar Morto, di fronte a Gerico, ma vista la conflittualità del territorio (attualmente frontiera tra Israele e Giordania, in pieno territorio occupato), negli anni successivi alla guerra dei Sei Giorni il ministero del turismo spostò il sito battesimale. Ma vabè. A pochi passi da questo grande bluff giace Degania, il primo kibbutz. Fondato da un manipolo d’immigrati ancora sotto l’impero ottomano nel corso della cosiddetta Seconda Aliah, la piccola fattoria visse la grande storia del movimento kibbutz: a Degania pochi ragazzini decisero dal nulla di vivere senza proprietà privata, discutendo ogni notte sul da farsi e votando per alzata di mano; in una di queste notti, in prossimità della nascita del primo figlio del kibbutz, votarono per la sua condivisione tra tutti i membri, tutti ugualmente mamma e papà; sempre lì il secondo figlio nato nel kibbutz venne ‘rapito’ dalla sala comune dalla madre che si chiuse con lui in casa, simbolo della proprietà inviolabile, scatenando l’indignazione e l’insurrezione degli altri membri; la coppia infine prese il figlio e se ne andò, lasciando la finestra di casa infranta da una pietra lanciata da un membro del kibbutz, simbolo della proprietà violata. Il figlio della discordia era Moshe Dayan, futuro eroe di guerra, capo delle forze armate e ministro d’Israele; a Degania visse e scrisse Gordon, l’intellettuale che tradusse la religione ebraica nell’ideologia kibbutz divinizzando il lavoro, e Rachel, la poetessa che s’innamorò di quella vita; sempre a Degania avvenne il primo grande scisma ideologico, che diede vita a Degania Bet, lo stesso che divise in seguito molti altri kibbutz; sia Degania Alef che Degania Bet furono in prima linea nella guerra d’indipendenza del 1948. Degania, con Ein Harod, Ein Gev, il kibbutz Kineret e decine di altri insediamenti rivoluzionari, fece della conca bollente del lago di Tiberiade ‘la Mecca’ della nuova ideologia di socialismo agricolo. Peccato che Degania, tecnicamente parlando, non fu mai un kibbutz ma rimase sempre una kvuzah (gruppo) rifiutando di accettare, o immaginare, l’estensione del sistema a decine o centinaia di membri…ed ecco il secondo bluff. In questo nodo di cartelli per siti monumentali e musei, noi pieghiamo di nuovo sui pianori occidentali, entrando nel kibbutz Kineret. Ora privatizzato, resta un meraviglioso insediamento tra datteri, manghi, banani e una fabbrica di cisterne per l’acqua in plastica. Entriamo finalmente nel negozio di attrezzatura da trekking, famoso in tutto il nord per la sua qualità: sarà grande come il reparto calzini di un qualsiasi Decathlon di periferia. I due commessi, navigati kibbutznikim un tempo giramondo, consigliano le ragazze con premura e un pizzico d’invidia, ma sempre nei modi israeliani: ‘E perchè vuoi uno zaino da 68 litri? Ti serve da 45, è più che sufficiente. Quando lasci il nord non ti porti dietro i vestiti pesanti, ti basta poco. E prendi questo con l’apertura verticale, è più comodo quando disfi lo zaino tutti i giorni. Guarda, questo ti va bene’. I ‘forse..’, ‘prova questo…’, ‘io credo…’, ‘ti consiglio…’, ‘cosa ne pensi…?’ sono troncati di netto. Ci sono risposte, ciascuno le sue, e al più si chiede per investigare, per poter rinforzare la propria posizione: ‘Ma quanti siete ad andare? Ma che giro fate? Allora no, non andate per di là, vi conviene fare quell’altro giro’. Difficile da descrivere, una ruvida assenza di filtro formale che lascia spazio all’impertinenza ma che fa anche trapelare un sincero interesse. Quanto alle scarpe, le marche italiane sono le più prestigiose. Alla fine, restiamo nel negozietto più di un’ora e mezza, con tanto di caffè nero nel cucinino nascosto tra le magliette termiche.
Arriviamo a Kanaf per le tre passate. Il sole è caldissimo e il vento fortissimo, Netta assicura che d’estate è sempre così. Dal moshav, in cresta alle spaccature verticali a est del lago, abbiamo lo specchio lucente del Kineret ai nostri piedi e la macchia bianca di Tiberiade proprio di fronte, bella solo da lontano; la terra è nera, vulcanica, e rocce smussate spuntano ovunque dalle fratture che tagliano l’altipiano allargandosi verso il lago, un non-so-che di Jurassic Park. E siamo sulla placca continentale asiatica. Kanaf conta ottanta famiglie, una crescita verticale dalla sua fondazione dopo la conquista del Golan nella guerra dei Sei Giorni. A differenza del kibbutz nel moshav esiste la proprietà privata su lavoro, casa, macchina, arredamento, istruzione dei figli, ma i mezzi di produzione sono finanziati in modo cooperativo: le stalle per le mucche da latte, i vigneti, il parco acquatico giù sul Kineret, il ristorante. Le spese sono finanziate con fondi comuni di membri del moshav e allo stesso modo sono ridistribuiti gli utili, anche se in modo indiretto: praticamente tutti, compresi i figli dei fondatori, lavorano o lavoricchiano nel moshav, ottimizzando risorse. Anche il campo da calcio, i gommoni e le canoe sul lago, le gite annuali, lo scuolabus fino a Katzrin sono finanziati da sovrattasse alla comunità, ed è una gran bella vita. Tra moshav e kibbutz nel Golan se ne contano 32, e con l’unica cittadina dotata di scuola e ospedale, Katzrin, si arriva a un totale di 20.000 abitanti, esattamente come la popolazione drusa che abita i quattro villaggi ai piedi dell’Hermon, il monte al confine con Siria e Libano: vale a dire, il Golan è un’enorme, fertile altipiano vuoto. Verde come l’Irlanda d’inverno e giallo come la Sardegna d’estate, è costantemente punteggiato di mucche per terra ed enormi rapaci in cielo, indifferenti al filo spinato e agli inquietanti cartelli ‘PERICOLO MINE’ tutt’attorno. Cordoloni di rocce ovali, nere e porose creano strane geometrie tra i cardi, impossibile dire se naturali o residui di vecchi confini tra pascoli; poche strade tagliano le pianure buttandosi d’improvviso in curvoni giù per le gole scalate da torrenti perlopiù stagionali, ora gli unici a preservare chiazze verdi di canneti in mezzo alle sterpaglie. In queste fratture, tra cascatelle e grotte, sono stati pervenuti resti di civiltà e uomini primitivi. Qua e là, dal panorama offerto da queste discese, si vedono segni di incendi di campo appena passati; gli alberi sono pochissimi, un po’ come in tutta Israele, ma qui non c’è ancora stato tempo di ripopolarli. In effetti, il Golan è un’Israele in Israele, quanto a storia: conquistato nel 1967, era pressochè vuoto. Le poche migliaia di siriani che vi si trovavano erano per lo più soldati di stanza al confine, alloggiati in villaggetti nelle retrovie di campi minati e bunker, gli stessi ancora visibili al ciglio della strada; al nord, i drusi non sono scappati ma sono diventati israeliani tranne pochi che, scommettendo sulla prossima riconquista siriana, rifiutarono la cittadinanza, la stessa che ora rimpiangono. Sta di fatto che il governo finanziò una ‘aliah’ interna dal centro, secondo gli standard israeliani troppo affollato, alla nuova terra da coltivare e mettere a frutto, e così fu. Da Tel Aviv e dalle città nei dintorni partirono comitive di pionieri che, insieme con l’esercito, sminarono appezzamenti di terreno ed edificarono nuovi insediamenti, prevalentemente moshav: l’ondata di socialismo che portò alla nascita di Degania, 50 anni prima, era già in declino. Ogni mese, mi racconta Netta, si scopriva una nuova sorgente, una nuova casata, una nuova ‘vasca dei comandanti’, piscine artificiali ad uso esclusivo degli ufficiali siriani, si aprivano nuovi sentieri e riserve naturali. Anche i problemi di vicinato d’Israele qui si fanno più stringenti, essendo la Siria a un tiro di mortaio. Dopo lo Yom Kippur l’ONU stabilì zone cuscinetto sul confine, e puntuale è l’incontro con le loro camionette. Pure la gioventù del Golan sembra rimasta agli esordi della storia d’Israele: seconda generazione di fondatori, sono cresciuti con tanto spazio a disposizione, sia per giocare che per immaginare. Dove saranno i prossimi insediamenti? Di cosa si manterranno? Saranno moshav o qualcos’altro? Che ne facciamo dell’enorme deserto che occupa più di metà d’Israele? I ragazzi del Golan si conoscono tutti, e sono cresciuti senza criminalità, senza inquinamento, senza traffico, senza droghe da discoteca, girando su jeep tra camminate e pub; la zona è totalmente a prova di arsim, i tamarri israeliani.
Il cielo del Golan di notte è un’impressionante calotta di stelle, indisturbata da luci artificiali per chilometri; il vento resta, e diventa gelido. Come in montagna, l’unico rumore è l’eco di latrati di cani (o lupi? E’ la zona con più alta densità di lupi del mondo, mi disse una volta Hudi) e dello strano tubare di uccelli.
Dopo qualche giorno, torno in Golan con la gita dell’ulpan. Non mi faccio un cruccio di perdermi la strada, dormendo di filato dal parcheggio del kibbutz Maagana Michael a parcheggio del kibbutz Snir, ai piedi del monte Hermon: sono appena le otto del mattino. Dopo una breve colazione entriamo nel parco naturale, giù per un sentiero sospeso sulla gola in cui scroscia il Banias (arabizzazione del nome latino Panias, perchè gli arabi non sanno dire la ‘p’). L’acqua è cristallina e va a formare profondi giri e piscine naturali, decine di trote stanno immobili in corrente pronte ad acchiappare qualsiasi cavalletta o vermicello imprudente. Siamo già nella stagione secca, eppure non riusciamo a sentirci dal rombo delle cascate. Mai mi sarei aspettato uno spettacolo del genere in Israele. Dopo qualche spiegazione sulle origini del torrente e il suo percorso giù fino al Giordano e quindi al Kineret, proseguiamo la risalita passando un vecchio mulino, tutto in muro a secco, ora occupato da chiosco di gelati tenuto da un druso e una ‘piscina dei comandanti’ zampillante acqua di sorgente. Poco più in alto usciamo dal bosco in una radura con resti archeologici e una grotta incastrata in una parete verticale di granito rosato: il vecchio tempio di Pan con annessa città, nel II secolo capitale della sottoprovincia sotto il dominio romano. Qui ci aspetta l’autobus, e ricominciamo l’arrampicata sull’Hermon.
Stavolta il panorama mi tiene sveglio: da un pianoro immerso nei vigneti si staglia di fronte a noi una vecchia fortezza ottomana, in alto, in basso si stende in lontananza Kiriat Shmona, la città più a nord d’Israele, e Ghajar, la cittadina araba tagliata a metà dal confine col Libano: etnicamente siriani alawiti (la stessa corrente dell’islam a cui appartiene il dittatore Assad, seppur minoranza rispetto alla maggioranza sunnita), il villaggio rimase escluso dalla conquista del Golan del ’67 e terra di nessuno finchè gli stessi abitanti, considerandosi siriani, chiesero di essere annessi ad Israele con il resto della popolazione locale. Nelle due guerre del Libano Israele invase ed occupò il Libano meridionale fino al ritiro nel 2000, ma intanto il villaggio si era esteso in territorio libanese: che fare? Mantenendo il controllo ad interim sul villaggio Israele cercò di liquidare il problema o annettendo l’intero villaggio, o cedendolo al Libano, ma con scarsi risultati dato che la prima opzione si scontra con la legge internazionale, la seconda con la volontà degli abitanti che si considerano prima di tutto siriani, in secondo luogo israeliani naturalizzati ma in alcun modo libanesi, Paese di cui non sanno e non vogliono sapere nulla. In assenza di un interlocutore diretto in quanto Hezbollah, non riconoscendo lo Stato d’Israele, non può intavolare trattative diplomatiche, l’ONU s’incarico della spartizione del villaggio, conferendo la parte sud agli israeliani e la parte nord ai libanesi. Tutti i cittadini hanno cittadinanza israeliana, tutti parlano ebraico, ma quelli che risiedono dopo il checkpoint che divide l’intero villaggio da Israele (il villaggio non è fisicamente diviso al suo interno) hanno difficoltà burocratiche per spostamenti, acquisti, servizi, nonostante per la maggioranza lavorino in Israele. In totale, Ghajar conta circa 2000 abitanti, più o meno la capienza della Scala di Milano: come riescono a tirare su un tal polverone da così poche briciole?
Continuando a salire passiamo il primo dei quattro villaggi drusi che cingono l’Hermon: si presentano come normali villaggi arabi, ciascuna casa col proprio stile, un po’ sconnessa e pacchiana, e in perenne work in progress: armature in ferro a vista sull’ultimo piano, garage senza infissi, vialetti sterrati, sedie a dondolo su pile di sacchi di cemento. Le insegne, sia in arabo che in ebraico, indicano ristoranti, sale da thè, negozi all’ingrosso, elettronica, cianfrusaglie; qua e là, in pieno centro urbano, pascolano capre su quelle che da noi si direbbero aiuole. Le macchine in giro, oltre alle immancabili camionette ONU, sono jeep e pick-up, camioncini o piccoli rimorchi: le smart non vanno di moda, quassù. Alla periferia non mancano piccoli capannoni e fabbriche, ma l’attività principale è l’agricoltura, dalle mele ai melograni, e la pastorizia, mucche, capre e pecore. I drusi parlano arabo e appartengono alla grande famiglia degli arabi tuttavia, a differenza dei beduini, non sono musulmani: drusi è prima di tutto una religione sincretica che unisce credenze giudaiche, cristiane e islamiche più qualche produzione propria, ed è caratterizzata da una profonda chiusura. I drusi non hanno accesso a tutti i misteri della loro Fede, riservati ad una classe sacerdotale di iniziati, ed è vietata la conversione in entrambi i sensi: non si può diventare drusi se non per nascita ed è impossibile smettere di essere druso. Credono nella metempsicosi, la trasmigrazione delle anime dopo la morte, e in un unico principio creatore che ciclicamente si incarna in uomini, sua epifania vivente. Hanno una propria bandiera, appesa ovunque nei loro villaggi, ma non hanno pretese d’indipendenza, obbedendo all’autorità statale sotto cui si trovano: spesso perseguitati e mai al governo di uno Stato sovrano druso, se si trovano in Libano sono fedeli al Libano, e così in Siria, Giordania, Israele; i pochi drusi nel territorio occupato si ritengono ‘palestinesi’. Parecchi di loro si arruolano nell’esercito israeliano e addirittura nella Polizia di Confine, uno dei corpi più violenti che tratta le grane coi i palestinesi, pur non essendo per loro obbligatorio. Segni di riconoscimento sono i lunghi e folti baffi neri su barba sfatta, il largo copricapo bianco, il gilet e i pantaloni alla zuava neri: personaggi comici. A Maagan Michael ne lavorano molti, e pare siano persone molto calme, dolci. I miei contatti si sono sempre limitati all’acquisto di pittah drusit, la loro specialità con labane e zatar. Poco fuori passiamo una delle tante basi militari mentre una batteria di carri sta facendo addestramento: tutti col naso incollato al finestrino incrociamo lo sguardo di questi ragazzini più giovani di noi, vestiti di verde e armati fino ai denti, in piedi in cerchio attorno all’ufficiale, e a me sale un certo languorino. Forse invidia: a chi non piace giocare alla guerra?
Il bus ci scarica in cima al Bental (‘figlio della rugiada’), ‘montagna’ panoramica ex bunker fortificato siriano: in pratica, una collinetta su questa distesa pianeggiante che sbiadisce nella foschia. Salendo un pezzettino a piedi Yaron non perde l’occasione per un po’ di macabra ironia: ‘Dai, che se siamo fortunati vediamo anche la guerra in Siria dalla prima fila’. Dal pianoro in vetta, arredato di balzane statue in ferro attorno al reticolo di bunker e trincee in cemento armato, lo sguardo spazia dall’Hermon a nord, alla Siria a est, alla valle del Giordano che si apre a sud. Reuven, la guida, si prepara con visibile commozione a raccontarci la sua esperienza dello Yom Kippur, non prima di averci indicato Qunetra, su cui siamo letteralmente affacciati, la città in cui due settimane fa avvenne uno scontro pesante tra le forze dei ribelli e l’esercito di Assad: tutt’attorno alla cittadina è bruciato, esattamente fino alla larga strada di separazione con Israele (il cuscinetto ONU), e alcune case sono visibilmente collassate. Al di qua, i trattori dei kibbutznikim passano pacifici tra i filari di vigne, in una nuvola di polvere. In effetti, in occasione degli scontri una folla accorre su quest’altura per godersi ‘i fuochi d’artificio’. Gli unici a risentirne sono i drusi, che hanno il miglior mercato delle mele presso i siriani: con l’intensirsi della situazione con Israele i 300 caschi blu austriaci si sono ritirati (allora a che serve il cuscinetto?), chiudendo l’unico passaggio del confine. Nel 1971 Reuven fu tra i membri fondatori di un kibbutz qui vicino, il che significa prosciugare paludi, portare materiali, costruire case, arare campi: ‘Vedete questo vigneto, qui nella conca (tra parentesi, questa conca è la bocca di un vulcano spento)? Ecco, vedete quel bosco? L’ho piantato io con le mie mani…e questo vi dice quanto sono vecchio. Durante i secoli di dominio ottomano tutta la zona, compresi Siria e Libano, venne lentamente disboscata. I pini che vedete in ovunque in Israele, dal centro a Gerusalemme alla Galilea a qui in Golan, non sono speci autoctone, qui probabilmente era tutto querce. Ma per qualche motivo si decise di piantare pini e cedri. Ad ogni modo, lo Stato continua a piantare alberi, e piano piano riconquistiamo ombra sul deserto’. Faccio un giro con lo sguardo, e dal confine con la Siria in effetti ricomincia il deserto di sterpaglia. Reuven diventa responsabile della sicurezza del kibbutz; nel giorno di Yom Kippur del 1973 si trova come tutti a casa dei genitori nel centro, a festeggiare il giorno più importante del calendario ebraico; al risuonare della sirena accende la radio e si butta in strada: attacco congiunto di Siria ed Egitto; prende un passaggio verso il nord, poi un altro con degli amici che trova per strada, anche loro diretti a difendere il kibbutz. Per iniziare a far paura l’esercito egiziano deve passare il Sinai e il deserto del Negev, due giorni secchi di marcia; dalla Siria, come constatiamo, bastano pochi minuti. Sulla strada verso il piccolo kibbutz vengono attaccati da un caccia, ‘e in queste situazioni non ci sono eroi: cerchi solo di nasconderti dal rumore dei motori e speri che la raffica non ti pigli. Ci buttiamo nei fossi al ciglio della strada, e il nostro camion salta per aria. Arriviamo al kibbutz che è ormai sera, le case sono intatte ma tutte con un buco di due metri nel muro. Siamo tutti in apprensione per l’acquario di pesci di un nostro amico, e miracolosamente lo troviamo intatto sulla sua colonnina, in una stanza ribaltata da una bomba. Tutt’intorno vagano polli terrorizzati, che qualcuno ha avuto l’accortezza di spingere fuori dai pollai, come anche le mucche dalle stalle. Per prima cosa evacuiamo le donne e i bambini, mandandole a fondo valle a bordo delle jeep. Ci arriva l’ordine di evacuare il kibbutz, e lo rifiutiamo: lo difenderemo coi denti! Ci chiama il ministro della Difesa in persona che ci dice: ‘vi trovate esattamente in mezzo tra i nostri carri e quelli siriani, in poche ore ci sarà lo scontro. Fate voi’. Non ci resta che ripiegare, e sperare che rimanga qualcosa della nostra nuova casa’. Ci mostra un leggero declino in mezzo a due colline, pochi chilometri a nord nella foschia: là avvenne lo scontro, con solo 15 carri israeliani contro qualche centinaio siriani: alla fine, i siriani ripiegarono. Punta a un altro pianoro giù nell’afa della valle del Giordano: un altro battaglione di carri siriani arrivò indisturbato fino là, ma non ricevendo ordini dal reggimento non avanzò oltre; in un’ora potevano arrivare al Kineret. Alla fine della guerra Israele respinse l’attacco e anzi conquistò altri chilometri, ma l’Alto Commando vietò all’artiglieria di attaccare Damasco, ormai a una trentina di chilometri. Pochi mesi dopo, il confine venne riportato alla linea precedente. Yaron ascolta in silenzio in un angolo, ed è il primo a voltare le spalle e ritornare al bus: lui era invece nel Sinai, e le cose non gli andarono così ‘bene’. Ma di questo ci parlerà lunedì.
Dopo pranzo a Katzrin, e provvidenziale visita alla birreria artigianale della Basalt, torniamo al Giordano dove facciamo ‘rafting’: in realtà, una molle discesa lungo il fiumiciattolo, tra giunchi ed eucalipti, che ben si presta a digerire la giornata. Ah, Golan, forse un’esperienza ancor più forte del Negev.