Gerusalemme

 

Da ottobre 2013 ad agosto 2016 sono stato a Gerusalemme come studente alla Hebrew University of Jerusalem, laurea specialistica di Scienze Cognitive. Ci sono arrivato per strane coincidenze, in realtà volevo continuare a studiare filosofia. Ho lasciato Milano per Gerusalemme completamente ignaro del carico da novanta che questa città si trascina sulle spalle, ma sulla spinta di pura curiosità: volevo cambiare orizzonti, clima, lingua, ritmi, ideologia. Ho finito per cambiare anche modello economico, lavorando per un anno in due kibbutz, comunità collettiviste senza proprietà privata: Yotvata, nel deserto, e Maagan Michael, sul mare. L’esperienza in kibbutz, che mi ha ispirato tante riflessioni sui massimi sistemi, è in realtà iniziata con la più prosaica esigenza di mantenermi mentre continuavo a studiare ebraico. 

Alla Hebrew University l’ebraico è una cosa seria. L’istituto è stato fondato nel 1918, pochi anni dopo la cosiddetta “guerra delle lingue” che vide aspri scontri tra studenti e accademici nei principali centri culturali dell’Yshuv, la comunità ebraica nella Palestina britannica del tempo. Il pomo della discordia riguardava quale sarebbe stata la lingua della letteratura, della scienza e dell’arte del nascente Stato Ebraico, e la scelta non era per niente ovvia. L’ebraico moderno, resuscitato a tavolino da Eliezer Ben Yehuda qualche decennio prima, era un idioma ancora grumoso, essenziale, arido pur nella sua fedeltà al genitore ancestrale della Bibbia, se confrontato con il tedesco, il russo, il francese, l’yiddish, lisciati da centinaia di anni di somma letteratura ed egemoni nell’accademia mondiale. Seppur lingue madre dei parlanti dell’Yshuv, queste lingue erano nell’ideologia sionista un marchio dell’ebreo vecchio della diaspora, debole ed emarginato. E’ curioso che negli stessi anni sempre un ebreo, ma profondamente anti sionista, inventasse l’esperanto con l’intenzione di donare al mondo una lingua universale e perfetta, senza confini e nazionalismi. Tanto Zamenhof quanto la sua lingua fecero una brutta fine.

Pur in assenza di una storia, di una grammatica codificata, di una fonetica univoca, fu proprio l’ebraico a vincere la guerra delle lingue, diventando la lingua ufficiale della cultura, dello Stato e del popolo di Israele moderni. All’Accademia della Lingua Ebraica sarebbe toccato, fino ai giorno nostri, l’arduo compito di ricamare sul traballante impianto allestito da Ben Yehuda per coprire universi semantici sconosciuti a una lingua cristallizzata ai tempi di pastori nomadi, inventando parole, verbi, forme sintattiche, notazioni fonetiche. Come tutto nella parabola sionista, il revival dell’ebraico è stato un atto d’amore e di violenza: la guerra delle lingue prosegue ancora oggi nei seminari di linguistica alla Hebrew University, a colpi di articoli accademici e conferenze. C’è chi si batte per la fonetica epsteniana con le gutturali aspirate, c’è chi vuole riabilitare le espressioni dei dialetti giudeo-arabi degli immigrati mizrachim, c’è chi addirittura nega la natura semitica dell’ebraico moderno, ormai troppo compromesso con la sintassi indoeuropea importata dagli ashkenazim. Al di là di queste distinzioni accademiche, troppo lontane dallo slang nei bar e le grida lanciate dai venditori allo shuk, resta lo slancio visionario di un piccolo uomo diventato un dizionario, poi la madrelingua di suo figlio, poi l’idioma di riferimento di una setta di fanatici, poi la lingua ufficiale dell’istituzione accademica fondata da Einstein, Freud e Weizman, scritta e parlata da milioni di studenti, ricercatori, conferenze, articoli, saggi, opere teatrali. E infine, la lingua che dovevo imparare per poter essere ammesso all’università.

“Hebrew”, ebreo, è l’alter ego laico di “Jewish”, giudeo. La scelta di nominare l’università più importante dello Stato Ebraico “Hebrew University” e non “Jewish University” è profondamente significativa, e anzi esprime con il minimo sforzo il massimo effetto culturale: fin dagli anni dieci del Novecento l’istituto è pensato come spazio di scambio culturale spregiudicato e scientifico, a tratti scientista, come massima rottura con la superstizione dei giudei della diaspora, chini sul Talmud nei loro shtetl. Ed è ancora così, più di così: scendendo dall’autobus al campus di Har HaTsofim il laicismo ti frusta con una ventata che spazza via la cappa di superstizione della città che si stende ai tuoi piedi laggiù, oltre il Monte degli Ulivi, la Spianata con la cupola d’oro e l’ammasso di sassi della città vecchia. Io salivo ad Har HaTsofim per il mio esame di lingua di livello ghimel, il terzo livello di sei necessario per l’ammissione. Averlo passato non mi lasciò più tranquillo, perchè me ne mancavano tre per potermi laureare: la Hebrew University fa uscire solo Hebrew Men perfettamente bilingui. La mia guerra delle lingue era a metà.

Avrei ottenuto il bilinguismo di lì a sei mesi, passando per corsi serali e compiti a casa, analisi di testi di giornali, canzoni pop, sentenze di tribunale. Il primo esame del primo semestre sarebbe stato introduzione alla linguista. Non scorderò mai, in un’aula a gradoni da 300 studenti, la vergogna e la gratitudine verso il giovane prof Eitan che, mentre gli assistenti consegnano il plico dell’esame, si avvicina e mi sussurra che se non capisco le domande posso chiedergli aiuto. Non mi sarei alzato per chiedere aiuto e avrei preso 85 in quell’esame, ma ricordo gli ingranaggi del cervello inceppati per l’ansia del tempo che scorre nel decifrare paginate di caratteri quadrati senza vocali. Avrei imparato ad appuntare un codice di colori e segni sui testi delle dispense di neurofisiologia, per il terrore di doverle rileggere una seconda volta qualora mi dimenticassi un concetto. Avrei tremato come una foglia alla mia presentazione davanti alla classe del seminario di metafisica, temendo di sfigurare per un verbo coniugato male. Avrei imprecato sommessamente nel non fare a tempo a leggere le istruzioni sullo schermo nelle stanze dell’elettroencefalogramma, servendo come cavia negli esperimenti del dipartimento. Ma ricordo anche che di lì a tre anni, dopo saggi, conferenze e lezioni (da insegnante) in ebraico, avrei discusso la mia tesi per tre ore con le mie due relatrici e il  mio contro relatore senza provare la minima incertezza, senza cercare alcun appiglio all’inglese o all’italiano per spiegare come le illusioni percettive che avevo studiato sottendessero una specifica codifica delle proprietà neuronali degli stimoli a livello di onde cerebrali. Avrei provato un sobrio orgoglio, una volta vinta la mia guerra.