La rottura di un incantesimo

Appena finita una mattinata di lezione con Yaron, sostituto di Shifra che ha un qualche impegno con il Ministero dell’Istruzione, torno a casa con qualcosa di prezioso in tasca. Dopo una prima lezione sulla Shoah, abbastanza noiosa, dopo la pausa Yaron attacca con la Guerra dei Sei Giorni, ‘in preparazione della gita di giugno sul Golan dove si parlerà dello Yom Kippur, che può essere letto come il pareggio dei conti’. Ho bene in mente, da fresche letture, l’escalation militare egiziana antecedente all’attacco aereo preventivo di Israele, le acrobazie diplomatiche alla caccia dell’interventismo americano mai arrivato, l’aggressività siriana forte dei missili e dei quadri sovietici, il crollo nervoso di Rabin nel momento di massima spannung. Una guerra, i Sei Giorni, che è finita su molti libri, dai manuali di strategia ai romanzi d’avventura, ma che per la prima volta sento raccontata da un israeliano. Yaron era un ragazzino, ai tempi, e non ancora un ufficiale di carri armati come sarebbe stato nella guerra dello Yom Kippur, 6 anni dopo; tuttora riservista di alto rango nell’esercito e laureato in storia, si può permettere di raccontare quegli anni da fuori e da dentro, in grande e in piccolo, buttandoci lì rapporti causali che è difficile trovare solo sui libri o solo nei carri armati: ad esempio, perchè il canale di Suez, artificiale, sia un confine naturale in quanto richiede un piano strategico di attraversamento supplementare alla manovra d’attacco, mentre le alture del Golan sono un confine artificiale in quanto segnato dalla posizione di avanzamento delle jeep israeliane all’entrata in vigore del cessate il fuoco dell’ONU, ma che potenzialmente avrebbero potuto avanzare per chilometri senza bisogno di pianificare una nuova operazione; il coinvolgimento emotivo, per quei sei giorni che hanno più che quadruplicato il territorio israeliano da 20.000 kmq a 90.000, esubera dal capitolo sulla ‘ripresa economica dovuta all’insediamento, lo sfruttamento e lo sviluppo di infrastrutture nei territori conquistati’ e diventa palpabile fierezza di una generazione di nuovi piccoli Davide contro Golia (Egitto, Siria, Giordania e Iraq, che orchestrarono l’attacco congiunto) e il sentimento di invincibilità che invase una società di ex profughi di guerra e Olocausto divenuti modesti agricoltori in piccoli kibbutz, ancora senza piscine, cinema e zoo, odiati da tutti i vicini e sotto pressante minaccia di un nuovo sterminio.

Yaron mostra sulla mappa le linee di attacco nel Sinai, con la riapertura delle rotte marittime verso Eilat precedentemente chiuse da Nasser, e la chiusura di Suez divenuto nuovo fronte tra due Stati in guerra; mostra l’accerchiamento e la ‘liberazione’ di Gerusalemme fino all’ingresso nella città vecchia dalla Porta dei Leoni, con i soldati che si intrufolano trionfanti entro le mura del temp(i)o di Erode scavalcando il carro armato incastrato nella Porta, e la discesa giù giù verso Gerico e la valle del Giordano; mostra l’arrampicata sulle alture del Golan dal lago di Tiberiade sotto il fuoco siriano e la messa in fuga del nemico, le corse contro il tempo delle jeep con la bandiera israeliana sugli altipiani deserti e l’esultanza dei kibbuznikim di Ein Gev alla liberazione dai colpi di mortaio che da anni ostacolavano l’aratura dei campi, pur dentro trattori blindati. Col finire dell’esposizione dei particolari di strategia militare iniziano a comparire accenni alle motivazioni geopolitiche: la battaglia per l’acqua degli affluenti del Giordano nel nord, la provvidenziale occasione di ‘ri’-conquista dei luoghi sacri nel centro, il petrolio, Suez e lo stretto di Tiran nel sud. Con la coda dell’occhio, già noto l’attenzione dei nostri ferventi futuri soldati della classe calare. Quando poi Yaron lascia qualche secondo di pausa per iniziare la trattazione delle conseguenze della guerra, si percepisce la definitiva ritirata dei ‘rambo’ incalzata dall’ingresso dei ‘critici’ nell’arena: Ygal, Avi, Eitan, Eric, Rachel…io, siamo tutti sull’attenti curiosi di vedere, finalmente, come Yaron presenterà i risvolti politici della guerra che ha cambiato i connotati del Medio Oriente.

Quanto ai rapporti col mondo arabo, mette in chiaro che nella seduta della sconfitta Lega Araba del ’68 vengono emessi tre diktat: niente riconoscimento d’Israele, niente pace, niente trattative; la definisce il ‘fallimento diplomatico’ d’Israele che dimostra o scarsa lungimiranza o scarsa capacità politica: ‘un vero vincitore non vince solo la battaglia, ma la sfrutta per chiudere definitivamente la guerra alle proprie condizioni’. La totale chiusura del mondo arabo, umiliato ed espropriato, non poteva che portare al secondo capitolo, cioè la vendetta: lo Yom Kippur. Cita a proposito il comandante americano McArthur, la cui intuizione fu aiutare economicamente e guidare ideologicamente lo sconfitto della Seconda Guerra Mondiale (Germania e Giappone), onde appianare il senso di rivalsa e scampare il pericolo di una futura resa dei conti, come invece era accaduto tra Prima e Seconda Guerra Mondiale. In effetti, fu una buona intuizione.

Quanto alla politica estera, la guerra è una disfatta totale per l’unione sovietica, che vede vanificato il suo investimento di armi e addestramento in Siria ed Egitto, e un successo dell’America e della Francia che avevano rifornito l’arsenale israeliano, il tutto mentre lo stesso fronte è ancora in gioco in Vietnam come lo era stato in Korea: ‘i bambini si scannano, mentre i grandi li guardano e li incitano da lontano’. [Si legge proprio in questi giorni delle trattative tra Netanyahu e Putin affinchè questi ritiri la propria promessa di vendita di missili terra-aria alla Siria di Assad: i bambini continuano a giocare in cortile.] Il sodalizio militare con l’America è destinato a durare e a mutare, con gli anni, la politica e la società israeliana che, paradossalmente, ai tempi era la società più comunista al mondo.

Quanto alle conquiste territoriali israeliane, Yaron definisce la conquista della West Bank un punto di svolta epocale, in cui Israele cambia la propria fisionomia giuridica: da Stato ebraico democratico, diventa Stato ebraico imperialista, con una sacca di popolazione dominata e non riconosciuta al pari del resto della società civile. I cisgiordani conquistati, ai tempi poco più di un milione, non possono ricevere il diritto di voto salvo sottrarre a Israele il suo attributo ebraico: per la demografia del tempo, un milione di nuovi cittadini arabi avrebbe voluto dire sbilanciare i rapporti etnici interni di fatto conferendo il dominio alla maggioranza araba. Anche senza contare le decine di migliaia di profughi palestinesi in Libano, Giordania ed Egitto (i ‘fratelli’ arabi, questi, che nel 1948 conquistarono quella che nei piani ONU doveva essere Palestina di fatto ammazzandola nella culla, che nel ’67 rifiutarono ai palestinesi profughi di guerra l’asilo politico di fatto rinchiudendoli in scatolette di cemento come Gaza e oggi minacciano l’Autorità Palestinese di scomunica se osa scendere a patti con Israele, di fatto abbandonandola all’occupazione militare), il problema è rimasto immutato fino ad oggi con solo una crescita demografica da ambo le parti, con la popolazione palestinese a più di 3 milioni. Il giorno dopo la Guerra dei Sei Giorni, continua Yaron, la nazione si sveglia e scopre di avere due anime: una che si oppone a questa nuova Israele ebraica e non democratica, e che quindi auspica la nascita di uno Stato palestinese sovrano, e una che non vuole cedere su nessuno dei due fronti e, dice Yaron, procrastina con un ‘…agli arabi ci penseremo’, di fatto legittimando lo status quo dell’occupazione [dopo 3000 anni di attesa, nessuno si sogna di tenersi un Israele democratica ma non ebraica]. Le alternative sul tavolo dell’intransigente, in effetti, sono pressochè indicibili: o l’espulsione e deportazione in massa dei palestinesi in luogo da definirsi, o una soluzione finale di hitleriana memoria. Ad oggi, non esistono altri modi per far sparire le persone nel nulla. La frattura, sostiene Yaron, è la tragedia più grande che il suo Paese abbia mai vissuto: ‘certo, prima c’erano le solite diatribe tra ebrei marocchini e polacchi, tra russi e irakeni, perchè i peggiori antisemiti sono gli ebrei, ma eravamo un popolo e una nazione. Dai Sei Giorni in poi, invece, abbiamo una terra e una nazione senza amputazioni, è vero, ma due popoli: c’è chi non si riconosce in questo nuovo Stato e si rifiuta di servirlo, di fare il militare, di pagare le tasse per i coloni in una terra che non ci appartiene.’ Proprio la terra, haaretz, è perno dell’intera questione: le tombe di Abramo e i patriarchi a Hebron, ora ospite, in pieno centro, di un quartiere blindato abitato da 400 coloni armati fino ai denti e protetti da centinai di soldati, con  scuole, strade, ospedali riservate e le vie del mercato arabo ricoperte da una grata protettiva contro le pietre e i divani che piovono dalle finestre degli ebrei; la tomba di Rachele a Betlemme, ora rinchiusa dentro un’isola di mura in cemento armato di otto metri, nel cuore di un quartiere arabo ai cui abitanti è vietato uscire in terrazzo, e così tanti altri posti e posticini dove qualche millennio fa, stando ai versetti a noi pervenuti, successe qualcosa. Ora che è stata ricostituita l’Israele biblica, i religiosi non la mollano più: ‘anche sulla mappa sta meglio così’, rincarano. Com’è possibile che questa super efficiente Israele del 1967, tanto astuta da cogliere di sorpresa e annichilire tre eserciti regolari in meno di una settimana, non avesse tenuto in considerazione il problema demografico della conquista della West Bank e quindi la necessità di una successiva occupazione illegale ed immorale? – chiedo a Yaron – Generali e politici, cosa pensavano che sarebbe accaduto a quel milione di cisgiordani? Che sarebbero magicamente scomparsi da un giorno all’altro? Yaron spiega che c’era un piano, il piano Aalon, che prevedeva in seguito alla conquista la creazione di un cuscinetto di insediamenti israeliani sulla valle del Giordano, a est, che cingesse quindi completamente in una bolla la Cisgiordania, isolata dalla madrepatria. Meno male che non è stato attuato, mi viene da dire. Nonostante i palestinesi facciano di tutto per meritarsi l’occupazione, conclude Yaron, prima delle Intifade la coscienza pubblica israeliana era in profonda crisi: la percentuale di obiettori di coscienza e disertori in continua crescita come la prolificazione di movimenti pacifisti di slogan ‘terra-per-pace’. Dopo il recente ritiro completo delle forze israeliane da Gaza e l’immediata elezione di Hamas, con la conseguente pioggia di missili a cadenza regolare sul sud d’Israele, i movimenti pacifisti hanno perso gran parte della loro presa sul grande pubblico restituendo alla nazione un senso di appartenenza e unità, nell’odio e il timore per il nemico. La situazione è in totale stallo, politicamente parlando, ma l’anima religiosa d’Israele sta prendendo inesorabilmente piede su quella democratica: non si erano mai visti così tanti soldati con la kippah, ammette tra i denti Ygal ripensando alla nostra gita a Gerusalemme di giovedì scorso.

E’ la prima volta che da parte dell’ulpan si apre la questione palestinese, finora sempre sfiorata di striscio e prudentemente evitata. L’apertura mi coglie di sorpresa, ormai che mi ero messo in testa di trovarmi in un caldo nido riparato dalle intemperie del mondo reale, una sorpresa forse maggiore di quella di alcuni miei compagni che, durante la spiegazione di Yaron, si guardavano sconcertati: davvero abbiamo preso la cittadinanza di un Paese con 3 milioni di sudditi dal 1967? Per la prima volta nel corso di mesi ascoltano qualcosa di poco piacevole riguardo a Israele, e l’impatto è duro tanto più che da un carattere militare come quello di Yaron ci si aspetta ligia fedeltà alla bandiera. Se avranno modo di pensare alla questione nei prossimi giorni, credo che molti di loro si confonderanno le idee. Dopo tanti mesi d’immersione e di rimuginamenti sull’identità israeliana, la brutale esposizione dei fatti di Yaron è per me come un colpo di bacchetta che mette tutto al suo posto: le discussioni, i timori, le chiusure, i confronti, le contraddizioni collezionate nei miei rapporti quotidiani rientrano in una logica, ora che mi è stato esplicitamente indicato il momento storico in cui tutto questo è iniziato: Israele non è sempre stata così, nelle aspettative dei più non era previsto che diventasse così. Quel che trovo di desolante, ancora una volta, è come le rare e riluttanti occasioni in cui sono stato trascinato ad esporre davanti ai miei coetanei nuovi immigrati la mia posizione sulla ‘sicurezza nazionale’, come si dice sui giornali, cioè l’occupazione in West Bank, mi sia trovato davanti un muro di crudeltà, arroganza, e cecità di fanatici senza dubbi: Israele è infallibile e dunque intoccabile. La paura di iniziare a fare dei distinguo, perchè non si è certi di quanto in là ci spingeranno e di cosa ci faranno capire, li rende insignificanti bambini-soldato che giocano con gli M-16 di fronte alla lucida amarezza di uno Yaron che, alla loro età, aveva già comandato decine di carri in battaglia e visto morire ai suoi ordini gli amici più cari e, nonostante le evidenti cicatrici che il trauma gli ha lasciato da qualche parte nell’animo, riesce ad ammettere di aver combattuto, e combattere, per una nazione di cui in parte si vergogna.

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