Con il cielo e con il fango. Due.

[Segue da parte uno]. Settembre 2015 fu il periodo più produttivo della mia vita. Di ritorno dalle vacanze mi ero imposto di lavorare a ritmi serrati, cioè salire in laboratorio alle 9 e tornare alle 6 di sera, non un minuto di più. Nell’entusiasmo del nuovo sperimentatore facevo spesso le 9 o le 10 davanti al computer, a debuggare codici e testare stimoli, sempre che non avessi qualche tavola da segare con David. Andavo sempre prima in laboratorio, non mi preparavo più il pranzo ma mangiavo un panino al volo davanti al computer. Ero l’unico studente di Ayelet, giovanissima prof appena approdata alla cattedra alla Hebrew con piani grandiosi, e quindi oltre a infiniti discorsi di scienza mi istruiva su pratiche da sbrigare per lei in segreteria, software da aggiornare, raccoglitori da riempire, procedure da documentare, forniture da rendicontare. Un pomeriggio di quel settembre disegnai un modello grafico della mia idea di ricerca e glielo presentai alla lavagna. Ci scarabocchiammo sopra correzioni con pennarelli multicolore, usando una mosca e un elefante come segnaposti grafici: uscii da quella stanza con una proposta di tesi. Due mesi dopo presentavo i dati preliminari in un poster al mio primo convegno, a Rovereto; otto mesi dopo vincevo un premio come miglior giovane ricercatore per quello stesso grafico su power point; un anno e mezzo dopo, durante il trasloco nel nuovo laboratorio, appendevamo quella lavagna nel nuovo ufficio di Ayelet: la mosca e l’elefante erano ancora lì; due anni dopo, con l’aggiunta di qualche lettera in greco per quantificare il fenomeno, mi sto decidendo a pubblicare su qualche giornale scientifico la storia della mosca e dell’elefante. Quel settembre così importante è per me imprescindibilmente legato alle sensazioni del fango: del suo tepore mentre lo calpesti, dei riccioli molli che filtrano tra l’alluce e il medio, della paglia che solletica le caviglie, della crosta grigia che scricchiola sui polpacci strappandoti i peli, del ritmico rivoltare la palta dai lembi del plasticone, ormai in totale sincronia con David, ma anche del mal di schiena, delle mani arrossate dallo spalmare battere lisciare quella palta, dei sassolini che bucano i polpastrelli. Dell’imparare a conoscere i limiti di questo strano pongo, dello scoprirne le incredibili potenzialità, dell’azzardare forme sempre più estreme. Nel mio settembre 2015, cascasse il mondo alle 6 e mezza di sera avevo legato la bici nel vialetto e stavo impastando fango con David. Avevamo portato una prolunga dell’elettricità da casa al giardino, e così avevamo musica, luce, e bollitore del the. A volte venivano i vicini, due ragazzini sveglissimi, e facevano finta di aiutarci per rimandare i compiti. Ma ho sempre pensato che ai loro genitori sembrasse più prezioso farli partecipare del nostro progetto che fare i compiti come si deve. Con ottobre avevamo quasi finito il muro, avendo cura di lasciare le cornici in legno per le due finestre e la porta, ma io mi ero fatto risucchiare dal laboratorio, facevo orari lunghi e incostanti. Nessun mese fu mai più produttivo come quel settembre in cui staccavo alle 6. Dopo un novembre in cui recuperammo delle finestre e cambiammo i vetri, il 4 dicembre iniziammo a montare il tetto. David aveva comprato le travi di legno, secondo gli accordi il mio oro stava nelle mani. Venerdì mattina, faceva un freddo cane, c’era la brina in giardino. Ma era un lavoro lungo quindi doveva essere quel weekend, prima di ricoprire tutto con la plastica in caso di pioggia. Ero stressato, credo che in quel periodo non mi tornasse un esperimento, spesso andavo il laboratorio anche il venerdì ma quel giorno avevamo da fare il tetto. Nel suo schizzo, David non aveva pensato a come ancorare il tetto dal lato del muro di cinta del giardino su cui poggiava la casa. Gli dissi che era inaffidabile e irrispettoso del mio tempo, si offese e litigammo. Quel giorno non finimmo il lavoro che avevamo preventivato, tornammo a casa ghiacciati e incazzati. Mi pare avessimo mangiato in silenzio un piatto di hummus al Ben Sira, con i muratori in pausa. Ci chiedemmo scusa e il giorno dopo trovammo una soluzione e continuammo l’opera. Arrivò Natale, tornai a casa per qualche giorno. Al mio ritorno a Gerusalemme, trovai il tetto ricoperto di erba sintetica nonostante fossi assolutamente contrario da sempre: mi ricredetti, ci stava alla grande. E’ una figata, zio. Vuoi mettere sdraiarti sul tetto a guardare le stelle con il bel morbido sulla schiena, giocare coi fili d’erba, piuttosto che sul legno o sulla plastica isolante? E poi il colore naturale, verde che sembra l’Europa. Il kitsch? Un’invenzione degli europei. Vieni a sdraiarti su, prova. Zio, è una figata.

La casa era fatta e finita, da cima a fondo con le nostre mani. Bella, comoda ed ecologica, si può davvero fare con poco lavoro e quasi zero soldi. David era soddisfatto, ma fremeva per fuggire la città a cui non apparteneva. A febbraio partì in eremitaggio sul Mar Morto, lo andavamo a trovare ogni tanto per portargli qualche vettovaglia. Io gli portavo anche foto della casetta: continuavo a migliorarla, tappavo i buchi tra le pietre del muretto a secco, rifinivo i davanzali, drizzavo gli stipiti. Guardava soddisfatto e un po’ malinconico, dalla sua capanna di canne in riva al Mar Morto, ma già pensava al prossimo progetto. Guardava a nord, la Galilea.

A febbraio anche Maxim partì, per l’India. Yael e Elay presero il loro posto, e una nuova stagione si aprì: sconvolti dalla bellezza della casa di fango, lavorammo insieme per farci un pavimento in terra battuta, aiuole tutto attorno e un orto. Divenne la nostra sala da the. Noah, la vicina, andava di nascosto a fumarci le sigarette con le sue amiche, e noi la prendevamo in giro finchè smise. Ad aprile il palazzo abbandonato con l’annesso giardino fu dato in gestione dal comune a degli artisti, che inglobarono la casetta abusiva come una loro opera d’arte, mettendola al sicuro dalla demolizione. Si aprì in fretta una terza stagione in cui il nostro amore per la costruzione poteva servirsi di un arsenale di attrezzi portati dagli artisti, legno di qualità, consigli e manodopera di simpatizzanti che partecipavano del nascente progetto di riqualificazione urbana. Feci l’impianto d’irrigazione automatico per l’orto, l’impianto elettrico nella casetta con luci a led e “diffusore” naturale – in paglia, allacciandomi all’elettricità del palazzo. Il microprocessore che imparai a programmare per la sensoristica dell’irrigazione mi tornò utile in seguito per un setup sperimentale. Per passare i cavi della luce scalpellavo le canalette nel muro, ci infilavo i cavi e poi ritappavo il tutto reimpastando i trucioli caduti per terra con un po’ d’acqua. Faceva ormai caldo, tirammo dei tendoni per l’ombra tutt’attorno alla casa, facevamo grigliate e pizza nel forno di fango costruito nel frattempo. Costruii un tavolino e lastricai di parquet l’interno della casa di fango, installai l’impianto audio. Ma non le facemmo mai l’intonaco, non la portammo mai ad essere una casa standard: la volevamo grezza, butterata, cruda, che si capisse a colpo d’occhio di come fosse emersa dalla terra come un fungo. Là si prendeva il the e si giocava a carte, si facevano massaggi e meditazione. Il giardino si riempì di opere d’arte e alberi, il comune portò terra nuova su cui annaffiavamo con acqua di riciclo. Proiettavamo gli europei di calcio sul muro del palazzo e tutto il vicinato si accoccolava sulle stuoie. Ad agosto tornai in Italia, non vidi mai i cuori di bue maturare, ma i ciliegini e le zucchine, quelli sì li mangiai. Conosco ogni segreto di quella casa, so i punti deboli e i dettagli di valore, ogni tanto fantastico ancora su qualche miglioria. Quando di tanto in tanto torno a Gerusalemme, la casa è sempre lì ad aspettarmi, mi accoccolo tra le coperte e un sifone di riscaldamento se fa freddo. D’inverno sporca e casa per viandanti e barboni, d’estate viva di gente viva.  Qualcuno ha messo qualche suppellettile decorativo. La vite e il frutto della passione continuano a scalarla, tra un po’ non sembrerà più erba sintetica. David, dalla cui mente e cuore è uscita l’occasione per tutto questo bene, se l’è perso. L’ho invitato più volte a tornare in città, ma non ne volle sapere.

La morale che voglio dare alla casetta di fango di via HaMaaravim è che per noi radical chic gli strumenti di liberazione sono infiniti, passano per piattaforme online e blockchain ma anche per la terra che calpestiamo e che nessuno considera. Costruire una casa, la propria casa, è davvero facile. Ed economico. E più bello che una casa in cemento. Ma è soprattutto una pratica letteralmente edificante, per sè e per gli altri. Come lo sono l’attività fisica, la raccolta differenziata e il dare passaggi in auto. Certo suona strano, oggi, pensare di potersi costruire la propria casa a costo zero, a suon di due ore di lavoro al giorno, in uno sforzo creativo e comunitario, perchè c’è da sudare e sporcarsi, conciarsi come un muratore. Ma così suonava un tempo l’idea di correre e sudare come un maiale, tenendo i tempi e i battiti del cuore, in un parco o sul lungomare, o addirittura in una palestra a pagamento, o no? I primi fautori dell’attività fisica saranno stati probabilmente dei radical chic come me o dei pazzi ingenui come David, eppure oggi è il mainstream a dirci che lavorare due ore al giorno per un corpo sano è cosa buona e giusta. Che un domani lavorare per vivere in una casa sana diventi cosa buona e giusta?

Con il cielo e con il fango. Uno.

Le case del popolo in cemento sono un lascito, e uno dei catalizzatori, della rivoluzione industriale: case a molti piani, di facile e veloce costruzione e zero manutenzione, più economiche della pietra e del mattone. Rispecchiano la logica del magazzino, della stalla, della batteria di polli. Ma lotta di classe a parte, sono meno funzionali per il mondo deindustrializzato: la classe media vuole i suburbs, le villette a schiera, qualcuno la casetta in montagna. La casa del popolo di mezzo cerca di essere bella e comoda, e sempre più ecologica. Quell’intruglio chimico che è il cemento, però, tende naturalmente ad essere brutto, scomodo ed inquinante. Non mi stupisce, quindi, che tra le varie rivoluzioni del terzo millennio si trovi anche l’abbandono del cemento. Come tante rivoluzioni contemporanee è radical chic, forse hipster, ma ciò non toglie che possa avere una propria dignità e, un domani, una propria sostenibilità economica. Come tante rivoluzioni contemporanee, è in realtà reazionaria: rimpiazza il cemento con un materiale vecchio come il mondo. Come tante rivoluzioni contemporanee, nasce negli Stati Uniti.

Le case del popolo sono storicamente in fango, e storicamente non lasciano alcuna traccia: solo i palazzi in pietra e mattone degli dei, dei re e degli scribi, gli immortali e quindi i meno-vivi, sopravvivono i secoli. Nell’antichità, di terra sono le case come di terra sono gli uomini, impastati con la saliva del dio. Un curioso ciclo ancestrale vede l’umanità muovere da uno sputo sulla polvere, avvicendarsi nelle avventure più disparate per infine sgretolarsi e consumarsi nuovamente in polvere. Con un po’ di retorica, gli ecomostri abbandonati in cemento lasciatici in eredità dall’industrializzazione, in cui il teatro delle vicissitudini umane resta indeterminatamente oltre i propri attori, contravvengono a questo arcaico principio di ecosostenibilità per cui non è nella natura delle cose lasciare gusci vuoti, avanzi di vita defunta. Forse è per questo che il cemento ci fa ribrezzo e lo camuffiamo in ogni modo possibile, e forse è per questo che nell’era del riciclo prende piede il revival del fango, nella nuova parola di “cob”.

La prima volta me ne parlò David Tarzan, come mi parlò di molte altre cose. E’ una figata, zio. Con poche ore di lavoro, poche conoscenze di base e materiali molto semplici puoi farti la tua casa, da cima a fondo, da solo. La puoi smontare e aggiustare indefinitamente, la puoi piegare, arricciare, bucare, ben oltre il rigore degli angoli retti e delle solette e dei pilastri e delle armature in acciaio. E quando hai finito, la puoi sciogliere nuovamente nella terra da cui l’hai tirata fuori. E poi la casa è un diritto, è il diritto per eccellenza. Senza casa non sei uomo, sei cane. Per questo qui baaretz lo stato d’Israele è infame perchè non vende la terra ma l’affitta a contratti di 99 anni: la terra non è mai tua, sei sempre un mezzadro ricattabile, o tu o i tuoi figli. E se poi lo Stato se ne va, se ne va con lui il tuo diritto sulla terra. E non puoi neanche affittarla da solo, tipo mi piace quella collina la voglio quanto costa dove firmo. No! Devi aggiungerti ad una comunità già stabilita su di una collina, e quindi farti accettare. E se nessuno ti accetta allora devi per forza farti la tua comunità e ricevere la collina, e recintarla perchè fuori ci sono i lupi. E poi quanto costa! Chiaro, se vai in nei territori occupati invece te la tirano dietro la terra, costa un terzo che in Israele. Ma almeno la casa, fisicamente le mura entro cui vivi, quelle te le puoi fare da solo, scavando la terra che calpesti. Zio, è una figata.

Quest’uomo libero e ingenuo, la faccia da schtetl sotto i riccioli selvatici, sempre scalzo e a torso nudo, lo trovo per un po’ di sere accovacciato su youtube e su blog americani, legge e fa schizzi sul quaderno. Lo vado a trovare spesso in via HaMaaravim 8, dal mio appartamento ad Abu Tor, pianifichiamo di prendere una casetta in Myriam HaHashmonait, riarredarla e affittarla su AirBnb. E’ una figata, zio. Puoi affittare camera tua direttamente a chi ne ha bisogno, senza bisogno di intermediari. Pubblichi foto e info, prezzi e calendario, internet fa il resto, pagamento elettronico. Poi al secondo giro ti organizzi e fai direttamente in cash. Viaggiare è un diritto basilare, perchè dovrebbe dipendere da un pezzo di carta che legittima alcuni ad affittare stanze ed altri no, e farsi loro i prezzi? Se la mia camera ti va bene e il tuo prezzo mi va bene, che problema c’è? A Gerusalemme il mercato tira. La guerra c’è già stata l’estate scorsa quindi per due o tre anni siamo a posto, ci sono turisti tutto l’anno, senza contare studenti e lavoratori che arrivano e non sanno da che parte sono girati, e coi prezzi degli affitti che ci sono in giro… Ho trovato sta casetta, conosco il padrone di casa, era mio insegnante di scuola a Kfar Bloom, è messa male ma se mi aiuti la mettiamo a posto e facciamo un bel gruzzolo. Tu ci metti le tue mani d’oro, io i materiali e la responsabilità sul contratto. Zio, è una figata.
Così facciamo, affittiamo la casa – monolocale soppalcato – e la modelliamo in 3D su Sketchup, poi iniziamo a sballarci su come riempirla, quali mobili costruire, arriviamo ad un mood lounge di lusso, legno scuro e tessuti in porpora, sgabello alto e divano a forma di onda con tavolino basso tondo ad incastro – design di cui sono ancora fiero. Affittiamo le nostre rispettive camere su Airbnb e ci trasferiamo nella casetta, dove condividiamo un materasso matrimoniale. Nella prima settimana scrostiamo e intonachiamo, pitturiamo e lacchiamo. Riempiamo la casa e il giardino di legno di recupero e attrezzi da lavoro in prestito da amici, recuperiamo dei sanitari senza crepe. Per un mese buono lavoro ogni sera alla casetta con David. Torno un po’ prima dal laboratorio in modo da poter trapanare, inchiodare e segare in orari decenti, poi dopo le 21 assembliamo, levighiamo e progettiamo. David fa il trovacose, recupera tutto quello di cui abbiamo bisogno, io ci metto la mia manualità. Per prima cosa realizziamo un letto con quattro gambe-colonne in legno massiccio, scavate e forate all’estremità e al cui interno mettiamo lampade a led. L’effetto è magico e finalmente dormiamo su un letto. Poi il divano, il tavolino, la cucina, il giardino, il muro bianco e viola, le lampade con il dimmer, infine l’impianto elettrico. La casa è pronta, la lanciamo su AirBnb. Ma la jacuzzi in giardino – struttura in fango con rivestimento in plastica – viene rimandata. In compenso c’è una possibilità interessante proprio di fronte a casa sua, in via HaMaaravim. E’ una figata, zio. C’è sto palazzo antichissimo abbandonato da ormai 20 anni, con un giardino tutto attorno. Era la scuola del quartiere, ci andavano tutti gli immigrati turchi negli anni ’50 tra cui il nostro padrone di casa, mi ha spiegato tutto. Nessuno sa più chi l’ha costruita ma ora è abbandonata. In breve, il giardino è una specie di foresta, ci sono solo gatti selvatici e travi marce, ma ho fatto un giro ed è perfetto: la terra è buona, pochi sassi, e ci sono blocchi di pietra bianca sparsi qua e là sotto le erbacce, forse un vecchio muro. Possiamo usare i blocchi per fare le fondamenta e il “piede” della casa, e poi continuare col fango. Ci basterà per un 7-8 metri di lunghezza. Al tetto ci penseremo, ci sono tante possibilità e bisogna studiare. Ma iniziamo dal muro. Io metto i materiali e tu le mani d’oro. Mi hai detto che una volta hai fatto dei muretti a secco nel tuo giardino ad Arenzano, no? Zio, io voglio imparare a costruire, creare una casa abitabile da zero per poi fare questo nella vita. Capito io voglio vivere di rendita, e con quello che costano gli affitti in Israele se riesco a costruire delle case in fango nei posti giusti e affittarle bene posso “chiudere il banco” e lavorare solo per puro piacere personale. Baaretz posso vivere con 1500 shekel al mese, chiaramente vivendo in natura senza affitto da pagare, e in India mi bastano 500 shekel al mese, escluso il volo di andata. Il lavoro è edificante solo se non lo fai per soldi, ma per passione, altrimenti sei schiavo. Tipo se ti dicessi adesso che hai tutti i soldi che vuoi, ti alzeresti ancora la mattina per andare in laboratorio e avere la borsa di studio? Vabè ok ma il 99% delle persone smetterebbe di lavorare perchè lavorano per sopravvivere, non per crescere e  imparare. Ad ogni modo vieni a fare un sopralluogo, ho portato un sacco di sabbia e della paglia per fare dei test con la terra per trovare la miscela giusta. Zio, è una figata. Così iniziò il nostro progetto della casa di fango, in un giardino che puzzava di piscia di gatto, coperto di erbacce e ferri vecchi, un cumulo di sacchi di sabbia e due balle di paglia che David aveva recuperato a Modi’in – perchè, zio, incredibile ma nessuno a Gerusalemme centro vende balle di paglia. Lo trovavo nell’antro di casa sua, accucciato sul computer o su libri di costruzione col fango comprati su Amazon. Era giugno, entro inizio luglio avevamo scavato le fondamenta, posto un metro di pietre a secco come piede e un 20 centimetri di fango. Partivo per qualche settimana in Italia.

Al mio ritorno David mi dice che il mercato AirBnb è esploso, a Gerusalemme tutti gli studenti affittano e il mercato è invaso di camere a poco, è una lotta a colpi di feedback per comparire sui primi risultati nel motore di ricerca. Non stiamo guadagnando come previsto, ma stiamo a galla. Di lì a due mesi avremmo ceduto il contratto d’affitto con tutti i mobili. Non ci saremmo seduti mai più sul divano a forma di onda. Mi dice anche che si libera una camera a casa sua, se voglio andare a vivere con lui e Maxim. Il muro non l’ha più toccato ma è duro come cemento.

[la storia continua qui]

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Quel tassello che si chiama sheket

Anche a chi come me non s’interessa di cronaca nera, gli attentati degli ultimi giorni hanno un po’ guastato l’appetito. Te lo guastano i posti di blocco ad ogni angolo, con mitra in bella vista fuori dai camioncini blindati, gli elicotteri sempre in cielo come i palloni aerostatici che sorvegliano giorno e notte i quartieri arabi, le sirene e le luci blu che ti tagliano la strada agli incroci, i blocchi di cemento a proteggere le pensiline del tram da attentati “d’investimento”. Passando in bici, sudando in salita o volando in discesa, questo paesaggio da film d’azione mi scivola davanti agli occhi in un quadro surreale: cosa potrà mai succedere per giustificare un tale smobilitamento di forze? E invece succedono cose orribili qua e là per la città: accoltellamenti, investimenti, sparatorie, linciaggi. Questi però non li vedi in strada, ma li scopri dai telegiornali e dai discorsi concitati della gente al telefono: “Ne hanno ammazzati quattro, durante la preghiera!”. Pensi all’ultima volta che sei passato dal luogo dell’ultimo attentato: qualche giorno o qualche ora fa. E’ facile ed eccitante farsi suggestionare: “E se fossi…”. Ma le statistiche sono chiare: anche sommando i missili da Gaza, gli attentati non sono una minaccia più reale degli incidenti d’auto o degli infarti. Non è la probabilità di finirci dentro che spaventa, ma l’efferatezza: c’è un discreto numero di persone pronto a morire per infilare un cacciavite in pancia a uno sconosciuto, nella speranza che sia ebreo e che muoia dissanguato prima di arrivare in ospedale. Si sa, la polizia li ammazza sul luogo come cani: nella prassi non è previsto l’arresto per terrorismo, ma l’abbattimento immediato. A vedere i video di sorveglianza, fa quasi più paura la reazione dei soldati che degli attacchi stessi: esecuzioni a bruciapelo. Il ministro della sicurezza lo ha ufficialmente dichiarato: “La pena per il terrorista è la morte immediata”. Nessuno in sala gli ha fatto notare che ciò è contro la legge, pure quella israeliana.

Percepisco lo scatto di quello stesso interruttore che era scattato durante la crisi di Gaza, di paura e follia vendicativa senza una logica, senza un progetto, senza una riflessione, senza pietà. Ma questa volta, a Gerusalemme, la follia è attorno a noi, letteralmente. Giocando a pallavolo a Gan HaPaamon, un chilometro in linea d’aria dai quartieri arabi, gli elicotteri e i sommessi boom ci accompagnano ormai da un mese: non commentiamo, non chiediamo, non ci preoccupiamo. Per quanto ne rifuggiamo, a volte la realtà viene a prendere noi: qualche settimana fa, usciti dal campo per tornare a casa, la strada era invasa dalla polizia. Scena del crimine: c’era appena stato l’attentato omicida al centro Begin. Arrivato a casa, gli elicotteri non ci hanno dato tregua: alle 5 del mattino avevano già individuato e abbattuto il sospetto dell’omicidio, sul tetto di casa sua nel quartiere Abu Tor, a due vie di distanza da casa nostra. Lo sono andati a prendere la notte stessa, lui li ha sentiti arrivare ed è scappato sul tetto, ha sparato all’impazzata, poi l’elicottero lo ha mitragliato. Non hanno chiamato l’ambulanza e non hanno lasciato avvicinare nessuno, è morto dissanguato raggomitolato dietro il boiler dell’acqua calda. Pochi giorni dopo la polizia ha diramato l’ordine di abbattere casa sua, con tutta la palazzina di quattro piani: la faranno esplodere nei prossimi giorni e si aspetta guerriglia urbana. Così funziona qua: il sospetto viene di fatto condannato a morte senza processo, viene stanato e inseguito in un quartiere pieno zeppo di civili e lasciato agonizzare a termine di una sparatoria alla James Bond. Poi casa della sua famiglia, dei cugini o dei malcapitati vicini di casa viene fatta saltare. Il mandato di sgombero e demolizione non viene diramato da un tribunale, non viene giustificato in termini di giustizia o deterrenza nè davanti alla legge nè davanti all’opinione pubblica: è una prassi poliziesca, per così dire. Così è per ogni attentato, questo è il rito. Molto pochi israeliani lo sanno, ancora meno se ne interessano, praticamente nessuno lo condanna. Cos’è più efferato? L’atto folle di un singolo o l’esecuzione sommaria e la punizione collettiva di un sistema? “La pena deve guardare al bene futuro e non al male passato”, diceva quello nel ‘700. Qui tira di più Hammurabi.

La società israeliana, di cui parlo perchè è quella che conosco, non ha scampo. E’ irretita in un circolo diabolico per affossarla ed imbruttirla, e questa è la china che ha preso dal primo giorno dell’occupazione. Qualcuno lo scrive con gli stencil rossi sui muri di Gerusalemme: “Leibovitz zadak”, aveva ragione, e altri gli rispondono in blu “Kehane zadak”.
Tutto comincia con l’indifferenza di gomma di chi, come i più, non vuole aver grattacapi ma un modesto sheket, silenzio. Facciamo come se Gerusalemme fosse Roma o Parigi e Israele gli Stati Uniti: progresso e benessere, va tutto bene. Usciamo a teatro, mangiamo in raffinati ristoranti, suoniamo buona musica, facciamo ricerca, produciamo efficienza. Quel che succede dall’altra parte del Muro non è roba di cui si parla con piacere. Se ne parla da spacconi, degli scherzi che si facevano ai vecchietti arabi ai posto di blocco in lunghe e annoiate giornate di guardia a diciannove anni, o non se ne parla affatto. Non si parla di quei vecchi come di persone alla pari, neanche per scherzo. Non si parla dei diritti, sacrosanti e inviolabili per gli israeliani, inesistenti per una fetta di popolazione da qualche milione sotto il dominio militare israeliano: dei sudditi d’Israele, in Israele, non si parla mai. Delle loro sciagure, dell’ingiustizia della loro condizione e del loro terrore di perdere tutto, fino alla dignità, per il vezzo di un arrogante ragazzino in divisa.

Ma a volte, e con regolare ciclicità, i sudditi alzano la voce per fare i loro reclami, disturbando le attività di ordinaria civiltà dei cittadini israeliani che non essendo sudditi possono dedicarsi a costruire case, a farsi un’istruzione, a viaggiare, a leggere, a lavorare, a giocare, e con un discreto successo. I sudditi alzano la voce nel modo tipico di chi non studia, non viaggia, non legge, non lavora: violenza brutale e disorganizzata, sfoghi di rabbia illogici e ingiusti. Questo è il momento in cui gli israeliani aprono una finestrella su quel che accade al di là del Muro. E cosa vedono? Violenza contro civili, ma nella concitazione del momento vedono solo quello contro di loro. Non è un bello spettacolo, era meglio non vedere. D’altra parte, non puoi mica continuare a giocare come niente fosse quando i boom ti entrano in campo. In questo momento scatta l’interruttore: non siamo più a Roma o Parigi, negli Stati Uniti o in Germania, ma siamo improvvisamente nel Far West coi predoni alle porte, impegnati in prima fila contro il terrorismo islamico intriso di antisemitismo, tutti uniti a respingere i nemici che ci odiano chissà perchè. Compaiono i blocchi di cemento in strada, i mitra, gli elicotteri, i Presidenti del Consiglio a fare discorsi da Armageddon, le esecuzioni sommarie e le punizioni collettive.

Io prendo l’israeliano in buona fede: chissà perchè? – si chiede – ci odiano davvero tutti…e sempre ci odieranno! Dal suo punto di vista tutto ciò non ha una logica: stava bevendo un pacifico tè quando il ristorante è saltato in aria. Perchè la violenza rientri in una logica gli manca un tassello del mosaico, quel tassello che si chiama sheket: in quel breve periodo di tranquillità in cui sorseggiava il suo tè, al di là del Muro l’inferno è continuato a sua insaputa. Nessuno gli ha raccontato di come se la passavano i sudditi, quanta merda ingoiavano e quanto odio accumulavano, quanta efferatezza elucubravano e quanta vendetta desideravano. Prendi Gaza: è stata la parola più importante per un’estate, e adesso è pressochè sparita dalla bocca degli israeliani. Nessuno si preoccupa di quel che accade laggiù: tutti si accontentano di godersi il meritato sheket. Potrebbero essere in corso orribili soprusi ad opera di forze oscure, e magari anche d’Israele, che porteranno inevitabilmente ad un ritorno di fiamma di Hamas e quindi ad un’imminente fine dello sheket, e l’israeliano non ne ha la minima idea. Come se non fosse più un suo problema, come se non lo fosse mai stato.

Una volta arrivati ai ferri corti, la risposta dei leader israeliani è il pugno di ferro contro questa “incomprensibile violenza”, quando pure sanno benissimo cosa l’abbia innescata. La situazione d’emergenza viene gestita con le misure holliwoodiane già descritte, come se si potesse prevenire ogni modalità di attacco. Speranza illusoria, quando ormai il nemico si è ridotto a fare gli attentati con cacciaviti e furgoncini. Ieri si è discusso se mettere posti di blocco permanenti ai villaggi arabi di Gerusalemme, mentre per ora sono solo temporanei: nei giorni caldi li chiudono tutti dentro, semplicemente. Nessuno entra e nessuno esce finchè non si calmano le acque e torna lo sheket. Anche ieri non si è discusso della giustizia di tali misure, cioè di presunzione d’innocenza, libertà di movimento e punizione collettiva, ma della loro efficacia: gli arabi lavorano ovunque quindi, alla lunga, bisognerà lasciarli uscire, quindi se vorranno potranno investire e accoltellare a piacimento. Come fare? Pare che la sicurezza israeliana si sia scontrata col suo limite: palloni aerostatici, intelligence e posti di blocco possono fermare le bombe e forse le pistole, ma non il cacciavite di un muratore e la chiave inglese di un idraulico. Se queste sono le armi della terza intifada, l’unico modo per tenerle fuori dalla portata di ebrei è tenere gli arabi fuori dalla portata degli ebrei. Così è in area C in West Bank, ma estendere il sistema anche solo a Gerusalemme è un impegno a lungo termine, non una misura d’emergenza. Per iniziare, hanno messo sotto scorta gli ortodossi che hanno recentemente rubato le case di arabi a Silwan e Sheik Jarrah: ora girano per il quartiere arabo con la guardia del corpo armata, tutto a spese dei contribuenti siano essi fondamentalisti religiosi, atei o arabi. La vera domanda è quanto terrore possano innescare cacciaviti e chiavi inglesi…ma questo è in larga parte fuori dal controllo dei governanti.

Quel che queste misure comportano sicuramente, e così chiudiamo l’anello diabolico, è l’ulteriore imbruttimento della sicurezza, politica, società e psicologia israeliana: ancor più violazioni, più soprusi, più umiliazioni sui sudditi, questa volta non solo come deterrente collettivo ma anche come vendetta privata. Quello che mi piacerebbe mostrare agli israeliani è come il terrorismo, se così gestito, degradi moralmente tanto il carnefice quanto la vittima: ciò che era sbagliato fare ai palestinesi prima degli attacchi diventa giusto dopo, in un circolo self-reinforcing di oppressione-terrore-più oppressione. Così, giro dopo giro, in quarant’anni l’occupazione ha reso i sudditi bestie in gabbia e i governanti gelidi aguzzini, incapaci di commuoversi per la sofferenza che infliggono. Quelli tra loro che se ne accorgono inorridiscono, si crucciano e spesso scappano dal Paese verso l’Europa e gli Stati Uniti, il vero sheket.

Come sempre, cui bono? Chi guadagna da questo circolo autodistruttivo? Come sempre, può l’ignoranza essere una giustificazione? Si può essere colpevoli senza essere cattivi? E come sempre, non è tanto quello che vedo che mi turba, quanto quello che non vedo: non vedo un limite a quel che Israele sarebbe disposto a fare per conservare una parvenza di normalità, l’agognato sheket. E il non porre un limite ai mezzi legittimi per ottenere il fine è quel che contraddistingue i terroristi, non gli Stati di diritto.

Due ulivi e una colomba

Atto I

Appartamento in affitto in Abu Tor: tre camere da letto, due bagni, salone con terrazzo, giardino, parcheggio privato, a due passi dalla vecchia stazione degli inglesi: 5500 shekel al mese. Le foto dell’annuncio mostrano una vista mozzafiato sulla foresta di pini marittimi e cipressi bruscamente interrotta dalle colline desertiche solcate dai sentieri dei pastori, là dove le piogge finiscono. Siamo in centro Gerusalemme, ma affacciati su Gerusalemme Est, l’altra Gerusalemme. La sera in cui firmiamo il contratto siamo eccitati per aver fatto l’affare dell’anno, e così mi precipito in giardino ad annaffiare le rose, i limoni e gli aranci assetati dal sole di luglio. I due giovani ulivi, invece, sembrano trovarsi a loro agio nell’arsura estiva. E’ il crepuscolo, le luci gialle delle case si perdono nella valle, le luci verdi dei minareti svettano da dietro il Muro che fa una larga ansa dritto a est, sullo sfondo delle alture giordane. Alla luce della sera di ora che scrivo, il bagliore rosso dei deserti mi riporta a malinconicamente a Yotvata, fuori dal tempo e dallo spazio.

Sto quindi annaffiando il primo ulivo, quando Gaia si affaccia e mi dice: “Lorenzo, vieni. Subito”. E’ tesa, è successo qualcosa. La seguo in corridoio, nell’androne, usciamo. Davanti a casa c’è un crocchio di ragazzi, parlano in arabo con Majd, il ragazzo di Gaia. Arturo, in piedi in stato di shock, balbetta che qualcuno ha appena provato a bruciare la macchina di Majd. Il cerchione è affumicato, ma niente danni seri.

“E’ passato un tizio in macchina, ma non sanno chi sia – ci traduce Majd – ha lanciato una bottiglia di benzina e ha proseguito in giù verso il quartiere. Hanno provato a intervenire, ma meno male che sono uscito per prendere il telefono che avevo dimenticato in macchina!” E indica il davanzale di fronte, dove un vecchio arabo ben vestito sta arrotolando una misera canna dell’acqua: non una goccia è arrivata alla macchina di Majd. “Sono ragazzini, lo fanno sempre – continua la traduzione del racconto dei tre ragazzi arabi – vengono giù da Silwan, il villaggio povero. Sai, per tutto il casino di Gaza…c’è tensione. Voi siete nell’ultimo palazzo ebraico prima del quartiere arabo, ma qui noi non voglino problemi, dicono, sono quelli del quartiere basso. Son ragazzi, niente di organizzato”.
Gaia è isterica, gira attorno gridando che ammazzerà il padrone di casa: “E quello stronzo non ci ha detto niente! Abitiamo in un insediamento e neanche ce lo dice! Bastardo! Qui ci fanno la gola! Io lo uccido! Lorenzo, chiamalo subito e digli di venire qui, immediatamente che annulliamo il contratto!”. E Arturo rincara, la voce fioca e lo sugardo perso nel vuoto: “Lo sapevo che c’era l’inculata…una casa così…5500 al mese…non era possibile…ci doveva essere l’inculata…”

Inanto Majd continua a il discorso, Gaia ci traduce per quel che può: “…gli sta dicendo che viene da Issawiya, che siamo gente a posto, italiani…che non siamo ebrei”. Arturo fa per aprire bocca, poi tace: lui è ebreo. Lascio i discorsi concitati e le grida di sfogo e vado a citofonare alla vicina. Mi presento, sono il nuovo vicino…da 40 minuti. La signora è francese, minuta, fragile: “E’ sempre così! Tirano pietre, insultano, tirano vernice, vieni a vedere!”. E mi porta fuori: sulla facciata in pietra bianca in effetti c’è una strisciata di vernice nera, proprio sopra l’ingresso. “Andatevene subito, annullate il contratto. I miei amici non mi vengono a trovare qui, hanno paura, io esco di casa con la testa bassa e a passo veloce. Io me ne vado tra un mese, non si può vivere così.”

Salgo le scale verso gli inquilini del piano di sopra, e invece mi sento sprofondare sempre più in basso nello sconforto. Dlin-dlon….apre una signorotta in carne, truccata con capello tinto biondo, scura di carnagione. Sorride, è una pimpante ebrea mizrahit, di origine orientale, penso marocchina. Non mi fa neanche aprir bocca, attacca lei: “Quindi siete i nuovi arrivati, benvenuti! Quanti siete? Ah, tutti ragazzi giovani, che bello! Per me siete come figli: per qualsiasi, qualsiasi cosa venite su. Sai, ho due figli ma ormai sono fuori casa…e come va? Affittate da Aaron? Tutto bene?” Al che faccio una smorfia d’indecisione e le spiego l’episodio: “Quindi ora stiamo cercando di capire coi vicini…”

“Lascia perdere i vicini – m’interrompe – sono dei loro. Cioè, non sono loro i responsabili, ma neanche si espongono più di tanto: non vedono mai niente, non sanno mai niente. In fondo, sono anche loro arabi. Ma non ti preoccupare, capara, non è niente, sciocchezze! Qualche pietra, della vernice. E’ per via della guerra a Gaza, passa tutto. Io è da venticinque anni che abito qua, ho cresciuto qui i miei figli ed è un posto magnifico.  Danni alle cose, poca roba. Paga l’assicurazione.”
“E quanto alle…persone?”
“Assolutamente tranquillo. Tu esci di casa, i ragazzini ti diranno Shalom-shalom e vorranno attaccar bottone, grideranno qualcosa, tu rispondi Salam Alekum e vai dritto, neussun problema. Ma non dare confidenza….”
La ringrazio e saluto. “E per qualsiasi cosa, io sono qui per voi!”

Torno giù, la discussione imperversa sul perchè e il per come, si sono aggiunti anche i ragazzi del monolocale con giardino sotto il nostro e dicono che per loro non ci si abitua, sono scaramucce. Infine Majd congeda i tre ragazzotti, che gli assicurano di mettere in giro la voce che “siamo gente a posto”. Cioè, abbiamo la protezione di un arabo, perdipiù di uno quartieri più duri di Gerusalemme Est. Rientriamo in casa, completamente vuota perchè ancora da arredare, ci sediamo sul pavimento di marmo a pensare cosa fare.
Arturo propone di costringere Aaron ad aggiungere una clausola di uscita dal contratto con due mesi di anticipo, in caso di problemi di sicurezza. Gaia è incontenibile, mi obbliga a chiamare Aaron di casa che non ne vuole sapere di venire e ci dice che è tutto a posto, che non c’è da preoccuparci. Dice che la protezione di Majd non basta, che il problema per gli arabi è il palazzo, non i coinquilini. Majd ci spiega che suo cugino è il mukhtar di Issawiya, tipo un capo banda che organizza gli atti vandalici di resistenza politica, e che gli chiederà di sistemare la questione col mukhtar locale. “Ma se scoppia la terza Intifada, voi siete in prima linea”, aggiunge.

Atto II

Sono passate due settimane, con la zia Lula e Simo stiamo recandoci a casa, per passarci la prima notte. Portiamo con noi la prima ondata di trasloco dalla casa vecchia. Saliamo a sinistra da Derech Hebron per Rehov HaGikhon, passiamo il ricco quartiere ebraico residenza di illustri inviati ONU e EU, e superato lo spiazzo di collina brulla con quattro ulivi selvatici arriviamo al parcheggio privato della nostra palazzina: la palizzata in legno del cancello automatico in stile fortino nella prateria non sembra più fuori luogo. Saranno 30 metri di distanza dal resto del quartiere, ma bastano a cambiare nazione: di fianco a noi e davanti a perdita d’occhio fino al deserto sono solo boiler dell’acqua neri sui tetti delle case cubiche, minareti, insegne in arabo, bambini che giocano in strada, macchine scassate, sporco, donne velate. Visto lo scollinamento, anche il muezzin si sente più forte. Accecati dallo splendore della casa, né io né Arturo, militante di sinistra, né Gaia, lavoratrice in progetti di sviluppo per la Palestina, ci eravamo accorti di trovarci dall’altra parte. Facciamo per entrare in casa, e ci troviamo davanti al portone una macchina completamente carbonizzata. I vetri dell’ingresso infranti, altra vernice nera sui muri. La zia mi prende e mi dice che non posso abitare qua, che non me lo permette. Simone ride per sdrammatizzare. Stiamo sistemando gli scatoloni in casa quando sentiamo la risata dell’inquilina di sopra: è sul piazzale davanti a casa in vestaglia, sempre truccata, e scherza sull’accaduto con il meccanico che è venuto col carro attrezzi a rimuovere quel che resta della macchina: “Ma sì dai, tanto era di mio marito! – e ride – L’assicurazione paga, cik-ciak ed abbiamo la macchina nuova.” Mi saluta e sempre ridendo, in vestaglia davanti al quartiere arabo che la osserva da dietro le tende di casa, aggiunge gridando: “Loro la bruciano? E io ne ricevo una nuova!”. La zia anche si mette a ridere e commenta: “Che donna, che nervi. Al posto di chiamare vendetta, ridi! Perchè far la guerra?” Idole indiscusse della giornata, entrambe. Io e Simone, nel dubbio, ridiamo. Stiamo sistemandoci per la serata, quando dal terrazzo vediamo ragazzini avvolti in kefiah lanciare pietre in Rehov Naomi, probabilmente verso una camionetta di soldati. Botti di petardi, insulti in arabo, cassonetti bruciati. Nessuna contro offensiva. Solo più tardi, calmatesi le acque, arriva un camion dei pompieri a spegnere tutto.
Nei giorni successivi cambiano i vetri rotti della facciata e vengono con la pistola d’acqua a pressione a lavare la vernice dal muro e la plastica bruciata dal piazzale, l’estetica rinorna alla normalità. La vicina mi confessa che fino a tanto non si erano mai spinti, e che adesso sia i soldati che un’agenzia di sicurezza privata fanno le ronde, finchè non si calmano le acque. A Gaza la guerra imperversa, e per non rischiare noi parcheggiamo la macchina all’inizio della via.

Atto III

E’ già da un mese che ci siamo trasferiti nella casa dei sogni, e per ora non abbiamo avuto incubi. L’abbiamo arredata, riempita di cose e persone, ed è già nostra. Ci siamo assicurati di non essere un insediamento: il confine del ’48 passava dopo il nostro terrazzo, letteralmente. Abbiamo rivisto i ragazzi arabi del vicinato, parlano un ottimo ebraico e lavorano in Israele, abbiamo una partitella di calcio in sospeso nel campetto del quartiere. Abbiamo compreso l’inusuale  calore dei vicini, tutti, come naturale spirito di coesione per affrontare il senso di assedio: se loro son dei loro, noi siamo dei nostri, quindi veniamoci incontro. Il muezzin ritma le nostre giornate, alla sera i pastori riportano il gregge all’ovile nella collina di fronte. I petardi quotidiani di ragazzini annoiati fanno scappare le colombe che hanno nidificato sul condizionatore in cima al palazzo, e che ci sgagazzano sul terrazzo. Il venerdì, sono veri e propri fuochi d’artificio: non avendo più kalashnikov, così gli arabi festeggiano i matrimoni. Ogni tanto gruppi di coloni vagano per le vie del villaggio arabo scortati dall’esercito, pregano a squarciagola di tanto in tanto lanciando insulti. Per il loro passaggio bloccano il traffico e nessuno può scendere in strada neanche a piedi.

Aaron vuole vendere casa, e ogni tanto piomba qui con potenziali acquirenti. Recentemente una francese si è innamorata del posto e noi, a malincuore, la capiamo: se la compra, noi abbiamo le ore contate. E’ venuta a trovarci senza Aaron, ma portandosi dietro la figlia diciannovenne, che è soldato. “Parliamo dugri, schietto – ci fa – c’è da aver paura?” Siamo in giardino al crepuscolo, il muezzin canta e le stelle iniziano a comparire, la calma avvolge ogni cosa in un vento leggero. Io e Arturo ci scambiamo uno sguardo, indecisi sulla strategia. Finisce che le diciamo la verità, a questa piccola francese come noi volenterosa di convivenza e pace. “Il quartiere è difficile, la situazione non è stabile. Siamo un sismografo: quando qualcosa si muove in profondità, noi sentiamo la scossa, forte e chiara. Ora è tutto tranquillo, perfetto, ma domani potrebbe cambiare.” In cuor nostro, speriamo che i bambini sparino qualche botto e lancino qualche grido adesso, e invece tutto continua a tacere. Le raccontiamo degli episodi passati, condividiamo con lei le nostre preoccupazioni: “Abbiamo fatto aggiungere una clausola di recessione dal contratto in caso di emergenza. Per noi è facile stare qui, siamo affittuari. E non abbiamo figli…che torneranno a casa in divisa.”
“E’ un dilemma – conclude lei – Se ci arrivassero gli accordi di pace, questa casa triplicherebbe il proprio valore. Ma se la politica continua su questa china…”

Tornati in casa scherziamo con amici sulla visita della francese, e su come non farle comprare casa. “Vedi, dovevamo pagare qualche ragazzino per bruciare un cassonetto mentre lei era qui!” Ridiamo tutti, poi improvvisamente si tace, pensierosi: ci vuole davvero così poco a fare la guerra? La risposta è univocamente sì, basta così poco perchè funziona: la paura, il rischio, l’odio fanno anche il prezzo delle case, e così orientano le scelte razionali delle persone. Con una battuta, noi pacifisti ci rendiamo conto di essere in condizione di avere grande interesse nella violenza. Manipolando la paura manipoleremmo le scelte di terzi, in nostro favore. E cosa ci vuole? Per 50 shekel un ragazzino arabo dei quartieri bassi ti brucia ben altro che un cassonetto.

Guardandoti intorno e vedendo le assurde piaghe del conflitto, lasci per un attimo la retorica narrativa nazionalista israeliana e imbracci il sano egoismo razionale italiano, e finalmente molte cose assumono un senso, una profilo: il capillare conflitto d’interessi di una società, una politica ed una economia troppo abituate a fare i conti con la guerra, a metterla come voce di bilancio. Chiunque può trovarsi ad avere interessi diretti nel conflitto, e chiunque può generarlo. Se fossi un costruttore di palizzate in legno per parcheggi privati, se fossi il direttore di un’agenzia di sicurezza privata, se fossi un politico in cerca di coesione sociale, se fossi un palazzinaro delle super protette colonie ebraiche in Palestina, se fossi uno studente che non vuole esser buttato fuori di casa, quanto mi farebbe comodo la strategia della tensione? Un cassonetto bruciato val ben una casa. E un arresto? Uno sfratto? Un ordine di sparare ad altezza uomo? Un rapimento di ragazzini innocenti? Il meccanismo è micidiale. Questa è ora la dimensione della mia quotidianità, lo sperare nella tensione controllata, il rischiare col fuoco prima di tutto con la tua integrità, sempre sul baratro del compromesso: un cassonetto sì, una coltellata no. Questo è vero per me, affacciato sul confine con Gerusalemme Est, ed è vero, troppo vero, per il sionismo contemporaneo che è troppo capace di manipolare la tensione. Come si può resistere?

Post Scriptum

Atto IV

Ieri Aaron è venuto a risquotere l’affitto mensile, accompagnato dalla francese con marito. Hanno fatto il giro per la casa, guardato le stanza. A un certo punto cedo e la butto lì: “Aaron, parliamo di sicurezza. Venerdì ci sono stati scontri in città vecchia, i soldati hanno ucciso un ragazzino palestinese di 13 anni. Lo stesso giorno ci hanno tirato pietre sul terrazzo.” E li porto a vedere i sassi appositamente lasciati sul posto in cui sono atterrati, sulle cacche delle colombe. “Magari sono caduti dal tetto…” azzarda Aaron. “Sono arrivati anche in giardino, e qui sulle inferriate c’è il segno di dove hanno colpito. Sono arrivati da Rehov Naomi”. Tutti tacciono, i due borbottano qualcosa in francese. Al chè, rompendo il silenzio, Aaron li porta a vedere il piano di sotto.

Non abbiamo pagato nessuno per lanciarci le pietre, ma avremmo potuto farlo.
Non abbiamo messo noi ad arte le pietre sul terrazzo e in giardino, ma avremmo potuto farlo.
Abbiamo solo fatto notare l’accaduto, ed ha funzionato. Forse avremmo potuto semplicemente raccontarlo senza lasciare le prove, ma questo avrebbe coinvolto la nostra credibilità, come quando leggiamo le notizie su internet o ascoltiamo il tg. Quel che mi turba è che in cuor nostro abbiamo gioito del lancio di pietre: è stato un compromesso ragionevole. Quindi mi chiedo, se le pietre avessero rotto i vetri, sarebbe stato ancora un compromesso ragionevole? Fino a dove saremmo capace di spingere i mezzi, pur di ottenere il nostro fine? Non lo so, e questo fa paura.

Ti guadagnerai il pane col sudore della fronte

L’annuncio recita: “Azienda avviata cerca impiegati per diverse posizioni: rappresentanti, centralinisti, insegnanti, formatori. No vendita. No mediazione”. La gentile centralinista spiega che si tratta di formazione e supporto clienti per un prodotto altamente tecnologico: lavoro part time o a ore, a seconda delle esigenze, paga ben più alta del minimo di legge. Sembra ottimo per uno studente squattrinato. Se ti interessa, vieni alla presentazione di mercoledì alle 16.00, in via HaPisgah 8. Il centro congressi è pulito e anonimo. Al primo piano una signora con parrucca prende in nomi e chiede da chi siamo stati invitati. Guardandomi in torno vedo solo completi neri e camicie bianche, kippah nere, gonne e maniche lunghe, parrucche: sono tutti, ma proprio tutti, ortodossi hardcore. Le sedie in sala sono divise da un corridoio centrale: gli uomini siedono a destra, le donne a sinistra. Nel corridoio quattro lavagne di alluminio impediscono la vista tra una navata e l’altra: che non si induca in tentazione il timorato di Dio. Il proiettore è acceso su un grande logo DGL Cosmetics Paris. Mi siedo in ultima fila. Finalmente il presentatore entra, completo nero kippah nera camicia bianca, e si piazza in piedi a fondo sala, in linea con le lavagne: senza vederci, sia uomini che donne lo vediamo. “Per prima cosa vi presenteremo il problema, poi la geniale soluzione che abbiamo trovato”. E parte con le diapositive. Il problema pare essere l’inquinamento globale, dall’effetto serra al DDT, per le pessime conseguenze che ha sulla pelle del volto. Eh già, mie care signore. Infatti le tossine nell’aria e nel cibo che mangiate fanno morire le cellule, spuntare le rughe, invecchiare il vostro aspetto. E’ proprio vero: è tutto documentato da fotografie e clipart su sfondo azzurro. Fortunatamente gli studi Swartz di Parigi hanno trovato la soluzione nel quintuplo principio attivo di piante esotiche, racchiuso in questo elegante pacchetto porpora. A mezzora dall’applicazione della crema, il risultato sarà un shock. La vostra incredulità dimostra quanto incredibile sia la nostra tecnologia.

La spiegazione è artatamente confusa, il filo logico attorcigliato. En passant, due dirigenti dei laboratori sono ebrei: non sia mai che lavoriamo per i gentili.

Ma ora passiamo al vostro lavoro: non si tratta di vendere, non si tratta di convincere. Si tratta di trasmettere informazioni. Il vostro numero di telefono verrà stampato su questo facsimile in cui tutto è scritto e vi verrà mandato via posta elettronica. A voi la scelta di quante copie stampare e dove appenderle. E sventola una copia dell’annuncio a cui tutti abbiamo risposto. Questa invece è la lista di informazioni che dovete trasmettere: 11 punti. Saranno le persone a chiamare voi, voi risponderete e seguirete l’ordine dei punti: come ti chiami, da dove chiami, che professione fai, …, dove ti è più comodo partecipare alla presentazione. Per ogni persona che vi contatterà e che andrà alla presentazione e si iscriverà, voi guadagnerete 900 shekel. E per aver fatto cosa? Risposto ad una chiamata di tre minuti. Non male. E non finisce qui: per ogni persona che si iscrive tramite la persona che voi avete fatto iscrivere, guadagnerete 100 shekel. Ecco a voi Avner, un testimone: dicci, Avner, quando sei entrato nella nostra azienda? Due mesi fa, ottimo. E quante persone hai fatto iscrivere? Una a settimana, eccellente! E loro hanno fatto iscrivere a loro volta? Ah sì, una media di due persone a testa?! Fatevi due conti in tasca, signori. In questo prospetto che vi abbiamo preparato sulle slides, con un impegno di mezzora a settimana potete tranquillamente arrivare ad un indotto di 386 mila shekel all’anno! Vedo la mano alzata di un ragazzo in ultima fila: non ora, domande alla fine prego.

Eppure alla fine non c’è spazio per domande, ma ci si divide in tanti gruppetti ciascuno diretto da un rappresentante esperto, mantenendo la rigorosa distinzione tra sessi. Io capito col capo, e la domanda mi bolle in petto come il sangue al cervello che mi è salito nella sua mezzora di sproloquio. Belle le foto del prima e del dopo la cura che ci fai passare sotto gli occhi, davvero una cremina miracolosa.“Ma dimmi, com’è che guadagnerei 900 shekel senza fare assolutamente nulla?”
“Ma come, certo che faresti qualcosa! Passeresti informazioni”.
Sogghigna il mio vicino, uno studente d’ingegneria di un istituto religioso del centro: “E poi scusa, non ti va di guadagnare facile?”
“Nessun problema a guadagnare facile, purchè guadagni il prezzo del servizio che erogo. Qui vendiamo aria, in forma di una iscrizione all’albo dei rappresentanti dell’azienda. Che facciano cosa? Portino altri rappresentanti dell’azienda che…”
E l’ingegnere di nuovo incalza: “Ma a te cosa importa, finchè ti arrivano i soldi”
“Sì, ma vorrai anche fare un lavoro onesto, oltre che i soldi, o anche solo un lavoro nel vero senso della parola…”
“Certo certo certo – taglia corto il presentatore che da vicino ha dei denti mostruosamente gialli e bavosi, e nei suoi occhi già cattivi saetta un baleno di puro odio – se volete parlare potete accomodarvi fuori. – E facciamo silenzio. Quindi prosegue con un sorriso tirato rivolgendosi a me – Se vendessimo aria, sarebbe un lavoro disonesto, ma qui non vendiamo aria. Infatti, con l’apertura del punto di connessione – così chiamano la quota d’iscrizione all’albo dei rappresentanti – si ricevono delle confezioni del prodotto che possono essere vendute…”
“O buttate via – lo interrompo – Ma comunque io, in quanto buttadentro, intasco i miei 900 shekel dall’iscrizione. Questo è ciò che conta. Si può dire che le confezioni siano un…omaggio di benvenuto nella grande famiglia. O, più  in generale, si potrebbe dire che gli interi laboratori Swartz siano una montatura per coprire quello che è il vero prodotto, l’iscrizione all’albo, e il vero cliente: noi adesso. Da domani, una volta pagata la quota d’iscrizione, allora forse potremo dire di essere lavoratori. Ma qui a questo tavolo, adesso, siamo per te una mazzetta di soldi ambulante. – Mi guarda esterrefatto – Piuttosto, a quanto ammonta questa mazzetta? Quanto ci costa l’iscrizione? Se il venditore di prima mano fa 900 e il secondo rivenditore 100 e così via riducendo fino al quinto rivenditore, sarà sicuramente più di 1500 shekel, perchè vorremo pur dare una mancia al grande presentatore, ai suoi segretari e ai suoi avvocati che sicuramente deve pagare per non finire arrestato per frode…no?”

Avrei voluto essere così dirompente e teatrale, istrionico. Ma purtroppo, complice la rabbia e l’ebraico, mi limitai ad un misero “Io non lavoro così, mi spiace. Non vendo una licenza per vendere se stessa. Nè la compro”. Una stretta di mano e un’alzata di spalle, salvo poi voltarmi appoggiarmi al tavolo e inclinarmi verso di lui fissandolo negli occhi e intimando: “Questo sistema è legale, vero?”.
Rosso in viso, coi pugni chiusi, mi lascio alle spalle quella massa di zombie ottusi e opportunisti impinguinati nelle loro kippah e parrucche. Così gli uomini di Dio, per l’ennesima volta, si fanno beffa degli uomini.

PS

Stanno accoccolati sui sedili dell’autobus di fronte a me. Si tampinano e rubano la kippah srugah, ricamata, in continuazione. Quello di sinistra, scuro di carnagione, chiede se quello là, sì, quello là in piedi davanti alla porta, non sia arabo. “Tu odi gli arabi?” chiede di punto in bianco l’altro.
“Sì”, risponde senza problemi il primo.
“Io no. Non li amo, ma neanche li odio”.
L’altro lo guarda scettico. Allora prosegue:
“Io sono di sinistra” fa come per spiegarsi, e poi asserisce: “Il popolo d’Israele è di sinistra”. E con questo chiude la conversazione. Ricominciano a tampinarsi.

Avranno dieci anni, torneranno a casa dal dopo scuola. Il secondo scende alla fermata della stazione degli inglesi, da fuori si attacca al vetro dell’autobus e fa capire che correrà all’altezza dell’amico mentre l’autobus riparte. Si toglie la kippah e la mette in tasca, l’autobus riparte e lui comincia a correre ridendo.

Meanwhile in Jerusalem

The first thing you notice is that a meaningful slogan takes more time to be said than an idiot one: “Blood is blood cause we are all human beings” vs “Death to the Arabs”; “Arabs and Jews refuse to be enemies” vs “Death to the leftists”; “Racism and Tag Mehir, we won’t leave you the city” vs “Revenge”; “You don’t make democracy with occupation” vs “Arab motherfucker”; “We are all together without hate and fear” vs “We’ll kill the traitors”. This already plays in favour of the right wing mob pushing on the police line dividing them from the leftists. Among them a lot of skinheads covered in kippas, white shirts and black pants, ziziot, long curly locks, tight undershirts, hair gel. They are the same fascist faces you see in the European stadiums, street riots and wherever there is the chance of some violence for free. But here in Kikar Zion of Jerusalem it’s not only uneducated working class: it’s also yeshiva boys, students of Torah and Talmud. Extremist religious with their women, hair covered in a foulard and legs in long skirts. It’s them yelling at the leftists that they’re traitors of their people and of their Jewish soul, conspiring with the Arabs against their brothers. A drum gives rythm and courage to the fifty-one hundred protesters holding their lines on the staircase to the Bank Hapoalim, otherwise overwhelmed by the much cheaper and catchy slogans calling for revenge and blood. The situation is not that tense indeed, with people passing from  one side to the other to provoke, discuss, mock, under the constant supervision of policemen in plain clothes. No pushing, no punching, just insulting and delegitimating, sometimes explaining. So far nobody’s ready to break the spell.

From the leftist barricade I’m surrounded by a thick, gloomy sorrow, heavy like a stone in the desperate glance of students, workers, grandmas and grandpas. There’s also a young father holding his newborn in the arms, wrapping him into a sounding “Israel says no to violence!”. Good try, dad. From my observation point in top of the staircaise, close enough to make number with the anti-racist protesters but distant enough to make clear I’m a tourist, I see the laught in houndreds of opponent faces: they dance in circles singing Jewish traditional songs, they mock the chasteness of the pacifist taking it for weakness, they smile while making explicit gestures. For them it’s a party, the happy moment in which the Israeli people, thanks to the recent escalation of abductions and killings, got rid of its political correctness and finally broke free in its destructive power: it’s the time to destroy the enemy, once forever. The Arabs first, the leftiests second, and then we’ll think about the third.

In the last week every night it’s a hunting for witches. Organized in squads like our fascists in the 20s they go around looking for Arabs. They ask taxi drivers and sellers what’s the time, and by the accent of the answer they discover the identity of the person: in case of Arab, the lynch can start, quickly before the police arrives. The bystanders who try to intervene, leftists and traitors of their Jewish soul, find the same fate. No Arabs walk the streets of the center in these nights. 

From the staircase I see Israeli flags pop out among the laughing crowd, covering them while singing “A Jew is a soul, an Arab is a motherfucker” and “People of Israel live”. In the same way Berlusconi’s Forza Italia tried to privatize our nationalism in the only place where it appears, the soccer field, so here the racists try to privatize Judaism in the most delicate matter: security. With their locks and kippas and ziziot and dances and flags they’re physically instantiating a higher degree of Judaism than the secular leftists, dressed like Europeans promoting ideas of Europeans. Which in exchange do not sing “People of Israel live”, do not bring flags, do not hold a sign reciting the Fifth Commandment. They just scream it: “Don’t kill!” and receive back a dry and shameless “Yes kill!”, and that’s all. They don’t claim their Jewishity in any way, as if they were indeed betraying it, but they let the bloodthirsty mob call them “brothers”. This makes me sad. 

I ask the protesters if it’s legal in Israel to publicly instigate to racism, violence and death, they say is not. So I ask them why the police is not arresting the houndreds screaming it and writing it on giant signs right now in front of our eyes, they sigh and point out that ministers and parlamentars express the same opinions in the institutions: the reality is very different from the theory. They also explain me that there are actual movements for violence and revenge, like Lehava and Tag Mehir, and they point in the crowd at people wearing black: they even have shirts with logo and slogan! This makes me angry. 

I wait and I wait, expecting other people to arrive, other people, other Jews, to stop and join the protest against pogroms. My friends, my people, my world, the Israeli world I know: where are they? What else do they have to do while fascist squads conquer their capital city? The protesters are still a fistful of university students when someone from the racist mob decides the show lasted enough and the time came to break the spell, throwing plastic bottles and cans on the leftist crowd. Still no reaction by the police, which indeed is the Border Police, known to be the most nationalist and violent police corp. Only when the first glass bottle explodes on the staircase, one meter from me, a cop in plain clothes catches the kid who threw it and takes him to the police car: white kippah, skinhead with short locks bouncing around the ears, he’s not more than 16, like the most of his comrades. Some one houndred fascists run towards the police car abandoning the leftist protest, not violent enough for them, and start screaming “traitors!” and “Nazi!” to the cops which hold them at distance. 

In few minutes the fascists give up, the leftists clap hands and stop their singing: in a way they won Kikar Zion. But what about Israel? Who’s winning the immediate future of the Jewish State? A State whithout a Constitution to guarrantee the equal rights of its citizens, with some laws prohibiting racism and nobody to enoforce them; a State where everybody swears he’s for the peace with the Palestinians, but nobody thinks there will ever be peace; a State were a protest against indiscriminate violence and eye-for-eye vendetta is indeed a leftist thing, when the majority of the nation votes right; a State where people can gather in the capital city to call for pogroms, when you almost believed when they told you “Israel democracy is like Europe, but in the Middle East”; a State where your criticism is heresy cause “you’re not a Jew, you cannot understand”, while many things are clear and univocal, taking place every night in the streets of the center; a State where the best people I met are not sure they want their children to grow here. This, in particular, makes me desperate.

It doesn’t scare me how far are Gaza’s rockets from Jerusalem, but how Gaza is already in the Jerusalemites. 

Vado a vivere nel bosco

Achi, ci verresti a vivere un mese in natura?”. Sarà stato un mesetto fa, in vista delle imminenti e lunghissime vacanze di Pasqua: tutto aprile a casa dagli studi! Solo recentemente, dall’amaca fuori dalla nostra tenda, David mi ha confessato che non si aspettava che avrei detto di sì. Non ci credeva neanche lui, in realtà, che si potesse fare così facilmente. Che si potesse continuare la vita di studenti e lavoratori da una zula nel bosco.

Il nostro bosco sono cespugli, carrube e ulivi arruffati gli uni negli altri su un declivio che volge ad ovest, oltre le mura del monastero che delimita la fine di Ein Karem. Ad accompagnare il sentiero fino all’ultima svolta sulle terrazze in pietra a secco ci sono le cupole della chiesetta russa, come cipolle dorate alla luce del tardo pomeriggio; nella valle a sinistra si snoda una stradina sterrata che collega la fontana di Maria, dove si dice abbia fatto sosta con Giuseppe di strada per Gerusalemme, ora racchiusa entro una piccola moschea, alle sorgenti naturali di Ein Hendak. Da qualche parte, tra questi ulivi, si narra sia nato Giovanni Battista. Ma oggi non ci si fa molto caso. Ein Karem è piuttosto un borgo toscano trapiantato ai piedi della salita verso i monti di Gerusalemme: ristoranti di un rustico ricercato, cioccolaterie pregiate, gallerie d’arte fanno dell’incrocio principale del paese un crocevia per turisti, coppie di trentenni, famiglie bene, comitive di pellegrini. E hippies. Ein Karem è la piccola, graziosa capitale di quelli che non vogliono stare al ritmo pressante della città, o che se non altro lo reinterpretano. Fanno feste di musica etnica, laboratori di contact dancing in cui si balla appoggiandosi e arrampicandosi gli uni sui corpi degli altri, eventi di scambio di vestiti, mercatini di saponi e pietroline, falò e balli sulle terrazze, settimanali tour guidati di “raccolta” in cui s’imparano le piante curative e le fonti di cibo che i monti di Giuda offrono al viandante. Ma io e David tutto questo non lo sapevamo. Un mesetto fa lo portai sulle terrazze sulla scorta del tenue ricordo di un hippy yemenita che sbuca dal bosco ai piedi del monastero, in una fredda giornata di dicembre con la mamma e la Sara, e delle sue parole al termine di una festa africana all’Abraham Hostel con la Cippa e la Lara, l’estate prima: “Dovete venire ad Ein Karem, siamo tutti giovani e felici. Cercate le terasot”. Lui non sarà proprio giovane, ma felice mi pare proprio di sì. Nè a dicembre mi riconobbe, né alla festa di qualche giorno fa in cui di nuovo sbucò dal nulla seduto di fianco a me, la pelle scura scavata dai riflessi delle fiamme del falò. Ironico pensare che, in un certo senso, stavolta era lui ospite mio.

Al nostro primo sopralluogo ci tenemmo sul versante sud della collina, dirimpettaio del mostruoso ospedale Hadassa, ed arrivammo senza vederle, complici gli ulivi e i cespugli, a pochi passi dalle due casette in pietra e fango dove Sharon, Ilana e Davidi e i loro bambini vivono . Li conoscemmo solo al secondo sopralluogo, quando di strada verso la “valle degli yemeniti” David riconobbe sul sentiero un cliente della sera prima all’Abraham Hostel, dove lavora: “Cercate dove stabilizzarvi in natura? Venite con me, ho da presentarvi delle persone che possono consigliarvi”. Sharon è una signora di 50 anni suonati, non ha famiglia e abita sulle terrazze da otto anni. E’ una massaggiatrice e spesso riceve i clienti a casa…o meglio, a capanna. E’ un monolocale la cui parete a monte è il monte, un ininterrotto costolone di roccia bianca; il pavimento è in una ghiaia di morbidi ciottoli, gli scaffali e gli armadi sono in un legno massiccio impregnato del calore e del fumo della piccola stufa in ghisa che le permette di sopravvivere al gelo invernale. Il letto è grande e sommerso di coperte e cuscini spumosi, i vestiti sono variopinti. Furadis e Kaia, i suoi due muscolosissimi cani, hanno premura di segnalarci che siamo nel loro territorio, ringhiando e girandoci attorno insospettiti. Durante il nostro primo sopralluogo ci avevano scovato e seguito lungo tutto il sentiero, giocando e saltandosi addosso l’uno all’altro senza sosta. Avevo pensato fossero randagi, e che fossero puliti grazie al clima secco di Gerusalemme: che ingenuo.

Ilana e Davidi hanno sostituito il fratello di Sharon nella seconda casetta, appena otto mesi fa. La loro è una vecchia casa araba, squadrata e solida, a cui è stato aggiunto un vano cucina in pietra e fango. Una cucina da ostello, piena di stoviglie e pentolame; gli armadi e le mensole strabordano di spezie ed erbette raccolte qui intorno; uno scompartimento è interamente dedicato agli olii aromatizzati: zatar, pepe, avocado sono quelli che ho provato finora; elementi tipici del panorama culinario sono i due cani sdraiati in mezzo alla stanza, in cerca di refrigerio dalla calura che si fa già sentire.
Davidi è un ingegnere informatico ed Ilana una designer d’interni, ma non li ho mai visti lavorare. Non in questi settori, se non altro: permacultura, cucina etnica, organizzazione di ritrovi con amici sono le attività che attraversano le loro giornate, brevi intermezzi nel giocare coi bellissimi e biondissimi figlioli, Ruth di un anno e mezzo e Noga di tre. Ho notato che non danno mai, ma proprio mai, ordini ai bambini: né per mangiare, né per andare a dormire, né per lavarsi, né per smettere di far casino, non ci sono imperativi ma punti interrogativi e tanto contatto fisico. I bambini giocano col cibo, se lo impiastrano sulla faccia disegnando figure, si arrampicano sui cani o su di noi mentre leggiamo o riposiamo. Non sembrano selvaggi, solo liberi. Lo stesso vale per le altre famiglie che vengono a trovarci, per questo credo sia un modello educativo strutturato e condiviso, e non una disposizione caratteriale.

Come si mantengano, non ne ho idea. Pagano un affitto simbolico ad un signore che “sostiene di essere il proprietario della terra”, ma il comune di Ein Karem la pensa diversamente e gli ha fatto causa, ancora in corso. Pagano elettricità e acqua, che è una grossa voce di bilancio vista l’irrigazione della serra e del piccolo orto. Io e David, la tedesca Clara e l’israeliano Meir, dai nostri accampamenti sulle terrazze, scendiamo alle case per elettricità, internet acqua e cibo in cambio di lavoretti non meglio specificati. Sto iniziando a capire che nella mentalità hippy le scadenze e gli impegni non vanno molto di moda: “ci pensiamo, poi ci sistemiamo a conguaglio”. Nell’attesa che ci dessero qualche mansione, io e David abbiamo ripulito la nostra terrazza, costruito una doccia e dei bagni organici (altresì detti “cacca-in-un-secchio”), piantato pomodori, meloni, angurie, insalata e peperoni, iniziato a costruire una zula per ospiti ed eventi. Ilana e Davidi apprezzano e si complimentano, ma non chiedono e non richiedono: domani è un altro giorno…vuoi un the?

Mi sveglio la mattina col cinguettio degli uccellini attorno alla mia tenda, vado a dormire la notte con la luna alta nel cielo sulle foreste ad ovest, spezzate dalle bolle luminose dei moshav e dei kibbutz, e gli ululati dei tanim, piccoli lupi che abbondano in queste valli. Mangio vegetariano, per il semplice fatto che la cucina è kasher quindi non ci entra carne, e soprattutto non mangio pane perchè è Pasqua, quindi niente lievito. E questo mi fa soffrire. Studio sul computer o sui fogli che mi sono portato, e ogni giorno bevo un caffè con qualcuno che viene a trovarmi. Gioco coi cani, gioco coi bambini. Quando voglio sgranchirmi faccio un po’ di giocoleria e qualche verticale, vesto vestiti larghi e comodi. Non devo pensare a fare la spesa e a cucinare, a fare la lavatrice e prendere l’autobus. Ho tantissimo tempo. Giro scalzo tutto il giorno, sui sentieri e sui cardi, e sui piedi mi si è fatta la suola come nelle estati di quando ero piccolo in spiaggia, dieci ore al giorno sulle pietre roventi. Sembro un hippy, ma è solo apparenza. Il fatto di avere improvvisamente tanto tempo non gli ha tolto significato: la giornata non scorre in attesa della successiva, ma continua i progetti di quella precedente. Ieri in due sessioni di studio ho tirato fuori un capitolo del progetto di filosofia, con tanto di note bibliografiche: un lavoro pulito, senza correzioni e riformulazioni, un’esposizione lineare di pensieri complessi. Sono piuttosto un monaco: lavoro tanto, sulla terra e sul computer, e prego a modo mio, pensando alle persone a cui non penso abbastanza nel ritmo normale di vita, e augurando loro quello che credo sia il loro meglio. Se qualcuno da Lassù vuole ascoltare, faccia pure.

Non potrò resistere a lungo quaggiù. Per ora ho affittato la mia camera in centro solo per il mese di aprile, e credo che non prolungherò. Non è questione di distanze, la città è sorprendentemente vicina: meno di mezzora tra autostop e tram. E’ questione di stimoli, qua mancano. Manca la civilità e il rumore, l’uscire di casa ed essere nel mercato, gli incontri casuali, i significati che si accavallano gli uni sugli altri. La natura mi piace perchè può essere solo contemplata e non interpretata: il carrubbo che sostiene la casetta sull’albero di Clara non vuole dirmi niente, proprio niente. Io lo so, e così non mi sforzo di capirlo. Semplicemente ci passo sotto e lo ammiro, perchè è maestoso. Al contrario, ogni cosa che sento o vedo in città, e in particolare a Gerusalemme, vuole mandarmi un messaggio; ogni scritta e ogni vestito è simbolo di qualcos’altro, che cerca di farsi capire in ogni modo, di catturare la mia attenzione almeno per un attimo. Nulla è come sembra, in città. In natura invece tutto è solo come sembra: non solo vedo quello che Furadis e Kaia vedono, ma capisco quello che Furadis e Kaia capiscono.

Un uccellino fischietta, un lupo ha ululato, le foglie frusciano, la terra è calda, una formica trascina un semino. Sia per me che per i cani.

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Per un pugno di grammi

Le regole d’imbarco bagagli sul sito Alitalia sono vaghe e dettagliate, come nella migliore tradizione burocratica italiana. Dettagliate, perchè organizzate in categorie esaustive e gerarchiche; vaghe, perchè ai criteri nominali non seguono definizioni operative: ci sono restrizioni igieniche sui cibi ammessi in bagaglio a mano, ma non è dato sapere quali; è vietato portare oggetti contundenti, ma sta al viaggiatore evincere la definizione di contundenza a partire dai pochi esempi, tutti corredati da disegnino, che si trovano sul sito; formalmente è ammesso un solo bagaglio a mano di tot chili e tot volume, ma si può dedurre che due colli di ugual misura totale saranno ammessi. Elenchi e tariffe per trasporti speciali sono incastonate in un arcipelago di link esterni che, si sa, l’utente medio non ha la forza di visitare. D’altra parte non c’è da biasimarli, non si è mai visto un perfetto inventario del mondo e un po’ di sano buon senso è la chiave per qualsiasi buona ontologia. La soluzione migliore per chi vuole tirare un po’ la corda, a fine consultazione, è preparare una strategia.

L’italiano partirà sempre dal principio della scarsa informazione disponibile: il sito non era chiaro, il regolamento sulla carta d’imbarco non era abbastanza esplicito, l’ufficio informazioni Alitalia era chiuso. Tutto per poter arrivare con ragione a sostenere di non sapere, o meglio, di non essere stato messo in condizione di sapere e che quindi la trasgressione, se c’è, è involontaria.

L’israeliano parte invece dal principio opposto, quello dell’informazione aggiuntiva: vero che sul sito è scritto così, ma altre fonti confermano il contrario. L’obiettivo è arrivare a saperla più lunga degli impiegati Alitalia.

In fase preparatoria, l’italiano costruirà a tavolino delle circostanze che giustifichino il proprio errore, puntando così a farla franca mantenendosi pulito. Più ancora che la vittoria, è importante la reputazione: mal che vada, il biasimo sarà d’ingenuità ma non di figlioputtanismo. La sua performance è una messinscena di umanità, il cui elemento chiave è l’empatia: quanto più riuscirà a far immedesimare l’impiegato nei suoi panni, tante più chances di successo il colpo avrà.

L’israeliano si organizza con una rete di contatti paracadute. Parte dal fatto che conosce, o può arrivare a contattare, qualcuno all’interno dell’organizzazione: invia mail, fa telefonate, mette in moto persone, scarica documenti, cercando di ottenere una qualche forma di lasciapassare scritto. L’israeliano la prende come una prova di forza in cui ogni colpo basso è ammesso, purchè funzioni, senza preoccuparsi dell’evidente circuizione premeditata che emerge dalle sue azioni: il concetto di figura di merda non esiste in ebraico, quel che conta è la ragione legale. Come è chiaro, la strategia dell’israeliano ha solo da perderci nell’immedesimazione dell’impiegato, che non può che constatare quanto il viaggiatore abbia lucidamente applicato le proprie energie per piegare il sistema alle proprie esigenze.

Sia l’italiano che l’israeliano arrivano al controllo bagagli facendo finta di niente, non si sa mai che vada tutto liscio. In caso di intoppo, si va in scena come da copione. Entrambi hanno predisposto un piano B per salvare il salvabile: un parente in attesa fuori dal metal detector pronto a ricevere gli eventuali oggetti non ammessi, un angolino vuoto nella valigia da imbarcare in stiva, uno zaino di riserva.

Durante la performance l’italiano si mostra stupito ed affranto, e sempre reverente. Il suo potere contrattuale sta nel senso di colpa che riesce a suscitare nel controllore, muovendo in lui uno scrupolo morale: la gravità dell’infrazione è proporzionata alla sofferenza che il rispetto della regola produrrà? Ogni leva emotiva è ammessa perchè, nella psicologia dell’italiano, la cosa più importante è passare per buono, è convincersi di aver fatto la cosa giusta. Il gravissimo difetto di questa strategia è che funziona solo con l’impiegato italiano: prova a sciogliere un controllore tedesco…

La forza dell’israeliano, una volta in scena, sta nel mostrarsi il quanto più possibile preparato e determinato. Parte sul piede di guerra, scandalizzandosi e indignandosi. Dispiega tutto l’arsenale tecnologico di cui dispone, dalle email sullo smartphone alle telefonate effettuate, dalle clausole in piccolo sulla carta d’imbarco a precedenti che gli danno ragione. La percezione dell’impiegato dev’essere di trovarsi di fronte ad una bella gatta da pelare: “Questo qui conosce il responsabile sicurezza, ha una mail del servizio clienti che gli dà ragione, ha il numero di matricola del centralinista con cui ha parlato. Impuntarsi vuol dire tirare in mezzo tutte queste persone, rischiando di metterle in difficoltà.” Lo scrupolo che sovviene all’impiegato è di natura economica: quanta energia mi richiede far rispettare la regola? E, di conseguenza, si chiede quanto ci tiene al rispetto delle regole della compagnia: forse non abbastanza da andare incontro ad un duello.

Concludendo, la strategia italiana è fatta d’improvvisazione e non richiede un grande impegno in fase preparatoria, solo notevoli doti artistiche e attenzione al linguaggio del corpo. Ha il vantaggio di tirare fuori il buono che c’è in ognuno di noi, controllore o impiegato che sia, facendo leva su un comune senso di umanità. L’italiano chiede un favore e paga in riconoscenza, e lo fa con grande stile.

La strategia israeliana richiede grande dedizione in fase preparatoria ma scarsissima lucidità in fase esecutiva: una volta attivato il piano, carta canta. Al contrario dell’omologo italiano, l’approccio israeliano si basa su di un’antropologia fondamentalmente negativa: se qualcuno può aiutarti, non lo farà. Dovrai costringerlo. Se ben preparata, è una strategia vincente e a basso rischio, ma rimane dall’alto payoff: in palio non c’è solo spuntarla sul bagaglio, ma la propria credibilità e il proprio potere sulle altre persone. Se perdi, vuol dire che non conti nulla nello scacchiere mondiale del controllo bagagli a mano.

Tutto questo per arrivare a dire che mi sono sentito proprio italiano poche ore fa, all’imbarco a Genova, quando il distinto signore romano davanti a me è stato fermato all’ingresso della passerella per l’aereo: “Signore, è ammesso un solo bagaglio a mano, e lei ne ha due. Deve pagare l’eccedenza”. Al posto che puntare il dito su di me e sul mio zainetto e la mia tracolla, tecnicamente pure due bagagli seppur di misura molto minore, il distinto signore mostra i palmi delle mani, chiede scusa per la svista e spiega che è un regalo per la sua bambina, è una borsa molto leggera e può tenerla sulle ginocchia, e che è molto importante che non vada in stiva perchè rischia di rovinarsi, e bla bla bla. La stessa storia avrà raccontato al metal detector, e pare l’abbia fatta franca. Non so come gli andò quest’ultima prova, perchè non vedevo l’ora di prendere posto e gustarmi i salatini di Alitalia e quindi lo lasciai alle mie spalle in balie delle due assistenti di volo, ma per un attimo mi sono sentito suo fratello: mi aveva già convinto, in fondo che fastidio dà una valigetta in più?

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Lettera dal fronte

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Oggi è sabato, in particolare nel mio quartiere. Il quartiere inizia dalla terza traversa di via Pines, che va giù in discesa da Kikar HaDavidka, lato a valle. Il lato a monte, dove abitiamo noi, è sul lato della linea per niente immaginaria chea divide il mondo secolare dal mondo haredi, sempre che una linea possa avere un lato. A me piace pensare che lo scolo dell’acqua, perfettamente centrale in via Yom Tov Elgazi, sia stato tacitamente assunto come confine nell’ancestrale spartizione del mondo tra timorati di Dio e blasfemi, che qui a Gerusalemme pare tirare molto.

Gli haredim, letteralmente “i timorati”, sono una macrocategoria dell’ortodossia ebraica, che raggruppa al suo interno innumerevoli comunità unite attorno a un rabbino. Si differenziano per rituali, lingua (yddish, ebraico, inglese, francese, polacco), etnia, posizione politica, regola di vita, minuziosi dettagli della divisa. All’occhio profano, però, sono tutti vestiti in giacca e pantalone nero, camicia bianca e cappello nero a tese larghe da cui spuntano lunghi ricciolini, vivono tutti insieme in un mondo impenetrabile ed imperscrutabile, sono poveri, mantenuti dallo Stato, fanno tutti 12 bambini come le tribù d’Israele e non danno diritti alle donne. E puzzano, d’estate sull’autobus. Tutto sommato, a nessuno di noi blasfemi interessa sfatare questi miti, conoscere, disambiguare, giudicare. Ci è più comodo pregiudicare, come d’altronde è comodo a loro.

Sul lato a monte di Yom Tov Elgazi, siamo gli ultimi secolari prima del baratro, noi e un altro vecchio che si dice giri senza kippah, così vecchio che abitava qua da prima che il quartiere diventasse haredi. Ma io non l’ho mai visto. Attente sentinelle affacciate su un mondo di proibizioni e doveri, santità e impurità, divino e terreno, non siamo accettati ma discretamente tollerati, quasi ignorati. Una casa di atei e, peggio, abitata da un non ebreo, resiste nella tempesta delle mizvot. E’ il numero sette, ma non c’è scritto. Lo deduciamo dal trovarci dopo l’enorme “5” in vernice blu scrostata sulla porta accanto. Quando ci entrai per la prima volta m’innamorai del salone ex-strada pubblica, del muro in blocchi di pietra bianca a vista, del tetto in plexiglass trasparente, del mosaico a motivo floreale in centro alla stanza, della pompa dell’acqua del Mandato Britannico in Palestina che si erge trionfale di fianco al tavolo da pranzo, dei ciuffi d’erba che spuntano rigogliosi dal muro della sala. Non conoscendo i famigerati haredim come li conoscono gli israeliani, non ne ero spaventato, solo incuriosito. Ricordo che i coinquilini si premurarono di rassicurarmi, di stare tranquillo che gli uomini neri con la barba bianca non fanno male a nessuno, basta rispettarli. Entrai in casa, con la mia valigia verde e il mio zaino rosso, una domenica sera. Quasi una settimana dopo entrò Shabbat, ora posso dire il primo della mia vita. Erano quasi le 16.00. Di ritorno dallo shuk ormai in chiusura tra colate di acqua nerastra e sapone, lanci di cartoni vuoti e cumuli di verdure marce, grida e pattuglie degli uomini neri in barba bianca che incitano a tirare giù le serrande prima dello shabbes, nel quartiere attorno a me la tensione era palpabile: poche donne (ancora meno del solito), uomini sguscianti a passo svelto tra gli angoli bui e sporchi di queste favelas in muratura, chi con carrelli stracolmi di spesa, chi con la carrozzina dei bambini, chi unito a gruppetti di tre o quattro già coi libri sotto l’ascella. Tutti a testa bassa, tutti di fretta, tutti mormoranti. I primi scialle blu e bianchi iniziano a comparire.

Stavo sistemando la roba in frigo quando risuonò la sirena: grave e potente, assordante attraverso il leggero soffitto in plexiglass. Impossibile dire da dove. Un corno elettronico di un minuto esatto, a sostituire il tradizionale e poco funzionale shofar a fiato: quando si tratta di religione, non c’è da vergognarsi della tecnologia. Entra Shabbat. In ogni casa le luci sono già accese prima dell’Ingresso, perchè fino all’Uscita è vietato accendere fuochi, non usufruirne; in ogni casa, il cibo è già pronto dalla mattina e larghe piastre a basso consumo sono già calde, e lo resteranno fino all’Uscita; la spesa è già in frigo, nelle loro case, oppure giace abbandonata dove lo Shabbat la colse, perchè di sabato è vietato lavorare. E’ perfino vietato portare cose fuori e dentro casa, oltre i vestiti e il libro delle preghiere. Per questo tutti corrono, per questo tutti gridano, per questo tutto dev’essere pronto per l’Ingresso, settimana dopo settimana da millenni. Il venerdì prima dell’Ingresso è un giorno doppio in cui si lavora, si cucina, si pulisce anche per il dì di festa successivo, interamente dedicato a quell’Altro.

Uscii col buio ormai fitto, alle prime tre stelle che segnano l’Ingresso se n’erano già aggiunte migliaia. E a Gerusalemme, in via Yom Tov Elgazi, si stagliano luminose nel cielo nella semioscurità del quartiere haredi. Alla metà della salita di Pines, mi trovai a circumnavigare lo sbarramento della strada carrabile, perchè dall’Ingresso è vietato l’ingresso: fino a prova contraria, la macchina accende un fuoco ad ogni iniezione del pistone, non è nè un vestito nè un libro delle preghiere, e guidare è una forma di lavoro. La staccionata in ferro blu, trasversale su entrambe le carreggiate e fissata con un lucchetto, recita in bianco “Polizia d’Israele”, ma non è stato un poliziotto a disporla. Attorno a me gli uomini si affrettano ancora, ma l’ansia è sparita: vestiti a festa, raggruppati a frotte per età, forma del cappello e, mi pare, lunghezza della barba, seguono traiettorie precise parlottando e ridacchiando: si dirigono a una delle quattro sinagoghe che circondano il nostro isolato. Ora camminano tutti a testa alta, sembrano quasi felici. Dalle finestre della sinagoga più grande, almeno quattro piani, emana un vociare eccitato e continuo, e nere sagome di cappelli a tese larghe si stagliano sulle luci gialle dell’interno.

Fuori dal quartiere è pure sabato, ma un po’ meno. Non ci sono macchine in giro e poche persone, ma d’altronde neanche a Milano di domenica. La città dei secolari si riunisce in alcuni locali del centro e in strada siamo tanti, come se niente fosse. Qualche traversa più in là, nella Gerusalemme araba, è una normale sera di un giorno feriale. Tra le viuzze di Nachlaot, al di là dello shuk, la partita è ancora aperta e s’incappa in continue zone grigie: angolo per angolo, panchina per panchina, è più o meno Shabbat senza confini precisi, e la situazione è in continuo cambiamento a seconda della demografia. Gli studenti secolari, che negli ultimi anni hanno guadagnato campo, sono alle prese con l’osso duro dei vecchi padroni di casa che affittano solo agli osservanti: per chi rispetta kasherut e il sabato, l’affitto è più basso. I miei amici che abitano lì sanno dove è vietato accendere una sigaretta e dove invece è permesso, e sono pronti a rispondere a tono ad eventuali soprusi: c’è sempre qualche osservante zelante che ci prova. A Nachlaot non c’è uno scolo dell’acqua per tutti.

Quella sera mi addormentai sul divano in sala, sotto il plexiglass trasparente. A svegliarmi furono i canti forsennati provenienti dalla sinagoga più grande, che svetta da dietro l’isolato nei suoi quattro piani. Anche per me era dì di festa, e avrei voluto continuare a dormire. Avrei voluto lamentarmi con l’amministratore di condominio. Sarei uscito a chiedere di abbassare i toni. Avrei fatto molte cose, se mi fossi trovato in un luogo in cui regna la legge, e non lo status quo. In Israele le unità a cui si applica la legge non sono gli individui, ma le comunità e il territorio che riescono a conquistare e difendere. Non ci sono armi nè spari, almeno al di qua del Muro, ma figli, manifesti, contratti d’affitto. In particolare a Gerusalemme, comunità delle comunità: qui vige la legge di Gerusalemme, più che quella d’Israele. Per una pura contingenza, nella comunità dei secolari la legge è uguale per tutti gli individui, come in Italia: per loro ci sono diritti e doveri, tasse e multe, per loro c’è la polizia. Per le altre comunità ci sono i rabbini, gli imam e i capoclan e le loro rispettive gerarchie. Io abito sul limitare della comunità degli haredim, che continua senza interruzioni fino alle foreste di pini da una parte e la Linea Verde dell’armistizio del ’48 dall’altra, ora arteria che divide e unisce le due Gerusalemme, Est e Ovest. Mezza città di uomini neri con barba bianca, piccole donne imbruttite dalla paura d’indurre in tentazione e bambini rumorosi, a frotte in mezzo allo sfacelo, ovunque. Giocano e sono felici, come tutti i bambini.

Quando la religione è comportamento la purezza d’intenzioni non basta, serve purezza dell’ambiente, a prova di mizvot: basta una trasgressione o la sua sola presenza nel campo visivo o uditivo, a dannare tutto il quartiere. Per questo Shabbat entra per tutti, anche per noi che siamo al di qua dello scolo dell’acqua. Shabbat entra in casa nostra già prima della sirena, quando iniziamo ad abbassare il volume della musica al di sotto della soglia di tollerabilità, sancita dallo “Shhhht!!” senza volto sempre in agguato dai piani di sopra, oltre il soffitto in plexiglass; quando faccio premura di mettere il telefono in tasca per attraversare i cinquanta metri di via Pines fino allo sbarramento, la terra di nessuno in cui è comunque meglio non provocare; quando evito di sbattere i tappeti e rimando le pulizie all’Uscita; quando interrompo i miei trapanamenti e martellamenti nel mezzo dell’opera, lasciando l’armadio montato a metà e i miei vestiti per terra; quando chiediamo alle ragazze che vengono a trovarci di vestirsi più modeste del loro solito, bastano colori scuri e uno scialle; quando consiglio a un amico di parcheggiare in Davidka, se non vuole rimanere bloccato dentro la barricata.

E’ così che, ingenuamente, mi sono trovato in un baleno a rispettare il sabato, da ateo non ebreo. I miei coinquilini la trovano una buona abitudine, forse l’unica che hanno conservato scappando dalle loro famiglie osservanti. Si sono dati una regola secolare, ma ugualmente intransigente: vietato fare di sabato lavori il cui fine è temporalmente localizzato dopo il sabato. Da giorno dedicato a quell’Altro, se lo sono preso come giorno per loro stessi. Quindi cucinano, ma solo se hanno fame; leggono, ma perchè ne hanno voglia; usano il telefono, ma non per organizzare appuntamenti futuri; accendono e spengono le luci, ma non fanno partire la lavatrice; ritirano i panni stesi, ma solo quelli che vestono immediatamente.

Come mi spiegarono i coinquilini al mio arrivo, non vogliamo iniziare una guerra che non possiamo vincere. Oltre l’ingiunzione di sfratto del tribunale ci sono altri modi per cacciare la gente di casa: molestie, insulti, in certi casi le pietre. Così, negli anni, i secolari cedettero il passo agli uomini neri, di strada in strada fino al lato a valle di Yom Tov Elgazi, lasciandoci in prima linea. E, per ora, vogliamo restarci. Così funziona nel regno dello status quo, il braccio di ferro tra la motivazione a restare e il suo prezzo senza una legge a stabilire cosa è libertà e cosa è sopruso, ciascuna comunità per sè e Dio, uno a scelta, per tutte.

Un’obbediente ricorsività

A vederla dalla strada, Gerusalemme è anarchica: haredim tutti vestiti uguali, camicia bianca sotto un completo nero, cappello a larghe tese nero e ricciolini, musicisti di strada vestiti di stracci e rasta, turisti tedeschi in sandali e camiciola, skater vestiti come nei film americani, donne arabe avvolte in veli multicolore in tinta con la borsetta e i tacchi, ragazzotti sulla bmx con kipah e le tzitzit, lunghe frangette di spago che spuntano da sotto la maglia, svolazzanti al vento, giovani donne in maniche e gonne lunghe, coi capelli fasciati in foulard e puntualmente incastrate con un passeggino tra le porte del tram, pretonzi da ogni angolo della Terra e di ogni colore, con il Vangelo in mano e l’aria un po’ spaesata, ragazzine in top e pantaloni a vita alta (sono tornati alla ribalta) in giro per negozi, studenti hipster con il mac sotto braccio ed enormi cuffie futuristiche penzolanti al collo, danzatori in estasi a Kikar Zion con enormi kipah in lana bianca, vecchi barboni in giro per via Iaffo con i loro carrelli stracolmi di cianfrusaglie a rimorchio, sudanesi vestiti in tuta indaffarati in traslochi, arsim, i tamarri israeliani, appollaiati sulle panchine all’ombra a fischiare alle ragazze da sotto le kipah bianche e il capello rasato a zero, bambini arabi che giocano a calcio negli angoli meno trafficati.

 Pensadola da casa, Gerusalemme è piena di regole. In primo luogo le regole che ciascuno dei personaggi della commedia si dà: i veli, i cappelli, le frangette, le sopracciglia rasate, le gonne, le minigonne, le kippah, i colori, ogni scelta estetica è già un segno che indica morbosamente a un significato: ‘guardami, sono ultraortodossa e sposata!’, ‘guardami, sono arabo di Gerusalemme est!’, ‘guardami, sono laica!’, ‘guardami, sono ultraortodosso!’, ‘guardami, sono un uomo libero!’. Perchè, altrimenti, i rasta e gli stracci colorati come in Perù, quando costano più dei normalissimi jeans made-in-china? Chissà, forse i tedeschi mettono i sandali su calza solo quando vengono in vacanza a Gerusalemme…
Ci sono poi le regole alimentari e sociali, che sfuggono allo sguardo del passante ma che regolano meticolosamente lo stile di vita degli adepti. In secondo luogo, ci sono le regole di civile convivenza che qui devono essere imposte con la forza: i confini dei quartieri e degli orari, i turni per l’accesso ai luoghi di culto e di transito, la prevenzione dei contatti tra gruppi incompatibili, i divieti di trasporto a seconda delle merci. Quindi soldati, soldati ovunque. Giovani o vecchi, ragazze o ragazzi, bianchi o verdi o grigi, M-16 o fucile da cecchino o pistolone. La città pullula di cuscinetti: posti di blocco, metal detector, pattuglie, telecamere o semplicemente occhi. Non succede mai niente, neppure uno scippo, ma non è pace, è solo pace armata.
Sia quel che sia, stasera prima di uscire mi sono dato un’occhiata allo specchio: giacchetta nera su camicia bianca, e il colpo d’occhio è stato ‘caspita, sembro uno di quei pinguini haredim!’. Sono tornato in camera e mi sono cambiato, perchè non voglio dare il segnale sbagliato.

 Oggi mi sono trasferito, per due settimane starò in una graziosa casetta in Nachlaot, il quartiere più suggestivo della città nuova. Le mie due coinquiline, solari e spigliate, in tacchi alti e minigonna per uscire a ballare, rispettano kasherut, con mio stupore. Il mio retaggio cattolico mi suggerisce sempre una religiosità sentimentale, moralista e ascetica, molto lontana dalla proceduralità dell’osservanza ebraica. Kasherut, cioè l’idoneità ai precetti alimentari, non prescrive il distacco dai piaceri e dalla vita…nè un avvicinamento, d’altra parte. La normazione religiosa è dettagliata e delimitata ad un dominio specifico: vietato mangiare carne e latte insieme, vietato mangiare maiale e frutti di mare. Questo, almeno, al livello di osservanza delle mie coinquiline: basta usare stoviglie diverse per carne e latte, deporle in scaffali separati e lavarle con spugne diverse. Ma quand’anche si ‘fortificassero’ nell’osservanza, magari mettendole ad asciugare su stendini separati, o comprassero un frigo per il latte e uno per la carne o aspettassero 6 ore tra un pasto di carne e uno di latte al posto che 3, o se smettessero di mangiare anche frutti di mare e crostacei, ciò non andrebbe minimamente ad influire sul loro atteggiamento rispetto l’andare a ballare in discoteca, fumare erba, guidare o tingersi i capelli di viola. Nella loro religione sono domini completamente distinti. Fin dai miei primi incontri con questa mentalità non ho potuto che trovarmi critico: se anche ci fosse un Dio e fosse il tuo, cosa mai gli importerà se mangi carne e latte insieme? Un Dio con un briciolo di moralità s’infurierebbe di più a vederti buttare via un’intera pentola di spezzatino perchè ti ci è caduto dentro un pezzettino di formaggio. E se a questo Dio sta veramente più a cuore il rispetto della regolina piuttosto che la fame nel mondo, bè, allora chiediti se questo Dio si merita le tue attenzioni. E se Dio si è preoccupato di farci sapere che è sbagliato mangiare la carne col latte, perchè tace sull’utilizzo dell’auto al posto che i mezzi pubblici, sul comprare i prodotti organici piuttosto che quelli dell’industria intensiva, o sul guardare porcate in televisione? E perchè non ci dà un’indicazione di voto alle prossime politiche? Quanto dobbiamo aspettare ancora per un aggiornamento dei comandamenti al terzo millennio? Tanto più che, per la maggioranza dei casi, il rispetto della kasherut è in virtù di un qualche misterioso e mistico rispetto, e non di una credenza ragionata. Abitudine, tagliano corto molti.

La sorpresa è arrivata oggi quando, a fine serata, mi hanno detto che domani torneranno entrambe a casa dei genitori per il weekend. Il primo pensiero che mi è venuto in mente è stato che posso evitarmi la noia di usare stoviglie e spugne diverse, almeno per il weekend: al loro ritorno tutto sarà al suo posto, le stoviglie del latte nel terzo cassetto in basso, le stoviglie della carne nell’antina sotto il tostapane, la spugna gialla della carne nella sua scatolina a sinistra del lavandino e la spugna da latte nella scatolina di destra, e vivremo tutti felici e contenti senza che nessuno si accorga del presunto impiastro metafisico. Il secondo pensiero, però, è stato che non lo farei: rispetterei la kasherut per tutta la durata del weekend, e credo che lo farò. In fondo è casa loro e sono le loro stoviglie, e in un certo senso non vorrei profanarle. Le coinquiline, non le stoviglie! Lo chiamerei, ahimè, rispetto. Mi stupisco della mia irrazionalità, eppur non me ne dispiaccio. Il guadagno della trasgressione non vale la pena di correre il rischio di fare qualcosa di male, sia questo verso le persone, le cose, gli animali, o Dio. In fondo, giustifico l’insensatezza della mia posizione, che mi costa stare all’occhio a quale forchetta uso? Pascal la metteva in termini di utilità: metti che Dio non esista, la trasgressione dei suoi precetti porterà una discreta utilità (i piaceri del gioco d’azzardo, della lussuria, dello sperpero, della lasagna e della carbonara), ma comunque finita. Ma metti che Dio esista davvero e che ti veda, la trasgressione comporterà una perdita infinita, l’inferno. Se, per quanto ne sappiamo, è tanto probabile che Dio esista quanto che Dio non esista, a parità di probabilità conviene puntare sull’utilità maggiore e rispettare i precetti: non vale la pena di giocarsi il paradiso. A differenza dei discorsi su Dio, però, so per certo che le coinquiline non ci sono e non mi vedono, . Ma, allora, perchè rispettare il precetto, sia esso in nome di Dio o di due coinquiline? E così, in una strana e patetica analogia, mi trovo nella situazione del deriso israeliano medio che in tutta onestà ammette che quand’anche questo Dio non ci fosse, o tornasse a casa dei genitori per il weekend,  le sue regole resterebbero. Così, per abitudine…

Ci sono situazioni in cui anche quando la gatta va i topi non ballano, senza alcuna buona ragione.

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