[Segue da parte uno]. Settembre 2015 fu il periodo più produttivo della mia vita. Di ritorno dalle vacanze mi ero imposto di lavorare a ritmi serrati, cioè salire in laboratorio alle 9 e tornare alle 6 di sera, non un minuto di più. Nell’entusiasmo del nuovo sperimentatore facevo spesso le 9 o le 10 davanti al computer, a debuggare codici e testare stimoli, sempre che non avessi qualche tavola da segare con David. Andavo sempre prima in laboratorio, non mi preparavo più il pranzo ma mangiavo un panino al volo davanti al computer. Ero l’unico studente di Ayelet, giovanissima prof appena approdata alla cattedra alla Hebrew con piani grandiosi, e quindi oltre a infiniti discorsi di scienza mi istruiva su pratiche da sbrigare per lei in segreteria, software da aggiornare, raccoglitori da riempire, procedure da documentare, forniture da rendicontare. Un pomeriggio di quel settembre disegnai un modello grafico della mia idea di ricerca e glielo presentai alla lavagna. Ci scarabocchiammo sopra correzioni con pennarelli multicolore, usando una mosca e un elefante come segnaposti grafici: uscii da quella stanza con una proposta di tesi. Due mesi dopo presentavo i dati preliminari in un poster al mio primo convegno, a Rovereto; otto mesi dopo vincevo un premio come miglior giovane ricercatore per quello stesso grafico su power point; un anno e mezzo dopo, durante il trasloco nel nuovo laboratorio, appendevamo quella lavagna nel nuovo ufficio di Ayelet: la mosca e l’elefante erano ancora lì; due anni dopo, con l’aggiunta di qualche lettera in greco per quantificare il fenomeno, mi sto decidendo a pubblicare su qualche giornale scientifico la storia della mosca e dell’elefante. Quel settembre così importante è per me imprescindibilmente legato alle sensazioni del fango: del suo tepore mentre lo calpesti, dei riccioli molli che filtrano tra l’alluce e il medio, della paglia che solletica le caviglie, della crosta grigia che scricchiola sui polpacci strappandoti i peli, del ritmico rivoltare la palta dai lembi del plasticone, ormai in totale sincronia con David, ma anche del mal di schiena, delle mani arrossate dallo spalmare battere lisciare quella palta, dei sassolini che bucano i polpastrelli. Dell’imparare a conoscere i limiti di questo strano pongo, dello scoprirne le incredibili potenzialità, dell’azzardare forme sempre più estreme. Nel mio settembre 2015, cascasse il mondo alle 6 e mezza di sera avevo legato la bici nel vialetto e stavo impastando fango con David. Avevamo portato una prolunga dell’elettricità da casa al giardino, e così avevamo musica, luce, e bollitore del the. A volte venivano i vicini, due ragazzini sveglissimi, e facevano finta di aiutarci per rimandare i compiti. Ma ho sempre pensato che ai loro genitori sembrasse più prezioso farli partecipare del nostro progetto che fare i compiti come si deve. Con ottobre avevamo quasi finito il muro, avendo cura di lasciare le cornici in legno per le due finestre e la porta, ma io mi ero fatto risucchiare dal laboratorio, facevo orari lunghi e incostanti. Nessun mese fu mai più produttivo come quel settembre in cui staccavo alle 6. Dopo un novembre in cui recuperammo delle finestre e cambiammo i vetri, il 4 dicembre iniziammo a montare il tetto. David aveva comprato le travi di legno, secondo gli accordi il mio oro stava nelle mani. Venerdì mattina, faceva un freddo cane, c’era la brina in giardino. Ma era un lavoro lungo quindi doveva essere quel weekend, prima di ricoprire tutto con la plastica in caso di pioggia. Ero stressato, credo che in quel periodo non mi tornasse un esperimento, spesso andavo il laboratorio anche il venerdì ma quel giorno avevamo da fare il tetto. Nel suo schizzo, David non aveva pensato a come ancorare il tetto dal lato del muro di cinta del giardino su cui poggiava la casa. Gli dissi che era inaffidabile e irrispettoso del mio tempo, si offese e litigammo. Quel giorno non finimmo il lavoro che avevamo preventivato, tornammo a casa ghiacciati e incazzati. Mi pare avessimo mangiato in silenzio un piatto di hummus al Ben Sira, con i muratori in pausa. Ci chiedemmo scusa e il giorno dopo trovammo una soluzione e continuammo l’opera. Arrivò Natale, tornai a casa per qualche giorno. Al mio ritorno a Gerusalemme, trovai il tetto ricoperto di erba sintetica nonostante fossi assolutamente contrario da sempre: mi ricredetti, ci stava alla grande. E’ una figata, zio. Vuoi mettere sdraiarti sul tetto a guardare le stelle con il bel morbido sulla schiena, giocare coi fili d’erba, piuttosto che sul legno o sulla plastica isolante? E poi il colore naturale, verde che sembra l’Europa. Il kitsch? Un’invenzione degli europei. Vieni a sdraiarti su, prova. Zio, è una figata.
La casa era fatta e finita, da cima a fondo con le nostre mani. Bella, comoda ed ecologica, si può davvero fare con poco lavoro e quasi zero soldi. David era soddisfatto, ma fremeva per fuggire la città a cui non apparteneva. A febbraio partì in eremitaggio sul Mar Morto, lo andavamo a trovare ogni tanto per portargli qualche vettovaglia. Io gli portavo anche foto della casetta: continuavo a migliorarla, tappavo i buchi tra le pietre del muretto a secco, rifinivo i davanzali, drizzavo gli stipiti. Guardava soddisfatto e un po’ malinconico, dalla sua capanna di canne in riva al Mar Morto, ma già pensava al prossimo progetto. Guardava a nord, la Galilea.
A febbraio anche Maxim partì, per l’India. Yael e Elay presero il loro posto, e una nuova stagione si aprì: sconvolti dalla bellezza della casa di fango, lavorammo insieme per farci un pavimento in terra battuta, aiuole tutto attorno e un orto. Divenne la nostra sala da the. Noah, la vicina, andava di nascosto a fumarci le sigarette con le sue amiche, e noi la prendevamo in giro finchè smise. Ad aprile il palazzo abbandonato con l’annesso giardino fu dato in gestione dal comune a degli artisti, che inglobarono la casetta abusiva come una loro opera d’arte, mettendola al sicuro dalla demolizione. Si aprì in fretta una terza stagione in cui il nostro amore per la costruzione poteva servirsi di un arsenale di attrezzi portati dagli artisti, legno di qualità, consigli e manodopera di simpatizzanti che partecipavano del nascente progetto di riqualificazione urbana. Feci l’impianto d’irrigazione automatico per l’orto, l’impianto elettrico nella casetta con luci a led e “diffusore” naturale – in paglia, allacciandomi all’elettricità del palazzo. Il microprocessore che imparai a programmare per la sensoristica dell’irrigazione mi tornò utile in seguito per un setup sperimentale. Per passare i cavi della luce scalpellavo le canalette nel muro, ci infilavo i cavi e poi ritappavo il tutto reimpastando i trucioli caduti per terra con un po’ d’acqua. Faceva ormai caldo, tirammo dei tendoni per l’ombra tutt’attorno alla casa, facevamo grigliate e pizza nel forno di fango costruito nel frattempo. Costruii un tavolino e lastricai di parquet l’interno della casa di fango, installai l’impianto audio. Ma non le facemmo mai l’intonaco, non la portammo mai ad essere una casa standard: la volevamo grezza, butterata, cruda, che si capisse a colpo d’occhio di come fosse emersa dalla terra come un fungo. Là si prendeva il the e si giocava a carte, si facevano massaggi e meditazione. Il giardino si riempì di opere d’arte e alberi, il comune portò terra nuova su cui annaffiavamo con acqua di riciclo. Proiettavamo gli europei di calcio sul muro del palazzo e tutto il vicinato si accoccolava sulle stuoie. Ad agosto tornai in Italia, non vidi mai i cuori di bue maturare, ma i ciliegini e le zucchine, quelli sì li mangiai. Conosco ogni segreto di quella casa, so i punti deboli e i dettagli di valore, ogni tanto fantastico ancora su qualche miglioria. Quando di tanto in tanto torno a Gerusalemme, la casa è sempre lì ad aspettarmi, mi accoccolo tra le coperte e un sifone di riscaldamento se fa freddo. D’inverno sporca e casa per viandanti e barboni, d’estate viva di gente viva. Qualcuno ha messo qualche suppellettile decorativo. La vite e il frutto della passione continuano a scalarla, tra un po’ non sembrerà più erba sintetica. David, dalla cui mente e cuore è uscita l’occasione per tutto questo bene, se l’è perso. L’ho invitato più volte a tornare in città, ma non ne volle sapere.
La morale che voglio dare alla casetta di fango di via HaMaaravim è che per noi radical chic gli strumenti di liberazione sono infiniti, passano per piattaforme online e blockchain ma anche per la terra che calpestiamo e che nessuno considera. Costruire una casa, la propria casa, è davvero facile. Ed economico. E più bello che una casa in cemento. Ma è soprattutto una pratica letteralmente edificante, per sè e per gli altri. Come lo sono l’attività fisica, la raccolta differenziata e il dare passaggi in auto. Certo suona strano, oggi, pensare di potersi costruire la propria casa a costo zero, a suon di due ore di lavoro al giorno, in uno sforzo creativo e comunitario, perchè c’è da sudare e sporcarsi, conciarsi come un muratore. Ma così suonava un tempo l’idea di correre e sudare come un maiale, tenendo i tempi e i battiti del cuore, in un parco o sul lungomare, o addirittura in una palestra a pagamento, o no? I primi fautori dell’attività fisica saranno stati probabilmente dei radical chic come me o dei pazzi ingenui come David, eppure oggi è il mainstream a dirci che lavorare due ore al giorno per un corpo sano è cosa buona e giusta. Che un domani lavorare per vivere in una casa sana diventi cosa buona e giusta?