Il sistema startappe e come uscirne

Per fare imprese difficili ci vuole il pelo sullo stomaco. Sembra ovvio ma non se ne parla abbastanza. Il tema mi è caro perché sono stato per il primo anno di attività della mia società vittima di una circuizione d’incapace orchestrata non già dai Poteri Forti, dal Capitalismo o dal Deep State, ma da piccoli uomini che hanno scoperto come fare (pochi) soldi raccontando che fare impresa è facile. Lo raccontano in congressi, riviste specializzate, concorsi a premi per riuscire a vendere servizi di consulenza. Lo fanno ammantati di fascino della parolina magica: startup. Faccio subito un disclaimer per non doverlo fare più in seguito: ci sono professionisti validi e quando li ho incontrati me li sono tenuti stretti, ma per la stragrande maggioranza il jet set delle startup – “startappe”, all’italiana, è poco meno di una associazione a delinquere. Associazione perché si associano sotto nomenclature inglesi quali accelerator, incubator, hackathon, summit, competition, ventures, per fare soldi attraverso servizi loschi sempre in inglese quali work for equity, pitch deck, growth hacking, mentorship. Chiunque ci sia passato lo può confermare, chiedete in giro.

Il trucco è che per definizione oltre il 90% delle startup fallisce entro i primi due anni, quindi non restano in giro troppo a lungo per capire se il circuito startappe è servito a qualcosa e per raccontare la loro esperienza. Il mondo delle startup è refrattario al consolidamento di una reputazione, è un eterno ritorno d’ingenui da spennare. L’unico aspetto di impresa di successo del circuito startappe italiano è che ha saputo trovare un mercato potenziale – persone come me con una idea imprenditoriale ma ancora incapaci di svilupparla, suscitare un bisogno indotto – essere aiutati da qualcuno che è capace, e trasformarlo in un mercato attuale – confezionare servizi di consulenza ad hoc. A volte ti fanno fare il consumatore che paga il servizio, a volte ti fanno fare il prodotto: vendono la tua presenza, formale o mediatica, agli sponsor il cui interesse è dire che hanno contribuito a creare impresa in Italia. La delinquenza intrinseca del circuito startappe risiede nel fatto che il bisogno che intercetta è veramente indotto: nessuno ti può insegnare a fare una startup, se la si intende come impresa nuova con enorme potenziale. I rudimenti di economia aziendale te li studi su internet, per il resto tocca a te convincere i cofondatori, gli investitori, i primi clienti e le banche che la tua idea, per quanto apparentemente folle, ha senso e se ha senso ne ha tanto da diventare tutti milionari.

Il marketing del circuito startappe si sgonfia subito se consideri le possibili casistiche: se la startup è folle, non c’è consulenza che tenga per renderla fattibile; se la startup non è folle ed è nuova, più che consulenza il circuito dovrebbe darti investimenti o rubarti l’idea – ma non fanno mai la prima cosa e raramente la seconda; se la startup non è folle ma non è nuova, non ti serve una consulenza ma ti basta copiare il competitor. Poiché non investe, il circuito startappe serve a circuire gli incapaci come me nel 2018 o, nel migliore dei casi, ad intrattenere gli hobbisti della startup: secondo lavoristi che fanno impresa a tempo perso, la stessa differenza tra iscriversi al conservatorio o a cantare nel coro della parrocchia. Mi permetto di essere iperbolico, perché il circuito startappe è già troppo bravo a vendersi, ma anche per chiarire il punto importante: l’imprenditoria è questione di soldi, e i soldi hanno la strabiliante capacità di tirare fuori il peggio delle persone. Questa scoperta è stata per me un trauma, perché sono entrato nell’imprenditoria di un settore molto aggressivo, l’industria beverage, provenendo da una branca iper avanguardistica dell’accademia, le neuroscienze cognitive: ero abituato a lavorare in un contesto, la scienza dell’animo umano, che tira fuori il meglio delle persone.

I soldi comprano l’unica risorsa davvero limitata: il tempo. Tempo di produrre un bene, tempo di erogare un servizio, tempo di raccogliere informazioni, tempo di fare una proposta, tempo di negoziarla. Tempo perso se non chiudi il deal. La differenza fondamentale tra il consumatore e l’imprenditore è che per il consumatore il tempo è una commodity: c’è e va consumato; per l’imprenditore il tempo è un asset: non c’è e deve moltiplicarsi. Visto il grado di analfabetizzazione imprenditoriale italiana, di cui sono primo positivo sintomatico, l’unico bisogno che il circuito startappe dovrebbe indurre è il capire il prima possibile la legge universale che determinerà la tua impresa, cioè il rapporto micidiale tra soldi e tempo: quando finiscono i soldi, hai finito il tempo. Quando non hai soldi sul conto per pagare gli stipendi dei collaboratori, devi chiudere. Soldi non a credito, non a business plan, non nelle tue speranze di successo lautamente oliate dai complimenti dei mentor e dai premi del pitch day: sul conto. Come fai a garantirti più tempo? Porta più soldi sul conto. Come? Arrangiati. Nessuno trova soldi per te, ma tutti te li chiedono. Se fai un’impresa quasi folle e riesci a invertire il flusso, cioè a fare sì che col tempo i soldi in cassa aumentino al posto che diminuire, hai probabilmente cambiato il comportamento di milioni di persone e sei diventato miliardario. A spanne, ce la fa uno su un milione di quelli che hanno una idea davvero grande e davvero fattibile, uno su mille di quelli ne fanno davvero un’impresa. Oltre la metà delle startup vere, non startappe, non riesce neanche a sviluppare il prodotto. Non a commercializzarlo: a svilupparlo. Questi fatti sono le stelle fisse dell’imprenditoria ad alto rischio, quella che può cambiare il mondo. Purtroppo, il peggior modo per invogliare all’acquisto è spaventare il consumatore, quindi è meglio costruire il brand startappe attorno a mirabolanti inglesismi dalla Silicon Valley, megafoni e scenografie di raffinato design.

Il nostro team ha la fortuna di avere forti relazioni con Israele, perché ci ho vissuto un po’ di anni, e con gli USA, grazie al premio di accelerazione a Boston che abbiamo vinto nella startup competition del Myllennium Award – come accennato nel disclaimer, ci sono validissime eccezioni alla regola del circuito startappe. Sedersi a un tavolo con consulenti, imprenditori e investitori israeliani e americani mette le cose al proprio posto: quanto sei folle, quanto costi e quanto mi fai guadagnare? Il resto, se viene, viene dopo. I riscontri che abbiamo ricevuto ai primi appuntamenti ci hanno sempre segnalato un imbellettamento inutile attorno all’unica domanda interessante: mi stai offrendo un buon deal? La differenza è che l’americano o l’israeliano si siedono al tavolo da predatori: cercano di intuire se possono essere i primi a comprare o investire; gli italiani del circuito startappe da prede: cercano di indurti ad abboccare al loro percorso di accompagnamento che ti porterà fama, capitali e longevità. I primi comprano, i secondi vendono. Ogni minuto che ho passato cercando di vendere al circuito startappe, è un minuto perso. E ogni minuto perso è un minuto in meno per invertire il flusso di denaro da consumo a generazione. Ci vuole pelo sullo stomaco per capirlo, figuriamoci per farlo.

Qui non è l’America

“Facci vedere che conquisti il mondo”, questo è il mantra nel circuito startappe. “Una startup su dieci ce la fa, quindi devi dimostrare che la tua startup ha un ritorno sull’investimento di almeno dieci volte per ripagare all’investitore i rischi del mestiere”. Argomento validissimo: per ogni Youtube, Stripe, Airbnb o Tesla ci sono migliaia di progetti falliti, di milioni buttati e di sogni infranti. Pare che i fattori principali del fallimento siano il timing sbagliato e l’incapacità dei team di imparare in tempo le lezioni dell’imprenditoria e del mercato di riferimento. Statistica dice che nell’82% dei casi la società chiude perchè finisce il cash. La natura intrinsecamente finanziaria di una startup, cioè il suo essere un azzardo, comporta un rapporto stretto con gli investitori. Più volte, guardando il nostro business plan, finanzieri e investitori hanno obiettato che “il ritorno sull’investimento a 5 anni è troppo basso”. Cioè: facci vedere che conquisti il mondo! Il come lo conquisti non sembra interessare troppo, tanto che a volte mi chiedo se il sognatore sono io imprenditore o loro investitori: qui, non è l’America.

Paypal, che è diventato il prototipo della startup americana, è nata nel 1998 con una borsa di studio da 100mila dollari a due studenti universitari per sviluppare la loro idea, ed è arrivata a bruciare 10 milioni al mese nel suo lancio sul mercato nel 2000, in cui diventa il provider di pagamenti di eBay. Nel 2002 eBay la compra per un miliardo e mezzo.

Ora Paypal e gli altri idoli della Silicon Valley contavano team geniali sotto ogni aspetto e motivati oltre ogni limite, un network universitario tra i migliori al mondo, una propensione al rischio diffusa, un tempismo perfetto e un mercato immenso. Paypal e gli altri idoli vanno presi per quello che sono: idoli. Miraggi, chimere, simboli, narrative edulcorate di un sogno americano che resta americano.

Ogni anno negli USA si investono 150 miliardi in startup, a fronte di una popolazione di circa 64mila startup: in media 2,3 milioni pro capite; in Italia si investono quasi 700 milioni su poco più di 10mila startup, cioè 70mila euro pro capite. In USA una società si fonda in sei giorni con qualche centinaio di dollari e puoi farti la contabilità da solo; in Italia ti ci vuole qualche mese spendendo tremila euro tra tasse di registro e notaio, e altri tremila all’anno di commercialista per il deposito del bilancio. Il seed round (investimento sull’idea senza ancora avere il prodotto) negli USA è in media di 3.9 milioni con una valutazione societaria di circa 10 milioni. Il round A, cioè il primo investimento di un fondo, è in media di 12 milioni per valutazioni societarie di 30 milioni. Il tempo medio tra seed e round A è di 22 mesi; in Italia, nel 2020 il 37% degli investimenti startup provengono dal crowdfunding con un taglio medio di circa 5mila euro a investitore su una raccolta media da mezzo milione; la distinzione tra seed e round A non è netta, ma sappiamo che nel 2018 i fondi istituzionali hanno investito in totale 215 milioni. Negli USA circa la metà delle startup in round A spendono più di 400mila dollari al mese, il 77% in personale. Lo stipendio lordo medio dei fondatori è di circa 50mila dollari all’anno. Anche su questo non ho trovato studi affidabili dell’ecosistema italiano, il che è un fatto di per sè.

Il sistema startup italiano cresce e ne siamo tutti fieri, ma rispetto alla champions league del sistema americano o israeliano non dico che siamo la serie C, ma siamo proprio un altro sport. Come confrontare la corsa con la marcia: l’unica cosa che hanno in comune è che in entrambe le discipline si usano le gambe e bisogna essere più veloci degli altri. Con questa consapevolezza, il “facci vedere che conquisti il mondo” è uno scimmiottare quello che non siamo e, forse, non vogliamo essere.

Negli USA, che sono la nazione con il 41% dei più ricchi al mondo, un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. A fronte dei 400mila lavoratori nell’ecosistema startup si stagliano oltre due milioni e mezzo di bambini senza tetto. Israele per tanti altri aspetti è messa anche peggio, con uno dei maggiori divari tra ricchi e poveri dei Paesi OCSE – peggio di lei solo Lituania, Romania, Costa Rica e…USA. Noi non siamo di questa pasta. Nonostante il declino, le famiglie italiane restano tra le più patrimonializzate al mondo, i diritti dei lavoratori tra i più tutelati al mondo, e ci posizioniamo molto meglio nella classifica dell’inuguaglianza economica dei Paesi Ocse. Nonostante la Padania sia il territorio più inquinato d’Europa, lo stivale continua ad avere una strepitosa e diffusa qualità del cibo e del servizio sanitario. Da noi non esistono borse di studio da 100mila dollari per progetti imprenditoriali: quando al primo anno di filosofia chiesi in segreteria alla Statale di Milano se ci fossero agevolazioni per studenti lavoratori, mi risposero “non esiste la categoria studenti lavoratori”. Non esiste una Ivy League o una unità scelta dell’esercito da cui esca l’elite amministrativo-imprenditoriale di cui si nutre l’ecosistema startup, perchè nonostante i tagli e l’umiliazione continua, l’analfabetismo funzionale tra i più alti al mondo e l’abbandono scolastico, la scuola pubblica italiana riesce a sfornare istruzione e ricerca di alto livello su tutto il territorio, da qualsiasi ceto economico e sociale. Nonostante le spallate sempre più forti, la nostra classe dirigente ancora studia il greco e il latino, non JavaScript e Python. Nonostante il trash dilagante, restiamo una civiltà.

Dovremmo essere fieri della nostra natura, e farcene una ragione: l’Italia è un Paese lento e risparmiatore, mentre le startup sono progetti veloci e spendaccioni. Con il Giappone e la Germania, siamo il Paese più vecchio al mondo con età media di 46 anni: negli USA è 38 e in Israele 30. Siamo il quartultimo Stato europeo per alfabetizzazione digitale, il 30% della popolazione non usa internet e il 40% dei dipendenti di aziende private (cioè, non le Poste) non usa correntemente il pacchetto Office (Word, Excel e Power Point, non Adobe Premiere o Matlab). Siamo fanalino di coda per i pagamenti digitali e si stima un l’11% del PIL da economia sommersa, irregolare o illegale che sia. Siamo un Paese ad alta infiltrazione mafiosa e altissima percezione di corruzione: cioè, pensiamo che per farcela bisogna essere ammanicati, più che bravi. I policy maker che devono dettare la linea, i burocrati che devono vidimare le pratiche, i dirigenti che devono allocare il budget, le imprese che devono investire in innovazione, i clienti che devono osare la novità non vengono dalla luna ma sono imbevuti di questa cultura, anzi ne sono parte. Questa è la nostra pasta, non importa cosa ci addestrino a raccontare negli elevator pitch e negli investor deck e tutti gli altri strumenti startappe: come si dice clientelarismo in inglese? Siamo l’anti startup sotto praticamente ogni parametro antropologico. Perchè chiedere a un società italiana, con un prodotto made in Italy, fatta da italiani in Italia, di conquistare il mondo? Perchè mettersi in ridicolo? Per conquistare il mondo bisogna stare negli USA o in Israele o a Londra, dove la società è costruita per la conquista e il futuro è una promessa di gloria.

Parlare di startup come se ne parla nel circuito startappe, cioè come se Milano fosse San Francisco e Roma Seattle, è una variante dell’esterofilia nostrana che fa solo male. Inculca nella traballante scena digitale italiana un sogno che non è alla nostra portata e che è in assoluto disaccordo con l’ethos nazionale: se il sogno americano è Steve Jobs, il sogno italiano è Checco Zalone. Ogni Paese ha un ethos che si riverbera nelle raccomandazioni dei genitori, negli indirizzi dati dai professori, nelle campagne elettorali, nei diritti civili, nelle agevolazioni fiscali e nella giustizia.

Staccarsi dal modello posticcio della Silicon Valley mette a nudo le tare provinciali di ciascuno di noi, e questo fa male, ma dall’altra è l’occasione di inventare l’impresa ad alto rischio all’italiana. Di retrovia, se vogliamo, ma anche di comunità e rispetto, di chilometro zero e di ricchezza diffusa, culturale, accessibile a tutti. Questa visione mi piace di più e non mi sembra una chimera, ma anzi nelle corde di un popolo tanto creativo quanto viziato dalle piccole gioie della vita. Ci sarebbe da lavorarci su, chissà che il circuito startappe non cominci a idolatrare Adriano Olivetti al posto di Jeff Bezos…

Con il cielo e con il fango. Due.

[Segue da parte uno]. Settembre 2015 fu il periodo più produttivo della mia vita. Di ritorno dalle vacanze mi ero imposto di lavorare a ritmi serrati, cioè salire in laboratorio alle 9 e tornare alle 6 di sera, non un minuto di più. Nell’entusiasmo del nuovo sperimentatore facevo spesso le 9 o le 10 davanti al computer, a debuggare codici e testare stimoli, sempre che non avessi qualche tavola da segare con David. Andavo sempre prima in laboratorio, non mi preparavo più il pranzo ma mangiavo un panino al volo davanti al computer. Ero l’unico studente di Ayelet, giovanissima prof appena approdata alla cattedra alla Hebrew con piani grandiosi, e quindi oltre a infiniti discorsi di scienza mi istruiva su pratiche da sbrigare per lei in segreteria, software da aggiornare, raccoglitori da riempire, procedure da documentare, forniture da rendicontare. Un pomeriggio di quel settembre disegnai un modello grafico della mia idea di ricerca e glielo presentai alla lavagna. Ci scarabocchiammo sopra correzioni con pennarelli multicolore, usando una mosca e un elefante come segnaposti grafici: uscii da quella stanza con una proposta di tesi. Due mesi dopo presentavo i dati preliminari in un poster al mio primo convegno, a Rovereto; otto mesi dopo vincevo un premio come miglior giovane ricercatore per quello stesso grafico su power point; un anno e mezzo dopo, durante il trasloco nel nuovo laboratorio, appendevamo quella lavagna nel nuovo ufficio di Ayelet: la mosca e l’elefante erano ancora lì; due anni dopo, con l’aggiunta di qualche lettera in greco per quantificare il fenomeno, mi sto decidendo a pubblicare su qualche giornale scientifico la storia della mosca e dell’elefante. Quel settembre così importante è per me imprescindibilmente legato alle sensazioni del fango: del suo tepore mentre lo calpesti, dei riccioli molli che filtrano tra l’alluce e il medio, della paglia che solletica le caviglie, della crosta grigia che scricchiola sui polpacci strappandoti i peli, del ritmico rivoltare la palta dai lembi del plasticone, ormai in totale sincronia con David, ma anche del mal di schiena, delle mani arrossate dallo spalmare battere lisciare quella palta, dei sassolini che bucano i polpastrelli. Dell’imparare a conoscere i limiti di questo strano pongo, dello scoprirne le incredibili potenzialità, dell’azzardare forme sempre più estreme. Nel mio settembre 2015, cascasse il mondo alle 6 e mezza di sera avevo legato la bici nel vialetto e stavo impastando fango con David. Avevamo portato una prolunga dell’elettricità da casa al giardino, e così avevamo musica, luce, e bollitore del the. A volte venivano i vicini, due ragazzini sveglissimi, e facevano finta di aiutarci per rimandare i compiti. Ma ho sempre pensato che ai loro genitori sembrasse più prezioso farli partecipare del nostro progetto che fare i compiti come si deve. Con ottobre avevamo quasi finito il muro, avendo cura di lasciare le cornici in legno per le due finestre e la porta, ma io mi ero fatto risucchiare dal laboratorio, facevo orari lunghi e incostanti. Nessun mese fu mai più produttivo come quel settembre in cui staccavo alle 6. Dopo un novembre in cui recuperammo delle finestre e cambiammo i vetri, il 4 dicembre iniziammo a montare il tetto. David aveva comprato le travi di legno, secondo gli accordi il mio oro stava nelle mani. Venerdì mattina, faceva un freddo cane, c’era la brina in giardino. Ma era un lavoro lungo quindi doveva essere quel weekend, prima di ricoprire tutto con la plastica in caso di pioggia. Ero stressato, credo che in quel periodo non mi tornasse un esperimento, spesso andavo il laboratorio anche il venerdì ma quel giorno avevamo da fare il tetto. Nel suo schizzo, David non aveva pensato a come ancorare il tetto dal lato del muro di cinta del giardino su cui poggiava la casa. Gli dissi che era inaffidabile e irrispettoso del mio tempo, si offese e litigammo. Quel giorno non finimmo il lavoro che avevamo preventivato, tornammo a casa ghiacciati e incazzati. Mi pare avessimo mangiato in silenzio un piatto di hummus al Ben Sira, con i muratori in pausa. Ci chiedemmo scusa e il giorno dopo trovammo una soluzione e continuammo l’opera. Arrivò Natale, tornai a casa per qualche giorno. Al mio ritorno a Gerusalemme, trovai il tetto ricoperto di erba sintetica nonostante fossi assolutamente contrario da sempre: mi ricredetti, ci stava alla grande. E’ una figata, zio. Vuoi mettere sdraiarti sul tetto a guardare le stelle con il bel morbido sulla schiena, giocare coi fili d’erba, piuttosto che sul legno o sulla plastica isolante? E poi il colore naturale, verde che sembra l’Europa. Il kitsch? Un’invenzione degli europei. Vieni a sdraiarti su, prova. Zio, è una figata.

La casa era fatta e finita, da cima a fondo con le nostre mani. Bella, comoda ed ecologica, si può davvero fare con poco lavoro e quasi zero soldi. David era soddisfatto, ma fremeva per fuggire la città a cui non apparteneva. A febbraio partì in eremitaggio sul Mar Morto, lo andavamo a trovare ogni tanto per portargli qualche vettovaglia. Io gli portavo anche foto della casetta: continuavo a migliorarla, tappavo i buchi tra le pietre del muretto a secco, rifinivo i davanzali, drizzavo gli stipiti. Guardava soddisfatto e un po’ malinconico, dalla sua capanna di canne in riva al Mar Morto, ma già pensava al prossimo progetto. Guardava a nord, la Galilea.

A febbraio anche Maxim partì, per l’India. Yael e Elay presero il loro posto, e una nuova stagione si aprì: sconvolti dalla bellezza della casa di fango, lavorammo insieme per farci un pavimento in terra battuta, aiuole tutto attorno e un orto. Divenne la nostra sala da the. Noah, la vicina, andava di nascosto a fumarci le sigarette con le sue amiche, e noi la prendevamo in giro finchè smise. Ad aprile il palazzo abbandonato con l’annesso giardino fu dato in gestione dal comune a degli artisti, che inglobarono la casetta abusiva come una loro opera d’arte, mettendola al sicuro dalla demolizione. Si aprì in fretta una terza stagione in cui il nostro amore per la costruzione poteva servirsi di un arsenale di attrezzi portati dagli artisti, legno di qualità, consigli e manodopera di simpatizzanti che partecipavano del nascente progetto di riqualificazione urbana. Feci l’impianto d’irrigazione automatico per l’orto, l’impianto elettrico nella casetta con luci a led e “diffusore” naturale – in paglia, allacciandomi all’elettricità del palazzo. Il microprocessore che imparai a programmare per la sensoristica dell’irrigazione mi tornò utile in seguito per un setup sperimentale. Per passare i cavi della luce scalpellavo le canalette nel muro, ci infilavo i cavi e poi ritappavo il tutto reimpastando i trucioli caduti per terra con un po’ d’acqua. Faceva ormai caldo, tirammo dei tendoni per l’ombra tutt’attorno alla casa, facevamo grigliate e pizza nel forno di fango costruito nel frattempo. Costruii un tavolino e lastricai di parquet l’interno della casa di fango, installai l’impianto audio. Ma non le facemmo mai l’intonaco, non la portammo mai ad essere una casa standard: la volevamo grezza, butterata, cruda, che si capisse a colpo d’occhio di come fosse emersa dalla terra come un fungo. Là si prendeva il the e si giocava a carte, si facevano massaggi e meditazione. Il giardino si riempì di opere d’arte e alberi, il comune portò terra nuova su cui annaffiavamo con acqua di riciclo. Proiettavamo gli europei di calcio sul muro del palazzo e tutto il vicinato si accoccolava sulle stuoie. Ad agosto tornai in Italia, non vidi mai i cuori di bue maturare, ma i ciliegini e le zucchine, quelli sì li mangiai. Conosco ogni segreto di quella casa, so i punti deboli e i dettagli di valore, ogni tanto fantastico ancora su qualche miglioria. Quando di tanto in tanto torno a Gerusalemme, la casa è sempre lì ad aspettarmi, mi accoccolo tra le coperte e un sifone di riscaldamento se fa freddo. D’inverno sporca e casa per viandanti e barboni, d’estate viva di gente viva.  Qualcuno ha messo qualche suppellettile decorativo. La vite e il frutto della passione continuano a scalarla, tra un po’ non sembrerà più erba sintetica. David, dalla cui mente e cuore è uscita l’occasione per tutto questo bene, se l’è perso. L’ho invitato più volte a tornare in città, ma non ne volle sapere.

La morale che voglio dare alla casetta di fango di via HaMaaravim è che per noi radical chic gli strumenti di liberazione sono infiniti, passano per piattaforme online e blockchain ma anche per la terra che calpestiamo e che nessuno considera. Costruire una casa, la propria casa, è davvero facile. Ed economico. E più bello che una casa in cemento. Ma è soprattutto una pratica letteralmente edificante, per sè e per gli altri. Come lo sono l’attività fisica, la raccolta differenziata e il dare passaggi in auto. Certo suona strano, oggi, pensare di potersi costruire la propria casa a costo zero, a suon di due ore di lavoro al giorno, in uno sforzo creativo e comunitario, perchè c’è da sudare e sporcarsi, conciarsi come un muratore. Ma così suonava un tempo l’idea di correre e sudare come un maiale, tenendo i tempi e i battiti del cuore, in un parco o sul lungomare, o addirittura in una palestra a pagamento, o no? I primi fautori dell’attività fisica saranno stati probabilmente dei radical chic come me o dei pazzi ingenui come David, eppure oggi è il mainstream a dirci che lavorare due ore al giorno per un corpo sano è cosa buona e giusta. Che un domani lavorare per vivere in una casa sana diventi cosa buona e giusta?

Con il cielo e con il fango. Uno.

Le case del popolo in cemento sono un lascito, e uno dei catalizzatori, della rivoluzione industriale: case a molti piani, di facile e veloce costruzione e zero manutenzione, più economiche della pietra e del mattone. Rispecchiano la logica del magazzino, della stalla, della batteria di polli. Ma lotta di classe a parte, sono meno funzionali per il mondo deindustrializzato: la classe media vuole i suburbs, le villette a schiera, qualcuno la casetta in montagna. La casa del popolo di mezzo cerca di essere bella e comoda, e sempre più ecologica. Quell’intruglio chimico che è il cemento, però, tende naturalmente ad essere brutto, scomodo ed inquinante. Non mi stupisce, quindi, che tra le varie rivoluzioni del terzo millennio si trovi anche l’abbandono del cemento. Come tante rivoluzioni contemporanee è radical chic, forse hipster, ma ciò non toglie che possa avere una propria dignità e, un domani, una propria sostenibilità economica. Come tante rivoluzioni contemporanee, è in realtà reazionaria: rimpiazza il cemento con un materiale vecchio come il mondo. Come tante rivoluzioni contemporanee, nasce negli Stati Uniti.

Le case del popolo sono storicamente in fango, e storicamente non lasciano alcuna traccia: solo i palazzi in pietra e mattone degli dei, dei re e degli scribi, gli immortali e quindi i meno-vivi, sopravvivono i secoli. Nell’antichità, di terra sono le case come di terra sono gli uomini, impastati con la saliva del dio. Un curioso ciclo ancestrale vede l’umanità muovere da uno sputo sulla polvere, avvicendarsi nelle avventure più disparate per infine sgretolarsi e consumarsi nuovamente in polvere. Con un po’ di retorica, gli ecomostri abbandonati in cemento lasciatici in eredità dall’industrializzazione, in cui il teatro delle vicissitudini umane resta indeterminatamente oltre i propri attori, contravvengono a questo arcaico principio di ecosostenibilità per cui non è nella natura delle cose lasciare gusci vuoti, avanzi di vita defunta. Forse è per questo che il cemento ci fa ribrezzo e lo camuffiamo in ogni modo possibile, e forse è per questo che nell’era del riciclo prende piede il revival del fango, nella nuova parola di “cob”.

La prima volta me ne parlò David Tarzan, come mi parlò di molte altre cose. E’ una figata, zio. Con poche ore di lavoro, poche conoscenze di base e materiali molto semplici puoi farti la tua casa, da cima a fondo, da solo. La puoi smontare e aggiustare indefinitamente, la puoi piegare, arricciare, bucare, ben oltre il rigore degli angoli retti e delle solette e dei pilastri e delle armature in acciaio. E quando hai finito, la puoi sciogliere nuovamente nella terra da cui l’hai tirata fuori. E poi la casa è un diritto, è il diritto per eccellenza. Senza casa non sei uomo, sei cane. Per questo qui baaretz lo stato d’Israele è infame perchè non vende la terra ma l’affitta a contratti di 99 anni: la terra non è mai tua, sei sempre un mezzadro ricattabile, o tu o i tuoi figli. E se poi lo Stato se ne va, se ne va con lui il tuo diritto sulla terra. E non puoi neanche affittarla da solo, tipo mi piace quella collina la voglio quanto costa dove firmo. No! Devi aggiungerti ad una comunità già stabilita su di una collina, e quindi farti accettare. E se nessuno ti accetta allora devi per forza farti la tua comunità e ricevere la collina, e recintarla perchè fuori ci sono i lupi. E poi quanto costa! Chiaro, se vai in nei territori occupati invece te la tirano dietro la terra, costa un terzo che in Israele. Ma almeno la casa, fisicamente le mura entro cui vivi, quelle te le puoi fare da solo, scavando la terra che calpesti. Zio, è una figata.

Quest’uomo libero e ingenuo, la faccia da schtetl sotto i riccioli selvatici, sempre scalzo e a torso nudo, lo trovo per un po’ di sere accovacciato su youtube e su blog americani, legge e fa schizzi sul quaderno. Lo vado a trovare spesso in via HaMaaravim 8, dal mio appartamento ad Abu Tor, pianifichiamo di prendere una casetta in Myriam HaHashmonait, riarredarla e affittarla su AirBnb. E’ una figata, zio. Puoi affittare camera tua direttamente a chi ne ha bisogno, senza bisogno di intermediari. Pubblichi foto e info, prezzi e calendario, internet fa il resto, pagamento elettronico. Poi al secondo giro ti organizzi e fai direttamente in cash. Viaggiare è un diritto basilare, perchè dovrebbe dipendere da un pezzo di carta che legittima alcuni ad affittare stanze ed altri no, e farsi loro i prezzi? Se la mia camera ti va bene e il tuo prezzo mi va bene, che problema c’è? A Gerusalemme il mercato tira. La guerra c’è già stata l’estate scorsa quindi per due o tre anni siamo a posto, ci sono turisti tutto l’anno, senza contare studenti e lavoratori che arrivano e non sanno da che parte sono girati, e coi prezzi degli affitti che ci sono in giro… Ho trovato sta casetta, conosco il padrone di casa, era mio insegnante di scuola a Kfar Bloom, è messa male ma se mi aiuti la mettiamo a posto e facciamo un bel gruzzolo. Tu ci metti le tue mani d’oro, io i materiali e la responsabilità sul contratto. Zio, è una figata.
Così facciamo, affittiamo la casa – monolocale soppalcato – e la modelliamo in 3D su Sketchup, poi iniziamo a sballarci su come riempirla, quali mobili costruire, arriviamo ad un mood lounge di lusso, legno scuro e tessuti in porpora, sgabello alto e divano a forma di onda con tavolino basso tondo ad incastro – design di cui sono ancora fiero. Affittiamo le nostre rispettive camere su Airbnb e ci trasferiamo nella casetta, dove condividiamo un materasso matrimoniale. Nella prima settimana scrostiamo e intonachiamo, pitturiamo e lacchiamo. Riempiamo la casa e il giardino di legno di recupero e attrezzi da lavoro in prestito da amici, recuperiamo dei sanitari senza crepe. Per un mese buono lavoro ogni sera alla casetta con David. Torno un po’ prima dal laboratorio in modo da poter trapanare, inchiodare e segare in orari decenti, poi dopo le 21 assembliamo, levighiamo e progettiamo. David fa il trovacose, recupera tutto quello di cui abbiamo bisogno, io ci metto la mia manualità. Per prima cosa realizziamo un letto con quattro gambe-colonne in legno massiccio, scavate e forate all’estremità e al cui interno mettiamo lampade a led. L’effetto è magico e finalmente dormiamo su un letto. Poi il divano, il tavolino, la cucina, il giardino, il muro bianco e viola, le lampade con il dimmer, infine l’impianto elettrico. La casa è pronta, la lanciamo su AirBnb. Ma la jacuzzi in giardino – struttura in fango con rivestimento in plastica – viene rimandata. In compenso c’è una possibilità interessante proprio di fronte a casa sua, in via HaMaaravim. E’ una figata, zio. C’è sto palazzo antichissimo abbandonato da ormai 20 anni, con un giardino tutto attorno. Era la scuola del quartiere, ci andavano tutti gli immigrati turchi negli anni ’50 tra cui il nostro padrone di casa, mi ha spiegato tutto. Nessuno sa più chi l’ha costruita ma ora è abbandonata. In breve, il giardino è una specie di foresta, ci sono solo gatti selvatici e travi marce, ma ho fatto un giro ed è perfetto: la terra è buona, pochi sassi, e ci sono blocchi di pietra bianca sparsi qua e là sotto le erbacce, forse un vecchio muro. Possiamo usare i blocchi per fare le fondamenta e il “piede” della casa, e poi continuare col fango. Ci basterà per un 7-8 metri di lunghezza. Al tetto ci penseremo, ci sono tante possibilità e bisogna studiare. Ma iniziamo dal muro. Io metto i materiali e tu le mani d’oro. Mi hai detto che una volta hai fatto dei muretti a secco nel tuo giardino ad Arenzano, no? Zio, io voglio imparare a costruire, creare una casa abitabile da zero per poi fare questo nella vita. Capito io voglio vivere di rendita, e con quello che costano gli affitti in Israele se riesco a costruire delle case in fango nei posti giusti e affittarle bene posso “chiudere il banco” e lavorare solo per puro piacere personale. Baaretz posso vivere con 1500 shekel al mese, chiaramente vivendo in natura senza affitto da pagare, e in India mi bastano 500 shekel al mese, escluso il volo di andata. Il lavoro è edificante solo se non lo fai per soldi, ma per passione, altrimenti sei schiavo. Tipo se ti dicessi adesso che hai tutti i soldi che vuoi, ti alzeresti ancora la mattina per andare in laboratorio e avere la borsa di studio? Vabè ok ma il 99% delle persone smetterebbe di lavorare perchè lavorano per sopravvivere, non per crescere e  imparare. Ad ogni modo vieni a fare un sopralluogo, ho portato un sacco di sabbia e della paglia per fare dei test con la terra per trovare la miscela giusta. Zio, è una figata. Così iniziò il nostro progetto della casa di fango, in un giardino che puzzava di piscia di gatto, coperto di erbacce e ferri vecchi, un cumulo di sacchi di sabbia e due balle di paglia che David aveva recuperato a Modi’in – perchè, zio, incredibile ma nessuno a Gerusalemme centro vende balle di paglia. Lo trovavo nell’antro di casa sua, accucciato sul computer o su libri di costruzione col fango comprati su Amazon. Era giugno, entro inizio luglio avevamo scavato le fondamenta, posto un metro di pietre a secco come piede e un 20 centimetri di fango. Partivo per qualche settimana in Italia.

Al mio ritorno David mi dice che il mercato AirBnb è esploso, a Gerusalemme tutti gli studenti affittano e il mercato è invaso di camere a poco, è una lotta a colpi di feedback per comparire sui primi risultati nel motore di ricerca. Non stiamo guadagnando come previsto, ma stiamo a galla. Di lì a due mesi avremmo ceduto il contratto d’affitto con tutti i mobili. Non ci saremmo seduti mai più sul divano a forma di onda. Mi dice anche che si libera una camera a casa sua, se voglio andare a vivere con lui e Maxim. Il muro non l’ha più toccato ma è duro come cemento.

[la storia continua qui]

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Imitare Israele. Ma nel modo giusto

Ho visto già diversi trafiletti di giornale titolare ad Israele come modello di sicurezza a cui guardare, ora che siamo stati improvvisamente gettati nella guerra di Gog e Magog con l’estremismo islamico. L’idea sarebbe prendere esempio dall’efficienza e scrupolosità della security dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, con i suoi interrogatori individuali, le sue corsie preferenziali, i suoi metal e chemical detector: grazie a queste procedure sistematiche, l’aeroporto e quindi la porta d’ingresso ad Israele è una fortezza inespugnabile. Sono convinto che investire in intelligence sia un ottimo modo per prevenire attentati, ma ho seri dubbi sull’adozione del modello Israeliano come policy europea. Primo, per una questione di finanze: Israele investe in sicurezza una cosa come un quinto o un quarto del proprio PIL, e circa 180 mila dei suoi giovani tra i 18 e i 21 anni, coscritti nell’esercito di leva, senza contare i 500 mila riservisti regolarmente addestrati. Questa enorme macchina da guerra è impegnata in altre attività che non la sicurezza in aeroporto, trovandosi Israele circondata da vicini di casa non proprio amichevoli e pure dotati di eserciti regolari, tra i quali la Siria che è letteralmente una polveriera. D’altra parte, Israele è completamente blindata entro una cinta muraria che la divide dagli Stati confinanti, con solo tre valichi per la Giordania, uno per l’Egitto e uno per Gaza. E anche all’interno del Paese, per quasi metà consistente dei territori palestinesi occupati, corrono qua e là muri in cemento di otto metri d’altezza, con posti di blocco e torri di controllo. Questo mi porta al secondo punto: che in Europa, a differenza che in Israele, non ci sono confini nè tra Stati, né tra regioni, né tra città. Cosa ce ne facciamo, quindi, di una Malpensa in stile israeliano quando il terrorista può arrivare in prima classe dal passo del Brennero o dal Frejus, o in crociera da Maiorca? Si potrebbe israelianizzare sia il Brennero, che il Frejus, che tutti i porti della penisola, si dirà. Forse è questo che hanno in mente i leghisti. Ma a parte il costo, una tale misura ha enormi costi sulla qualità della vita: immaginate passare un metal detector ogni volta che prendete un treno e una nave, essere circondati da telecamere e uomini armati che vi osservano da dietro occhiali scuri; immaginate di dover raccontare i fatti vostri e di scartare tutti i vostri imballaggi in valigia davanti ad un giovincello in divisa ogni volta che vi fate una vacanzina in Croazia o in Francia. Immaginate che la polizia possa entrarvi in casa o perquisirvi in strada senza un mandato, altro che intercettazioni. Ecco questa è la realtà in Israele, e in particolare a Gerusalemme, che vive in stato d’emergenza da sempre, mai revocato. Niente di tragico, ci si abitua, ma il fastidio resta. E restano strascichi profondi su come squadri chi sale sul tram o cosa ci fa quello zaino incustodito sotto il lampione, su andare a fare la spesa in posti poco affollati e sull’aspettare il bus dietro i blocchi di cemento anti-investimento. O il girare armati, per chi ha il porto d’armi – praticamente tutti. Impercettibili tic di paranoia che a volte rigurgitano barbarie, come il linciaggio a morte di un terrorista qualche mese fa a Beer Sheva, salvo scoprire in seguito che non si trattava di un terrorista ma di un passante, solo un po’ scuro di pelle. O il sistematico crivellare di colpi i baby terroristi armati di coltellini e forbici, non per neutralizzarli (basta un colpo alle gambe – o un pugno in faccia), ma per sfogare la tensione accumulata giorno dopo giorno di chi-va-là. Per quanto non abbia vissuto a Gerusalemme prima dell’attuale stato poliziesco, ho come l’impressione che ogni misura di sicurezza vada a sottrarre la responsabilità degli individui gli uni verso gli altri, corrodendo il rapporto di fiducia che dovrebbe essere alla base della civiltà. Nei rispetti del potenziale nemico, in Israele e in particolare a Gerusalemme, non si cerca di costruire fiducia e interdipendenza, ma solo di essere pronti per il prossimo attacco: razzi terra-aria per Gaza, carri armati per la Siria, areonautica per l’Iran, cittadini armati per i palestinesi. Queste misure preventive non fanno che accrescere l’odio alla base degli attacchi, ma al contempo ne neutralizza la forza, e questo è missione compiuta, per gli israeliani, perché apparentemente il risultato è lo stesso: puoi girare in strada tranquillo. Quel che ho capito è che l’imponente dispositivo di sicurezza israeliano è un ottimo motivo per non fare la pace con i nemici: che bisogno c’è? Oltre ad essere incompatibile con i principi dei nostri Stati di diritto, per cui è vietato il profiling, cioè il trattamento differenziale su base etnica, religiosa o politica, la punizione collettiva, la pena deterrente con le sue rappresagli d’onore e altro, questa logica schiera le persone su fronti avversi sulla presunzione di colpevolezza, piuttosto che avvicinarle in quanto tutte potenziali vittime di attacchi. Il modello sicurista israeliano, per quanto apparentemente accattivante, non è alla nostra portata perché appartiene ad un altro universo culturale, un contesto militarista e tribale che l’Europa, se mai l’abbia avuto, ha abbandonato con l’Illuminismo. Non mi sembra il caso di tornarci nel giro di pochi mesi per qualche attacco terroristico.

Piuttosto, potremmo imparare un antidoto allo scontro di civiltà proprio là dove meno ce lo aspetteremmo: la stessa Israele. La trama romanzesca dello Stato Ebraico, infatti, consiste proprio nella grande riunione famigliare degli ebrei in diaspora: Europa, Americhe, Russia, Australia, Africa, Medio Oriente, perfino India! In questo fazzoletto di terra pieno di filo spinato si sono nei decenni mescolati pacificamente individui provenienti da climi diversi, paesaggi diversi, con lingue diverse, cibi diversi, vestiti diversi, abitudini diverse, obiettivi diversi, sulla base di un solo comun denominatore: l’ebraismo. Ma cos’è l’ebraismo? Non è una fede, perché molti israeliani, tra cui i fondatori della patria, erano dichiaratamente atei; non è una razza, perché il sangue è misto e i diversi colori della pelle non lasciano dubbi; non è una cultura, perché ciascun immigrato ha portato con sé pezzi di diaspora radicalmente diversi tra loro; non è una filosofia, perché le diverse comunità erano riunite da diversi valori; non è un’affinità d’intenti, perché ciascuno tornò dalla diaspora con una diversa idea di felicità e di come perseguirla. Non è facile dire cosa rende gli ebrei tutti ugualmente ebrei, ma tra tutto direi l’antisemitismo, vissuto o pensato. Non a caso, la Legge del Ritorno che definisce il diritto alla cittadinanza israeliana è la falsariga delle leggi razziali di Norimberga. Tutte le tradizioni ebraiche in un modo o nell’altro praticano il culto della persecuzione come metafora della vita, quasi come ordine metafisico: una minaccia alla sopravvivenza della specie e un salvataggio in corner dal retrogusto provvidenziale, mistico. Una cosmologia in bilico tra la disperazione e la gratitudine, un fatalismo che impregna l’aria e la contraddistingue da ogni altra aria. Questa per gli israeliani è l’aria di casa, ciò che li unisce: visto che il mondo ci odia, almeno tra noi amiamoci. In questo momento tralascerei le riflessioni sulla prima causativa – “Visto che…” – perché mi interessa mostrare i poteri strabilianti della reggente – “almeno tra noi amiamoci”. Non c’è una regola precisa su come il concetto venga introiettato: può essere devozione religiosa, idealismo sociale, attrazione per l’esercito, speranza in prospettive professionali, fuga da persecuzioni, noia; ho incontrato di tutto. Ma tutte queste innumerevoli storie possono portare ad un fondamentale sentimento: che Israele è casa. Su questa basilare buona volontà è fiorita dal nulla una nuova civiltà con la propria lingua, la propria musica, la propria industria, la propria personalità, e una società tutto sommato coesa: la cura e la guida di questa buona volontà è quello che l’Europa deve cercare e può imparare da Israele, mutatis mutandis.
Per dare un’idea della portentosa macchina dell’integrazione che Israele ha messo in atto, si pensi che alla nascita nel 1948 la nazione consisteva di 800 mila persone, e che nel giro di vent’anni altri 800 mila ebrei cacciati dai Paesi arabi vennero accolti come cittadini. E non è solo questione di numeri: yemeniti, marocchini, iracheni, egiziani, tunisini, afgani, iraniani, i nuovi israeliani erano a tutti gli effetti profughi, avendo dovuto lasciare case e beni, lavoro e conoscenze. Si trovavano catapultati in una nazione appena nata, su un territorio ancora privo di infrastrutture, senza lavoro e soprattutto in un modello di società, il socialismo industrializzato propugnato dall’élite ashkenazita, radicalmente diverso da quello di provenienza. Eppure, non senza discriminazione e disparità che sopravvivono fino ad oggi, si integrarono e impararono a chiamare Israele “casa”, servendo nell’esercito, pagando le tasse, adeguandosi al nuovo sistema di valori, imparando la lingua. Ecco, il miracolo d’integrazione israeliano parte dalla lingua. L’Ulpan, corso intensivo di lingua ebraica, è il cuore della politica di “assorbimento” sionista fin da prima della fondazione dello Stato. Oltre ad essere studiato per guidare il nuovo immigrato in un apprendimento sistematico, l’Ulpan ha lo scopo di fornire un background culturale minimo su cui costruire un’appartenenza: canzoni, storie, personaggi, luoghi, eventi, un corso accelerato di cultura popolare, forse da settimana enigmistica, ma comunque cruciale per muovere i primi passi in una società a tutti gli effetti straniera. Ai miei tempi di ulpanista nel kibbutz Maagan Michael, unico non ebreo negli annali, ho vissuto in prima persona il processo di assimilazione, ma in assenza della “buona volontà” di diventare nuovo cittadino del Paese ho potuto osservare con un certo distacco gli ingranaggi della fabbrica del nuovo israeliano: rari riferimenti biblici e classici, limitati ai grandi exploit nazionalistici come la rivolta di Bar Kochvah e il suicidio collettivo di Masada; introduzione al Talmud come tradizione dell’esilio; silenzio sui millenni di diaspora europea e imbruttimento superstizioso; grande attenzione all’umanesimo ebraico inaugurato da Spinoza e costellato di successi in discipline non-religiose fino ad Einstein, alle tecnologie agricole e alle startup israeliane; culto del Sionismo come movimento laico e socialista in risposta all’antisemitismo europeo e racconto romanzato delle imprese militari israeliane come sua naturale continuazione, dalle guerre contro eserciti regolari (Sei Giorni e Kippur), alla difesa dal terrorismo (operazione Entebbe) e al salvataggio di ebrei in diaspora (operazione Salomon), ciascuna con veterani dell’esercito a raccontarla in prima persona; accenno all’occupazione della Palestina come fase di una tattica militare estemporanea; due lezioni sull’Olocausto nel giorno della memoria, coronate da gita di classe al museo dei combattenti di Varsavia e alla fabbrica clandestina di armi per la guerra d’Indipendenza del ’48, come eventi logicamente connessi; scoperta dell’universo kibbutz come modello educativo e punta di diamante nel progresso dello Stato; nessun riferimento alla cultura araba (mussulmana, cristiana o ebraica di sorta), essendo gli arabi solo comparse accidentali sul palco in cui il nuovo ebreo è il protagonista indiscusso; cultura generale attraverso canti popolari e hit popolari fino ai giorni nostri. Tra le altre cose abbiamo imparato i nomi degli uccelli e dei fiori locali, distinguendo diversi tipi di aironi e di papaveri; abbiamo camminato nel deserto per vedere da vicino un certo minerale che si trova solo lì, e abbiamo piantato gli alberi nel giorno nazionale a questo dedicato: questo per dare un’idea del grado di specificità della formazione a cui mira l’Ulpan. Ci si chiederà, perché mai investire su dettagli così trascurabili con gente appena arrivata che non sa ancora da che parte è girata? L’obiettivo è dare ai nuovi israeliani una presa immediata sul territorio e le sue peculiarità, togliendo da subito l’imbarazzo del neofita: dopo due mesi in Israele un russo che non sa ancora leggere il tabellone degli arrivi dei treni può però riconoscere i diversi tipi di papaveri, come solo un locale sa fare, e questo in un certo senso gli dà il diritto di “sentirsi a casa”. In quanto nazione di immigrati, poi, nessuno storcerà il naso per il suo accento o metterà in discussione il suo status di cittadino.

L’Ulpan, gratuito per gli ebrei, è finanziato e organizzato negli aspetti logistici dall’Agenzia Ebraica, che tra le altre cose smista gli iscritti nei diversi Ulpan a seconda di età ed orientamento social-ideologico: Maagan Michael raccoglie giovani in età esercito, di cui alla fine più della metà si ferma in Israele e si arruola. Il programma di studi è ministeriale ma declinato a seconda dell’istituto che effettivamente lo eroga: Maagan Michael ha il gusto anacronistico dell’Ulpan per sionisti degli anni ’30, futuri contadini e combattenti in una terra ancora vergine su cui costruire una società giusta. Invece all’Ulpan dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove metà degli studenti sono arabi che perfezionano la lingua in vista degli studi accademici, un quarto cristiani stranieri studenti di Bibbia e teologia, e un quarto nuovi immigrati ebrei, l’accento è meno militarista-pionieristico ma più indirizzato ad aspetti storici, giuridici ed economici dello Stato d’Israele, il suo sistema stradale e i suoi acquedotti, i suoi scrittori e i suoi scienziati. Come studente a Gerusalemme, dopo un anno di kibbutz, ho finalmente capito che Israele non è più una terra vergine su cui costruire una società giusta, ma una terra che ne ha viste troppe in pochissimo tempo e che quindi, in classe, è meglio non parlare di politica, di storia e di valori. Ma per centinaia di migliaia di israeliani, prima di essere piazzati in tranquilli sobborghi di Tel Aviv e Haifa, kibbutz e moshav in Galilea e centro o in qualche tranquilla colonia come Ariel e Maale Adumim, l’identità nazionale si è cristallizzata sulla versione ufficiale di quei pochi mesi di Ulpan: si sentono cittadini secondo le formule che hanno introiettato nel corso di lingua. Per questo l’Ulpan è da sempre la chiave di accesso alla politica d’integrazione israeliana e, per chi vuole vederlo, la cartina di tornasole della sua storiografia ufficiale.
I mutatis mutandis sono troppi da snocciolare qui, ma la mia intuizione è chiara: il successo di una società pluralista sta nella sua politica d’integrazione, che a sua volta richiede come punto di partenza la buona volontà dell’integrante di essere integrato. Apparentemente Israele ha l’ebraismo come ovvio catalizzatore della volontà d’integrazione, ma a ben vedere non è proprio così: si stima che un terzo del milione e mezzo di russi arrivati a inizio anni Novanta in Israele non siano ebrei, né di sangue né di tradizione, così come l’ebraismo dei Falasha e Falash Mura etiopi è, per così dire, esotico. In questi casi la motivazione del migrante era una miglior prospettiva economica, mentre quella dello Stato d’Israele la solita competizione demografica con gli arabi israeliani. Ma tanto è bastato per fare di questa materia grezza buoni cittadini. Le Costituzioni degli Stati Europei includono già in nuce appigli su cui la buona volontà dei migranti può attecchire: il lavoro come mezzo di successo individuale e sociale, la tutela dei diritti individuali e l’uguaglianza davanti alla legge. Chiunque bussi alla porta delle nostre nazioni ed è disposto ad accettare questi valori ha potenziale d’integrazione, e credo che si tratti della schiacciante maggioranza dei casi. La grande assente è piuttosto l’istituzione responsabile di prendere questo potenziale e farlo maturare, dargli una forma e una voce, e in particolare una lingua: in Italia non c’è l’Ulpan. Non c’è un programma di studio intensivo e progressivo della lingua, distribuito su pochi mesi intensivi o un anno diluito; non c’è un istituto di matching tra la domanda e l’offerta, come è l’Agenzia Ebraica tra movimenti giovanili ebraici in diaspora e kibbutz/esercito/aziende in Israele, per cui immigrati di un certo tipo vengono avvicinati fin da subito a realtà di un certo tipo; non c’è alcuna attenzione a fornire, oltre che uno status di nuovo cittadino, una background da nuovo cittadino, che sappia canticchiare le canzoni alla radio, capire le battute di un comico in televisione o riconoscere i diversi tipi di papavero – o di pasta, nel nostro caso; non c’è alcun contatto in loco, là sulle coste dove si accumulano disperati in cerca di un futuro leggermente migliore, per identificarli, distinguere i criminali in fuga da profughi, e smistarli per grado di educazione e conoscenza della lingua; non esiste un programma di mobilità nazionale che faccia conoscere agli italiani l’Italia e gli altri italiani, appianando le differenze e ossigenando il provincialismo imperante: in Israele è l’esercito, altro enorme motore dell’integrazione sociale, da noi potrebbe essere il servizio civile. L’integrazione non nasce sotto gli alberi, ma nei programmi ministeriali. Quindi, finché non si porrà fine ai disastri umanitari che portano milioni di persone ad attraversare deserti e mari per arrivare da noi, la carta migliore che abbiamo è investire su questi flussi piuttosto che fingere che non esistano, e investire può voler dire prendere il ministero dell’Immigrazione israeliano e copiarlo pari pari in Italia, depurato delle sue derive razziste e particolariste, ma soprattutto dell’identificazione di una minaccia esterna come strumento per la coesione interna. Ad ogni modo, ironico pensare al cinismo e al disgusto con cui gli israeliani parlano dell’integrazione, pilastro della civiltà europea, quando proprio Israele è, a ben vedere, uno dei casi di fusione interculturale meglio riusciti della storia.

Non gli spari, non le botte

Del gran rumore attorno a Israele e Palestina “violenza” pare essere il concetto di maggiore appeal. Condivido il sentimento, ma più il mio tempo da abitante di Gerusalemme passa e più lascio i pensieri, di tanto in tanto e senza esagerare, correre sul conflitto, tanto più sento l’esigenza di ricapitolare quale violenza ho di fronte, quale il suo obiettivo e quale il suo meccanismo. Di seguito, mi ripropongo di ridisegnare i confini di questa violenza, cambiandole i connotati per renderla più simile al volto che vedo nella strada, nei giornali, nei posti di blocco, nel vociare sull’autobus, nelle leggi dello Stato.
Partirò dalla violenza in senso proprio, quella degli spintoni, delle sassate, delle coltellate, dei lacrimogeni, delle molotov, dei pestaggi, delle fucilate e dei mezzi blindati, perchè esiste e perchè non mi soddisfa: non è questa la violenza che sento e che turba il mio animo e quello dei milioni che vivono quaggiù. Di violenza fisica nei territori occupati ce n’è tanta, su base quotidiana e su larga scala, capillarmente documentata o totalmente ignorata, alla luce del sole o annidata nel buio degli arresti notturni, nelle torture nelle carceri, degli omicidi chirurgici. E’ per lo più eseguita in modo ordinato e sistematico, organizzata secondo le categorie della burocrazia militare, dosata e disciplinata da ordini superiori. Parlare di violenza fisica palestinese, invece, lascia un po’ a bocca asciutta: almeno da quando sono arrivato qui quasi quattro anni fa, è sporadica, disorganizzata, casuale e quindi poco efficiente. Vale a dire, è molta di più la violenza israeliana che quella palestinese, in termini di case distrutte, arresti, condanne – nulli verso gli israeliani -, ferimenti e omicidi – sporadici sulla popolazione civile israeliana e talvolta su militari. Tale differenza è dovuta in grandissima parte alla sproporzione di mezzi: anche volendo, per i palestinesi non è facile organizzarsi per eseguire violenza mirata senza farsi beccare dai servizi di sicurezza israeliani. Questo tipo di violenza è il terrorismo dei titoli di giornale. Dopo lunghi ripensamenti, sono giunto alla conclusione che se intendiamo il terrorismo come per definizione ingiustificato, allora non sono disposto a chiamare tale violenza terrorismo. Vale a dire, ritengo l’attacco a civili e soldati israeliani da parte palestinese il loro strumento di combattimento in assenza di un esercito regolare, una violenza “dalla base” senza benedizione di alcuna autorità riconosciuta. Fenomeni analoghi sono considerati in altri contesti resistenza, guerriglia, rivolta, e non intendo adesso mostrare come parte integrante della mitologia israeliana glorifichi il terrorismo quando è toccato ai primi sionisti servirsene. Il “terrorismo” attraversa i secoli, da Spartaco alla Rivoluzione Francese ai partigiani alle Brigate Rosse, ma dal suo mero carattere non-istituzionale ritengo non si possa inferire nulla sulla sua giustificazione morale, esattamente come dal mero carattere istituzionale delle guerre non si può inferire nulla sulla loro giustificazione morale. La differenza sostanziale tra i due – che poi sostanziale non è, ma sempre una fastidiosa sfumatura di grigi – è che le guerre sono dichiarate e firmate da rappresentanti che si riconoscono a vicenda, mentre nei casi di terrorismo manca almeno uno degli interlocutori. Si può intendere il terrorismo in un’accezione più specifica, come tentativo di generare panico in una società attaccando civili innocenti. In questo senso, mentre la violenza palestinese mira deliberatamente a tale obiettivo, per l’esercito israeliano le vittime civili sono incidenti di percorso o un male necessario al mantenimento della sicurezza nazionale. Ma ho alcune osservazioni al riguardo. Primo, l’eventualità di tali incidenti o sacrifici è tenuta in talmente scarsa considerazione nella tattica militare israeliana e nell’opinione pubblica, per quelli che sono i miei standard di moralità e civiltà, che ai miei occhi non è un aspetto discriminante tra i due contendenti: la morte di un bambino palestinese impallinato ad un posto di blocco non fa scandalo, ma suscita un’alzata di spalle e un indicibile “probabilmente se lo meritava” o l’eventuale ammissione che sia stato un errore umano, e finisce lì. Per l’israeliano medio e per la giustizia. La ministra della giustizia ha intrapreso una crociata personale contro i mitologici lanciatori di pietre in kefiah: per lei, sono da abbattere sul luogo in quanto attentano alla vita dei soldati, chiusi dentro i loro mezzi blindati. E anche su larga scala, le cicliche devastazioni di Gaza come spropositata risposta ai suoi missilini non disturbano le coscienze d’Israele, e non per la loro giustificazione morale: i motivi e le circostanze dell’uccisione di migliaia di civili restano ovviamente un segreto di Stato, quindi nessuno ha idea se sia una guerra giusta e condotta giustamente. Il benestare degli israeliani sulle vittime civili viene dalla fiducia a priori che vi siano buone ragioni per la strage, puntellata del fiorente circo mediatico attorno agli highlights del combattimento, che seminando una confusione ed eccitazione collettiva non lascia spiragli per la critica razionale. Provare per credere. L’elasticità degli scrupoli morali dell’israeliano medio può essere tesa ad libitum quando viene spezzato l’incantesimo dello sheket, il silenzio: da riconquistare ad ogni costo. Secondo, per un guerrigliero palestinese tutti i sionisti sono oppressori e usurpatori della patria, ex soldati e riservisti 
dell’esercito occupante , e quindi meritevoli di morire: nella loro mente, non stanno colpendo civili. E davvero in Israele la differenza tra civile e militare è spesso sfumata, basta vedere il numero di armi da fuoco per le vie di Gerusalemme ovest, e dell’utilizzo che se n’è fatto negli ultimi mesi: le condanne a morte degli attentatori sono eseguite in loco spesso da cittadini armati, non da tribunali e soldati. Terzo, i mezzi a disposizione della milizia palestinese non permettono di colpire obiettivi militari significativi, mentre gli obiettivi civili restano più abbordabili: la violenza morale è un lusso. Quel che è certo, è che le vittime e i danni civili del conflitto sono innumerevolmente maggiori tra i  palestinesi che tra gli israeliani, nonostante la disparità di mezzi e la violenza chirurgica, e che quindi a ragione i palestinesi vivono più “nel terrore” che gli israeliani. Questo excursus era per dire che violenza fisica israeliana e palestinese, per quanto mi riguarda, hanno a priori lo stesso status morale. A posteriori, poi, mi chiedo se ci sia un motivo per cui solo uno dei due fronti sia un’entità politica riconosciuta e sostenuta globalmente, mentre l’altro no, e se magari questo, sì, porti con sè una valenza morale. Ma queste sono speculazioni per il prossimo pezzo.

L’assenza di perdite israeliane non significa che manchino la volontà e i tentativi di colpire da parte palestinese: è un desiderio palpabile e spesso riscontrabile esplicitamente, ma la sicurezza israeliana è praticamente invulnerabile. Al contrario, invece, la violenza fisica israeliana è quasi nulla rispetto alla potenza di fuoco disponibile: se Israele volesse addirittura distruggere una per una tutte le case palestinesi e deportare o uccidere ogni palestinese, potrebbe farlo senza grandi difficoltà tecniche. Questo mi fa riflettere su un primo fatto: che non è una guerra. Non si può parlare sensatamente di due fronti contrapposti, ma del fronte israeliano alle prese con spinte interne contrapposte: più violenza o meno violenza. Questo e solo questo, se non in parte irrisoria in questioni interne e in parte maggiore per crisi internazionali, è ciò che determina dove e quando avviene un arresto, una manifestazione, un bombardamento. I palestinesi hanno una parte decisamente minoritaria nel corso degli eventi. E su un secondo fatto: Israele non vuole distruggere la Palestina, non ne sta devastando le proprietà e non ne sta sterminando la popolazione, pur avendone i mezzi. Parlare di olocausto palestinese è fuori luogo, e quand’anche ci furono episodi di pulizia etnica, come nella guerra del ’48, non furono eccidi di massa ma espulsioni da villaggi ed espropriazioni per giudaizzare i nuovi territori conquistati.

Al contrario, Israele sta paradossalmente sostenendo la popolazione palestinese più di qualunque altro Stato al mondo. Fornisce, alla West Bank in particolare, acqua ed elettricità, accesso a porti ed aeroporti, ospedali e trasporti, lavoro e istruzione. E paradossalmente in questo intravedo più profondamente i tratti della violenza del conflitto, che non nei mitra e nel filo spinato. Mi spiego sbrigativamente: Israele tiene per le palle la popolazione palestinese. I bisogni primari di ormai tre milioni di persone, in West Bank, e due milioni, a Gaza, sono sotto il controllo del governo “nemico”, che li elargisce evitando l’ecatombe per sete e fame. I prodotti che i palestinesi consumano passano in gran parte da Israele, perchè sono stati costruiti confini invalicabili, così come l’acqua che bevono, perchè Israele ha controllo sulle falde. E se anche tra gli insediamenti palestinesi ci sono consistenti allacciamenti abusivi a elettricità e acqua ed edilizia abusiva, i palestinesi pagano dazi ineludibili su ogni bicchiere di latte che bevono, su ogni macchina che comprano e su ogni computer che usano, perchè il latte viene da Tnuva, le macchine dal porto di Ashkelon e i computer da Tel Aviv. E li pagano spesso coi soldi dei coloni ebrei per cui hanno costruito case e strade e fatto i guardiani notturni, piuttosto che con le più modeste paghe dei datori di lavoro palestinesi. Ben oltre l’andare a votare o il vendere terra al governo israeliano, i palestinesi sono normalizzati nel sistema economico israeliano fino al collo. Con ciò, per essere un popolo oppresso da uno dei più potenti eserciti al mondo, con la disoccupazione fissa al 20%, in un territorio desertico, senza porti e aeroporti, confinante con Paesi in guerra, i palestinesi non se la passano male: non si muore di fame e anzi i consumi sono alti rispetto al resto del Medio Oriente, come anche la scolarizzazione, accessibile sia nei territori che in Israele. Inoltre, uno scenario di guerra civile e pulizia etnica in stile Siria è fuori discussione, finchè Israele protegge i confini esterni della Palestina e del suo quasi 15%  di popolazione ebraica (nella West Bank). Ovviamente, il sostegno di Israele alla Palestina è il prezzo da pagare per la sua cattività e indigenza indotta, e a quanto pare, dopo cinquant’anni di occupazione, ripaga: se l’occupazione fosse a conti fatti una perdita, non durerebbe da così tanto. Ma anche questa discussione è da rimandare ad altra sede.

Ma allora perchè i palestinesi vogliono l’indipendenza, e sono pronti a rivendicarla con la violenza? Nel cercare di rispondere a questa domanda ho imparato a riconoscere i tratti somatici della violenza profonda in corso nel conflitto israelo-palestinese. Innanzitutto, le masse palestinesi cercarono e cercano di passare sotto il controllo israeliano, in particolare i cristiani per sfuggire l’oppressione da parte dei mussulmani, ma non solo: quando in seguito alla seconda Intifada venne innalzato il muro di separazione dai territori, ci fu il fuggi fuggi verso Israele, sgattaiolando tra i buchi del cantiere e della burocrazia. L’intuizione, poi confermata, era che Israele significava lavoro, istruzione, sanità, e consumi, seppur al prezzo di discriminazione e razzismo, mentre Palestina depressione e immobilità: quartieri di Gerusalemme est, e la città vecchia stessa, furono invasi di ex palestinesi in caccia del documento israeliano, con buona pace della Resistenza: su larga scala, in Palestina come nel resto del mondo, il sogno borghese vince sull’ideologia dell’autodeterminazione. Lo stesso vale per gli arabi israeliani: lungi dal trasferirsi sotto l’Autorità Palestinese, si tengono ben stretta la loro teudat zehut, la carta d’identità israeliana, ad Haifa, Nazareth, Yafo, con i servizi che garantisce. Per questo la spiegazione ideologica non mi convince: non è questo che muove lo zelo palestinese. Nè la fame. Quindi cosa? Secondo me per due principali motivi, entrambi inerenti l’amministrazione israeliana della Palestina e, più in genere, il fondamento antropologico-giuridico-politico dello Stato d’Israele.

Il primo motivo è il profiling su cui si fonda la distribuzione dei diritti e dei doveri. Dalle più piccole alle più grandi questioni, Israele discrimina su base etnica, politica e religiosa, e in questo manifesta la sua natura tribale. Per la verità, questo modello antropologico è condiviso da tutte le popolazioni dell’area circostante: druso, mussulmano, sunnita, sciita, cristiano, copto, maronita, circasso, beduino sono tutte caratterizzazioni ereditarie, non acquisibili nè alienabili. Sia il palestinese che l’israeliano, quando ti chiedono se sei cristiano, non si riferiscono al tuo credo ma al tuo lignaggio: sei nato in una famiglia cristiana? E’ questo che ciò che conta, poi, per quando li riguarda, puoi essere pure ateo. E’ difficile per noi spiegare che il cristianesimo è solo un credo, e come un credo può andare e venire a prescindere dal sangue. Il fatto interessante è che in Israele, tra i Paesi più scolarizzati e tecnologicamente avanzati al mondo,  la logica tribale è legge. Per prendere l’esempio fondamentale: qualsiasi ebreo nel mondo è di diritto cittadino israeliano, se vuole. Questo non in virtù della cittadinanza di un suo antenato, come nel modello di Stato occidentale, ma in virtù della semplice appartenenza al gruppo etnico-religioso. Per un esempio più specifico, in Israele solo per gli ebrei, i drusi e i circassi (4000 individui in tutto) l’esercito è obbligatorio, mentre per le altre minoranze etniche è solo volontario e soggetto a restrizioni politiche: di fatto, i beduini sono ben accolti e  i mussulmani no, ad esempio, mentre l’anno scorso venne avanzata in Parlamento la proposta di arruolare obbligatoriamente gli arabi israeliani cristiani, scatenando un pandemonio. Invece, il principale motivo di esenzione dal servizio militare è lo studio rabbinico. Ancor più nello specifico, i beduini ai bordi dell’Autostrada numero 1 tra Gerusalemme e Gerico non hanno diritti edilizi, mentre le colonie di Maale Adumim e dintorni ovviamente sì e i palestinesi falachim dei dintorni di Gerico sì ma con restrizioni. E così via sui diritti di passaggio ai posti di blocco, sul diritto di lasciare il Paese, sui doveri verso l’erario, sulle concessioni edilizie e commerciali, la legge è declinata per ceppi d’appartenenza: all’interno dello stesso villaggio ci possono essere tre o quattro profili, tutti col proprio specifico corredo giudiziario. Il profiling della burocrazia israeliana è di parecchio agevolato dalla praticamente nulla mobilità etnica delle popolazioni locali: un maronita non sposerà mai e poi mai un’armena, e un cristiano non venderà mai e poi mai la casa ad un mussulmano. I trasgressori pagano un prezzo salato di fronte alla comunità, e spesso scelgono la fuga. A Gerusalemme, in particolare, dove da sempre si accavallano comunità una sull’altra, tira un vento costante di fobia dell’estinzione e ansia della conservazione che paralizza le varie discendenze in un claustrofobico orgoglio. Così l’impiegato della sicurezza all’aeroporto Ben Gurion, superati i corsi preparatori, può riconoscere l’etnia del viaggiatore semplicemente dal cognome e dal nome di suo padre o dalla gradazione della pelle, e comportarsi di conseguenza. E questo è, per quanto ho visto finora, il risvolto drammatico della giurisdizione etnica: che il comportamento individuale è irrilevante nel determinare il trattamento ricevuto. I vari diritti e doveri nei confronti dello Stato d’Israele e, nei territori occupati, dell’Esercito Israeliano che ne fa le veci, non sono attribuiti in base al comportamento individuale, ma in base all’appartenenza, scardinando alla base il nesso causale tra la condotta individuale e le sue conseguenze. Per quanto le generalizzazioni siano spesso utili scorciatoie, quando adottate nell’amministrare la giustizia fanno venire meno la condizione essenziale della fiducia tra governante e governato, cioè la garanzia per cui se tu, individuo, giochi secondo queste regole, non incorrerai in alcuna punizione da parte dell’autorità. L’esempio per me più pertinente della violazione di tale rapporto fiduciario è la punizione collettiva in seguito ad attentati: il terrorista tendenzialmente non sopravvive l’attentato, ma è prassi comune che nei giorni successivi l’esercito abbatta la casa del medesimo con divieto di ricostruzione. Così non importa se sei un buon padre di famiglia che non si è mai invischiato in politica: se il tuo inquilino del piano di sopra è terrorista da un giorno all’altro tu sei sul lastrico. Concesso l’effetto deterrente della pratica, che come l’intero impianto dell’occupazione è in teoria volto a tutelare la sicurezza dei cittadini israeliani, essa porta comunque con sè una conseguenza devastante: essere o non essere terrorista, sei sul lastrico uguale. In teoria uno può cercare di stare alla larga da personaggi poco raccomandabili così da non affondare con loro – ed è questo uno degli obiettivi della punizione collettiva – ma quando il fenomeno diventa sistema, è difficile sfuggire: non importa quanto tu ami Israele, se vieni da Nablus non passi il posto di blocco; non importa se non hai messo il piede in moschea, se sei mussulmano non puoi trasferirti ad abitare in tal quartiere; non importa se non c’entri niente, se tuo cugino era in manifestazione ti vengono a prendere a casa e ti fai comunque due notti in carcere; non importa se paghi le tasse, se sei beduino non puoi costruirti la casa in cemento. Perso per perso, tanto vale non amare Israele, andare in moschea, scendere in piazza, costruire illegalmente, e così almeno sfogare parte della frustrazione: il profiling, rendendo i cittadini sudditi della loro appartenenza, mina lo loro motivazione all’obbedienza alle leggi e alla sensatezza di cambiare la loro condotta individuale. Le aspirazioni di un palestinese, come anche di un israeliano, sono in gran parte dettate dal gruppo d’appartenenza – con quelle dell’israeliano solo un po’ più rosee e quelle del palestinese decisamente grigie.

Il secondo motivo di rabbia palestinese, a mio parere, è l’incertezza che domina la vita nei territori. A differenza che in Israele, nella West Bank non c’è amministrazione civile da parte d’Israele ma solo militare: gli impiegati sono soldati, gli sportelli caserme, i tribunali corti marziali, le comunicazioni ordini, le leggi decisioni arbitrarie con effetto immediato. Questo non significa solo mezzi blindati e tute verdi, ma anche l’assenza di garanzie democratiche, o perlomeno giuridiche, in base a cui pianificare il proprio agire. Il posto di blocco da passare per arrivare al lavoro potrebbe essere chiuso per motivi di sicurezza, e sempre per motivi di sicurezza è vietato sapere in base a quali considerazioni: potrebbero non esserci; il tale diritto di tale gruppo etnico-religioso può essere revocato ad interim come misura preventiva; tali terre di tal signore possono essere confiscate per un vago “necessità strategiche”. Vivere sotto un governo di perenne emergenza, come è per definizione il governo marziale, vuol dire non poter dare per scontate condizioni basilari dello svolgere una vita organizzata, come i trasporti e la proprietà, ma dipendere dalle decisioni e dai capricci estemporanei di ufficiali spesso di vent’anni, nè avere accesso ad un organismo di giustizia indipendente: gli appelli in corte marziale vengono giudicati dagli stessi comandanti che hanno dato l’ordinanza contro cui l’appello è rivolto, e stranamente nella stragrande maggioranza dei casi vengono respinti. Fare un investimento sul futuro, come aspettare l’autobus all’ora stabilita, comprare un campo di ulivi, iscriversi all’università o aprire una ditta, in una situazione di tale instabilità può essere una scelta incosciente, e tanto più uno ha da investire, tanto più è difficile tenere i nervi saldi quando improvvisamente e arbitrariamente te lo portano via: una volta etichettato come sicurezza, ogni sopruso diventa praticamente inevitabile. Per questo il relativo benessere della popolazione palestinese è anche fonte di maggiore insoddisfazione e quindi, di rivolta. Là dove la legge d’Israele è chiara e certa, per quanto iniqua come nel caso degli arabi israeliani, non c’è malcontento se non superficiale. La domanda da porsi è se tale schizofrenica amministrazione dei territori occupati sia giustificata da motivi di sicurezza e io, dopo anni di arrovellamenti e indagini, credo proprio di no. Il perchè venga perpetrata, dunque, è un interrogativo che suscita in me diverse speculazioni ancora da levigare. Concludendo, mi sembra che la vera violenza del conflitto risieda da una parte nell’applicazione di regolamenti a gruppi la cui composizione non ha niente a che vedere con la condotta e la responsabilità personale ma solo con il loro pedigree, e dall’altra nel fatto che i regolamenti non sono certi ma in continuo, volatile cambiamento, asfissiando lo spazio della progettualità. E che, tra l’altro, il cambiamento pare andare verso il peggio. La combinazione di questi due fattori, più che la mancanza di autogoverno, le condizioni materiali e la violenza fisica da parte dell’esercito, mi sembra perpetri la più radicale ingiustizia dell’occupazione nel non concedere al singolo il frutto del suo lavoro, e credo che ciò, in definitiva, porti l’animo di chiunque all’esasperazione. Per chi abbia interesse nel capire Israele e Palestina e il pasticcio in cui si sono messi, consiglio di cambiare l’immaginario del conflitto dai mitra e il filo spinato in faccia al bambino arabo ad un meno esotico ufficio pieno di carte e mappe, foto, documenti d’identità, firme e timbri, lettere e conti, e uno stuolo di burocrati, avvocati, ufficiali, ragazzini in divisa, tutti intenti a spacchettare il territorio e i suoi abitanti in categorie e sottocategorie, autorizzazioni e ingiunzioni, facendo quadrare eccezioni alla regola e delibere ad hoc sotto la pressione di faccendieri, palazzinari, fanatici religiosi, imprenditori della sicurezza e dell’industria, in un quotidiano contrabbando della giustizia e della legalità con le contingenze di un sistema sociale, politico, economico, fondato sull’occupazione e da essa dipendente.

Post Scriptum

L’incertezza è anche la maggior fonte di preoccupazioni per la popolazione israeliana, per quanto troppo confusa per attribuirla al proprio assetto politico: in assenza di una vera Costituzione, con un sistema giuridico tendente al modello anglosassone dei precedenti e dei giudici-legislatori, con una demografia in continuo mutamento a seconda delle ondate d’immigrazione ebraica, in Israele le cose cambiano drammaticamente e in fretta, come le maree. Mi ha sempre stupito come uno Stato fondato a tavolino da una combriccola di socialisti e sviluppatosi saldamente sotto la loro guida per trent’anni, abbia visto una brutale svolta capitalista nel giro di un mandato politico; di come un popolo  prima ghettizzato e poi simbolo del diritto dell’autodeterminazione si sia ritrovato nel giro di Sei Giorni a dominare e ghettizzare milioni di sudditi; di come l’impronta laica abbia ceduto velocemente il passo ad uno Stato sempre più vicino alla teocrazia; di come interi quartieri e città perdano identità e valore immobiliare nel giro di pochi mesi o anni, quando gli ortodossi l’invadono. In un altro ordine di grandezza temporale e di gravità, anche gli israeliani sono vittime dell’instabilità d’Israele, e chi riesce a formulare dentro di sè il dilemma, se lo pone: c’è davvero da investire gli anni migliori della mia vita in questo Stato, che domani potrebbe lasciarmi con in mano un pugno di cenere? Voglio davvero far nascere qui i miei figli, senza garanzie su come sarà il contesto in cui cresceranno? L’interrogativo è tanto più stringente quanto più ci si rende conto del sacrificio spropositato che lo Stato chiede ai suoi. Tra gli incontri fatti qui, non c’è personaggio più tragico del kibbuznik, nuovo ebreo di una nuova era umanista e giusta, consumato da una vita dedicata alla causa, che si accorge, ormai vecchio, di come il sogno sionista abbia preso la strada opposta a quella che aveva creduto di dargli, a quella che gli avevano raccontato di dargli. Prima infatuato, poi tradito, beffato e sconfitto, per lui è troppo tardi per ripartire e rifare il nido in climi più miti, ma per la generazione dei suoi nipoti disertare questa scommessa pericolosa è sempre meno un tabù.

Quel tassello che si chiama sheket

Anche a chi come me non s’interessa di cronaca nera, gli attentati degli ultimi giorni hanno un po’ guastato l’appetito. Te lo guastano i posti di blocco ad ogni angolo, con mitra in bella vista fuori dai camioncini blindati, gli elicotteri sempre in cielo come i palloni aerostatici che sorvegliano giorno e notte i quartieri arabi, le sirene e le luci blu che ti tagliano la strada agli incroci, i blocchi di cemento a proteggere le pensiline del tram da attentati “d’investimento”. Passando in bici, sudando in salita o volando in discesa, questo paesaggio da film d’azione mi scivola davanti agli occhi in un quadro surreale: cosa potrà mai succedere per giustificare un tale smobilitamento di forze? E invece succedono cose orribili qua e là per la città: accoltellamenti, investimenti, sparatorie, linciaggi. Questi però non li vedi in strada, ma li scopri dai telegiornali e dai discorsi concitati della gente al telefono: “Ne hanno ammazzati quattro, durante la preghiera!”. Pensi all’ultima volta che sei passato dal luogo dell’ultimo attentato: qualche giorno o qualche ora fa. E’ facile ed eccitante farsi suggestionare: “E se fossi…”. Ma le statistiche sono chiare: anche sommando i missili da Gaza, gli attentati non sono una minaccia più reale degli incidenti d’auto o degli infarti. Non è la probabilità di finirci dentro che spaventa, ma l’efferatezza: c’è un discreto numero di persone pronto a morire per infilare un cacciavite in pancia a uno sconosciuto, nella speranza che sia ebreo e che muoia dissanguato prima di arrivare in ospedale. Si sa, la polizia li ammazza sul luogo come cani: nella prassi non è previsto l’arresto per terrorismo, ma l’abbattimento immediato. A vedere i video di sorveglianza, fa quasi più paura la reazione dei soldati che degli attacchi stessi: esecuzioni a bruciapelo. Il ministro della sicurezza lo ha ufficialmente dichiarato: “La pena per il terrorista è la morte immediata”. Nessuno in sala gli ha fatto notare che ciò è contro la legge, pure quella israeliana.

Percepisco lo scatto di quello stesso interruttore che era scattato durante la crisi di Gaza, di paura e follia vendicativa senza una logica, senza un progetto, senza una riflessione, senza pietà. Ma questa volta, a Gerusalemme, la follia è attorno a noi, letteralmente. Giocando a pallavolo a Gan HaPaamon, un chilometro in linea d’aria dai quartieri arabi, gli elicotteri e i sommessi boom ci accompagnano ormai da un mese: non commentiamo, non chiediamo, non ci preoccupiamo. Per quanto ne rifuggiamo, a volte la realtà viene a prendere noi: qualche settimana fa, usciti dal campo per tornare a casa, la strada era invasa dalla polizia. Scena del crimine: c’era appena stato l’attentato omicida al centro Begin. Arrivato a casa, gli elicotteri non ci hanno dato tregua: alle 5 del mattino avevano già individuato e abbattuto il sospetto dell’omicidio, sul tetto di casa sua nel quartiere Abu Tor, a due vie di distanza da casa nostra. Lo sono andati a prendere la notte stessa, lui li ha sentiti arrivare ed è scappato sul tetto, ha sparato all’impazzata, poi l’elicottero lo ha mitragliato. Non hanno chiamato l’ambulanza e non hanno lasciato avvicinare nessuno, è morto dissanguato raggomitolato dietro il boiler dell’acqua calda. Pochi giorni dopo la polizia ha diramato l’ordine di abbattere casa sua, con tutta la palazzina di quattro piani: la faranno esplodere nei prossimi giorni e si aspetta guerriglia urbana. Così funziona qua: il sospetto viene di fatto condannato a morte senza processo, viene stanato e inseguito in un quartiere pieno zeppo di civili e lasciato agonizzare a termine di una sparatoria alla James Bond. Poi casa della sua famiglia, dei cugini o dei malcapitati vicini di casa viene fatta saltare. Il mandato di sgombero e demolizione non viene diramato da un tribunale, non viene giustificato in termini di giustizia o deterrenza nè davanti alla legge nè davanti all’opinione pubblica: è una prassi poliziesca, per così dire. Così è per ogni attentato, questo è il rito. Molto pochi israeliani lo sanno, ancora meno se ne interessano, praticamente nessuno lo condanna. Cos’è più efferato? L’atto folle di un singolo o l’esecuzione sommaria e la punizione collettiva di un sistema? “La pena deve guardare al bene futuro e non al male passato”, diceva quello nel ‘700. Qui tira di più Hammurabi.

La società israeliana, di cui parlo perchè è quella che conosco, non ha scampo. E’ irretita in un circolo diabolico per affossarla ed imbruttirla, e questa è la china che ha preso dal primo giorno dell’occupazione. Qualcuno lo scrive con gli stencil rossi sui muri di Gerusalemme: “Leibovitz zadak”, aveva ragione, e altri gli rispondono in blu “Kehane zadak”.
Tutto comincia con l’indifferenza di gomma di chi, come i più, non vuole aver grattacapi ma un modesto sheket, silenzio. Facciamo come se Gerusalemme fosse Roma o Parigi e Israele gli Stati Uniti: progresso e benessere, va tutto bene. Usciamo a teatro, mangiamo in raffinati ristoranti, suoniamo buona musica, facciamo ricerca, produciamo efficienza. Quel che succede dall’altra parte del Muro non è roba di cui si parla con piacere. Se ne parla da spacconi, degli scherzi che si facevano ai vecchietti arabi ai posto di blocco in lunghe e annoiate giornate di guardia a diciannove anni, o non se ne parla affatto. Non si parla di quei vecchi come di persone alla pari, neanche per scherzo. Non si parla dei diritti, sacrosanti e inviolabili per gli israeliani, inesistenti per una fetta di popolazione da qualche milione sotto il dominio militare israeliano: dei sudditi d’Israele, in Israele, non si parla mai. Delle loro sciagure, dell’ingiustizia della loro condizione e del loro terrore di perdere tutto, fino alla dignità, per il vezzo di un arrogante ragazzino in divisa.

Ma a volte, e con regolare ciclicità, i sudditi alzano la voce per fare i loro reclami, disturbando le attività di ordinaria civiltà dei cittadini israeliani che non essendo sudditi possono dedicarsi a costruire case, a farsi un’istruzione, a viaggiare, a leggere, a lavorare, a giocare, e con un discreto successo. I sudditi alzano la voce nel modo tipico di chi non studia, non viaggia, non legge, non lavora: violenza brutale e disorganizzata, sfoghi di rabbia illogici e ingiusti. Questo è il momento in cui gli israeliani aprono una finestrella su quel che accade al di là del Muro. E cosa vedono? Violenza contro civili, ma nella concitazione del momento vedono solo quello contro di loro. Non è un bello spettacolo, era meglio non vedere. D’altra parte, non puoi mica continuare a giocare come niente fosse quando i boom ti entrano in campo. In questo momento scatta l’interruttore: non siamo più a Roma o Parigi, negli Stati Uniti o in Germania, ma siamo improvvisamente nel Far West coi predoni alle porte, impegnati in prima fila contro il terrorismo islamico intriso di antisemitismo, tutti uniti a respingere i nemici che ci odiano chissà perchè. Compaiono i blocchi di cemento in strada, i mitra, gli elicotteri, i Presidenti del Consiglio a fare discorsi da Armageddon, le esecuzioni sommarie e le punizioni collettive.

Io prendo l’israeliano in buona fede: chissà perchè? – si chiede – ci odiano davvero tutti…e sempre ci odieranno! Dal suo punto di vista tutto ciò non ha una logica: stava bevendo un pacifico tè quando il ristorante è saltato in aria. Perchè la violenza rientri in una logica gli manca un tassello del mosaico, quel tassello che si chiama sheket: in quel breve periodo di tranquillità in cui sorseggiava il suo tè, al di là del Muro l’inferno è continuato a sua insaputa. Nessuno gli ha raccontato di come se la passavano i sudditi, quanta merda ingoiavano e quanto odio accumulavano, quanta efferatezza elucubravano e quanta vendetta desideravano. Prendi Gaza: è stata la parola più importante per un’estate, e adesso è pressochè sparita dalla bocca degli israeliani. Nessuno si preoccupa di quel che accade laggiù: tutti si accontentano di godersi il meritato sheket. Potrebbero essere in corso orribili soprusi ad opera di forze oscure, e magari anche d’Israele, che porteranno inevitabilmente ad un ritorno di fiamma di Hamas e quindi ad un’imminente fine dello sheket, e l’israeliano non ne ha la minima idea. Come se non fosse più un suo problema, come se non lo fosse mai stato.

Una volta arrivati ai ferri corti, la risposta dei leader israeliani è il pugno di ferro contro questa “incomprensibile violenza”, quando pure sanno benissimo cosa l’abbia innescata. La situazione d’emergenza viene gestita con le misure holliwoodiane già descritte, come se si potesse prevenire ogni modalità di attacco. Speranza illusoria, quando ormai il nemico si è ridotto a fare gli attentati con cacciaviti e furgoncini. Ieri si è discusso se mettere posti di blocco permanenti ai villaggi arabi di Gerusalemme, mentre per ora sono solo temporanei: nei giorni caldi li chiudono tutti dentro, semplicemente. Nessuno entra e nessuno esce finchè non si calmano le acque e torna lo sheket. Anche ieri non si è discusso della giustizia di tali misure, cioè di presunzione d’innocenza, libertà di movimento e punizione collettiva, ma della loro efficacia: gli arabi lavorano ovunque quindi, alla lunga, bisognerà lasciarli uscire, quindi se vorranno potranno investire e accoltellare a piacimento. Come fare? Pare che la sicurezza israeliana si sia scontrata col suo limite: palloni aerostatici, intelligence e posti di blocco possono fermare le bombe e forse le pistole, ma non il cacciavite di un muratore e la chiave inglese di un idraulico. Se queste sono le armi della terza intifada, l’unico modo per tenerle fuori dalla portata di ebrei è tenere gli arabi fuori dalla portata degli ebrei. Così è in area C in West Bank, ma estendere il sistema anche solo a Gerusalemme è un impegno a lungo termine, non una misura d’emergenza. Per iniziare, hanno messo sotto scorta gli ortodossi che hanno recentemente rubato le case di arabi a Silwan e Sheik Jarrah: ora girano per il quartiere arabo con la guardia del corpo armata, tutto a spese dei contribuenti siano essi fondamentalisti religiosi, atei o arabi. La vera domanda è quanto terrore possano innescare cacciaviti e chiavi inglesi…ma questo è in larga parte fuori dal controllo dei governanti.

Quel che queste misure comportano sicuramente, e così chiudiamo l’anello diabolico, è l’ulteriore imbruttimento della sicurezza, politica, società e psicologia israeliana: ancor più violazioni, più soprusi, più umiliazioni sui sudditi, questa volta non solo come deterrente collettivo ma anche come vendetta privata. Quello che mi piacerebbe mostrare agli israeliani è come il terrorismo, se così gestito, degradi moralmente tanto il carnefice quanto la vittima: ciò che era sbagliato fare ai palestinesi prima degli attacchi diventa giusto dopo, in un circolo self-reinforcing di oppressione-terrore-più oppressione. Così, giro dopo giro, in quarant’anni l’occupazione ha reso i sudditi bestie in gabbia e i governanti gelidi aguzzini, incapaci di commuoversi per la sofferenza che infliggono. Quelli tra loro che se ne accorgono inorridiscono, si crucciano e spesso scappano dal Paese verso l’Europa e gli Stati Uniti, il vero sheket.

Come sempre, cui bono? Chi guadagna da questo circolo autodistruttivo? Come sempre, può l’ignoranza essere una giustificazione? Si può essere colpevoli senza essere cattivi? E come sempre, non è tanto quello che vedo che mi turba, quanto quello che non vedo: non vedo un limite a quel che Israele sarebbe disposto a fare per conservare una parvenza di normalità, l’agognato sheket. E il non porre un limite ai mezzi legittimi per ottenere il fine è quel che contraddistingue i terroristi, non gli Stati di diritto.

Due ulivi e una colomba

Atto I

Appartamento in affitto in Abu Tor: tre camere da letto, due bagni, salone con terrazzo, giardino, parcheggio privato, a due passi dalla vecchia stazione degli inglesi: 5500 shekel al mese. Le foto dell’annuncio mostrano una vista mozzafiato sulla foresta di pini marittimi e cipressi bruscamente interrotta dalle colline desertiche solcate dai sentieri dei pastori, là dove le piogge finiscono. Siamo in centro Gerusalemme, ma affacciati su Gerusalemme Est, l’altra Gerusalemme. La sera in cui firmiamo il contratto siamo eccitati per aver fatto l’affare dell’anno, e così mi precipito in giardino ad annaffiare le rose, i limoni e gli aranci assetati dal sole di luglio. I due giovani ulivi, invece, sembrano trovarsi a loro agio nell’arsura estiva. E’ il crepuscolo, le luci gialle delle case si perdono nella valle, le luci verdi dei minareti svettano da dietro il Muro che fa una larga ansa dritto a est, sullo sfondo delle alture giordane. Alla luce della sera di ora che scrivo, il bagliore rosso dei deserti mi riporta a malinconicamente a Yotvata, fuori dal tempo e dallo spazio.

Sto quindi annaffiando il primo ulivo, quando Gaia si affaccia e mi dice: “Lorenzo, vieni. Subito”. E’ tesa, è successo qualcosa. La seguo in corridoio, nell’androne, usciamo. Davanti a casa c’è un crocchio di ragazzi, parlano in arabo con Majd, il ragazzo di Gaia. Arturo, in piedi in stato di shock, balbetta che qualcuno ha appena provato a bruciare la macchina di Majd. Il cerchione è affumicato, ma niente danni seri.

“E’ passato un tizio in macchina, ma non sanno chi sia – ci traduce Majd – ha lanciato una bottiglia di benzina e ha proseguito in giù verso il quartiere. Hanno provato a intervenire, ma meno male che sono uscito per prendere il telefono che avevo dimenticato in macchina!” E indica il davanzale di fronte, dove un vecchio arabo ben vestito sta arrotolando una misera canna dell’acqua: non una goccia è arrivata alla macchina di Majd. “Sono ragazzini, lo fanno sempre – continua la traduzione del racconto dei tre ragazzi arabi – vengono giù da Silwan, il villaggio povero. Sai, per tutto il casino di Gaza…c’è tensione. Voi siete nell’ultimo palazzo ebraico prima del quartiere arabo, ma qui noi non voglino problemi, dicono, sono quelli del quartiere basso. Son ragazzi, niente di organizzato”.
Gaia è isterica, gira attorno gridando che ammazzerà il padrone di casa: “E quello stronzo non ci ha detto niente! Abitiamo in un insediamento e neanche ce lo dice! Bastardo! Qui ci fanno la gola! Io lo uccido! Lorenzo, chiamalo subito e digli di venire qui, immediatamente che annulliamo il contratto!”. E Arturo rincara, la voce fioca e lo sugardo perso nel vuoto: “Lo sapevo che c’era l’inculata…una casa così…5500 al mese…non era possibile…ci doveva essere l’inculata…”

Inanto Majd continua a il discorso, Gaia ci traduce per quel che può: “…gli sta dicendo che viene da Issawiya, che siamo gente a posto, italiani…che non siamo ebrei”. Arturo fa per aprire bocca, poi tace: lui è ebreo. Lascio i discorsi concitati e le grida di sfogo e vado a citofonare alla vicina. Mi presento, sono il nuovo vicino…da 40 minuti. La signora è francese, minuta, fragile: “E’ sempre così! Tirano pietre, insultano, tirano vernice, vieni a vedere!”. E mi porta fuori: sulla facciata in pietra bianca in effetti c’è una strisciata di vernice nera, proprio sopra l’ingresso. “Andatevene subito, annullate il contratto. I miei amici non mi vengono a trovare qui, hanno paura, io esco di casa con la testa bassa e a passo veloce. Io me ne vado tra un mese, non si può vivere così.”

Salgo le scale verso gli inquilini del piano di sopra, e invece mi sento sprofondare sempre più in basso nello sconforto. Dlin-dlon….apre una signorotta in carne, truccata con capello tinto biondo, scura di carnagione. Sorride, è una pimpante ebrea mizrahit, di origine orientale, penso marocchina. Non mi fa neanche aprir bocca, attacca lei: “Quindi siete i nuovi arrivati, benvenuti! Quanti siete? Ah, tutti ragazzi giovani, che bello! Per me siete come figli: per qualsiasi, qualsiasi cosa venite su. Sai, ho due figli ma ormai sono fuori casa…e come va? Affittate da Aaron? Tutto bene?” Al che faccio una smorfia d’indecisione e le spiego l’episodio: “Quindi ora stiamo cercando di capire coi vicini…”

“Lascia perdere i vicini – m’interrompe – sono dei loro. Cioè, non sono loro i responsabili, ma neanche si espongono più di tanto: non vedono mai niente, non sanno mai niente. In fondo, sono anche loro arabi. Ma non ti preoccupare, capara, non è niente, sciocchezze! Qualche pietra, della vernice. E’ per via della guerra a Gaza, passa tutto. Io è da venticinque anni che abito qua, ho cresciuto qui i miei figli ed è un posto magnifico.  Danni alle cose, poca roba. Paga l’assicurazione.”
“E quanto alle…persone?”
“Assolutamente tranquillo. Tu esci di casa, i ragazzini ti diranno Shalom-shalom e vorranno attaccar bottone, grideranno qualcosa, tu rispondi Salam Alekum e vai dritto, neussun problema. Ma non dare confidenza….”
La ringrazio e saluto. “E per qualsiasi cosa, io sono qui per voi!”

Torno giù, la discussione imperversa sul perchè e il per come, si sono aggiunti anche i ragazzi del monolocale con giardino sotto il nostro e dicono che per loro non ci si abitua, sono scaramucce. Infine Majd congeda i tre ragazzotti, che gli assicurano di mettere in giro la voce che “siamo gente a posto”. Cioè, abbiamo la protezione di un arabo, perdipiù di uno quartieri più duri di Gerusalemme Est. Rientriamo in casa, completamente vuota perchè ancora da arredare, ci sediamo sul pavimento di marmo a pensare cosa fare.
Arturo propone di costringere Aaron ad aggiungere una clausola di uscita dal contratto con due mesi di anticipo, in caso di problemi di sicurezza. Gaia è incontenibile, mi obbliga a chiamare Aaron di casa che non ne vuole sapere di venire e ci dice che è tutto a posto, che non c’è da preoccuparci. Dice che la protezione di Majd non basta, che il problema per gli arabi è il palazzo, non i coinquilini. Majd ci spiega che suo cugino è il mukhtar di Issawiya, tipo un capo banda che organizza gli atti vandalici di resistenza politica, e che gli chiederà di sistemare la questione col mukhtar locale. “Ma se scoppia la terza Intifada, voi siete in prima linea”, aggiunge.

Atto II

Sono passate due settimane, con la zia Lula e Simo stiamo recandoci a casa, per passarci la prima notte. Portiamo con noi la prima ondata di trasloco dalla casa vecchia. Saliamo a sinistra da Derech Hebron per Rehov HaGikhon, passiamo il ricco quartiere ebraico residenza di illustri inviati ONU e EU, e superato lo spiazzo di collina brulla con quattro ulivi selvatici arriviamo al parcheggio privato della nostra palazzina: la palizzata in legno del cancello automatico in stile fortino nella prateria non sembra più fuori luogo. Saranno 30 metri di distanza dal resto del quartiere, ma bastano a cambiare nazione: di fianco a noi e davanti a perdita d’occhio fino al deserto sono solo boiler dell’acqua neri sui tetti delle case cubiche, minareti, insegne in arabo, bambini che giocano in strada, macchine scassate, sporco, donne velate. Visto lo scollinamento, anche il muezzin si sente più forte. Accecati dallo splendore della casa, né io né Arturo, militante di sinistra, né Gaia, lavoratrice in progetti di sviluppo per la Palestina, ci eravamo accorti di trovarci dall’altra parte. Facciamo per entrare in casa, e ci troviamo davanti al portone una macchina completamente carbonizzata. I vetri dell’ingresso infranti, altra vernice nera sui muri. La zia mi prende e mi dice che non posso abitare qua, che non me lo permette. Simone ride per sdrammatizzare. Stiamo sistemando gli scatoloni in casa quando sentiamo la risata dell’inquilina di sopra: è sul piazzale davanti a casa in vestaglia, sempre truccata, e scherza sull’accaduto con il meccanico che è venuto col carro attrezzi a rimuovere quel che resta della macchina: “Ma sì dai, tanto era di mio marito! – e ride – L’assicurazione paga, cik-ciak ed abbiamo la macchina nuova.” Mi saluta e sempre ridendo, in vestaglia davanti al quartiere arabo che la osserva da dietro le tende di casa, aggiunge gridando: “Loro la bruciano? E io ne ricevo una nuova!”. La zia anche si mette a ridere e commenta: “Che donna, che nervi. Al posto di chiamare vendetta, ridi! Perchè far la guerra?” Idole indiscusse della giornata, entrambe. Io e Simone, nel dubbio, ridiamo. Stiamo sistemandoci per la serata, quando dal terrazzo vediamo ragazzini avvolti in kefiah lanciare pietre in Rehov Naomi, probabilmente verso una camionetta di soldati. Botti di petardi, insulti in arabo, cassonetti bruciati. Nessuna contro offensiva. Solo più tardi, calmatesi le acque, arriva un camion dei pompieri a spegnere tutto.
Nei giorni successivi cambiano i vetri rotti della facciata e vengono con la pistola d’acqua a pressione a lavare la vernice dal muro e la plastica bruciata dal piazzale, l’estetica rinorna alla normalità. La vicina mi confessa che fino a tanto non si erano mai spinti, e che adesso sia i soldati che un’agenzia di sicurezza privata fanno le ronde, finchè non si calmano le acque. A Gaza la guerra imperversa, e per non rischiare noi parcheggiamo la macchina all’inizio della via.

Atto III

E’ già da un mese che ci siamo trasferiti nella casa dei sogni, e per ora non abbiamo avuto incubi. L’abbiamo arredata, riempita di cose e persone, ed è già nostra. Ci siamo assicurati di non essere un insediamento: il confine del ’48 passava dopo il nostro terrazzo, letteralmente. Abbiamo rivisto i ragazzi arabi del vicinato, parlano un ottimo ebraico e lavorano in Israele, abbiamo una partitella di calcio in sospeso nel campetto del quartiere. Abbiamo compreso l’inusuale  calore dei vicini, tutti, come naturale spirito di coesione per affrontare il senso di assedio: se loro son dei loro, noi siamo dei nostri, quindi veniamoci incontro. Il muezzin ritma le nostre giornate, alla sera i pastori riportano il gregge all’ovile nella collina di fronte. I petardi quotidiani di ragazzini annoiati fanno scappare le colombe che hanno nidificato sul condizionatore in cima al palazzo, e che ci sgagazzano sul terrazzo. Il venerdì, sono veri e propri fuochi d’artificio: non avendo più kalashnikov, così gli arabi festeggiano i matrimoni. Ogni tanto gruppi di coloni vagano per le vie del villaggio arabo scortati dall’esercito, pregano a squarciagola di tanto in tanto lanciando insulti. Per il loro passaggio bloccano il traffico e nessuno può scendere in strada neanche a piedi.

Aaron vuole vendere casa, e ogni tanto piomba qui con potenziali acquirenti. Recentemente una francese si è innamorata del posto e noi, a malincuore, la capiamo: se la compra, noi abbiamo le ore contate. E’ venuta a trovarci senza Aaron, ma portandosi dietro la figlia diciannovenne, che è soldato. “Parliamo dugri, schietto – ci fa – c’è da aver paura?” Siamo in giardino al crepuscolo, il muezzin canta e le stelle iniziano a comparire, la calma avvolge ogni cosa in un vento leggero. Io e Arturo ci scambiamo uno sguardo, indecisi sulla strategia. Finisce che le diciamo la verità, a questa piccola francese come noi volenterosa di convivenza e pace. “Il quartiere è difficile, la situazione non è stabile. Siamo un sismografo: quando qualcosa si muove in profondità, noi sentiamo la scossa, forte e chiara. Ora è tutto tranquillo, perfetto, ma domani potrebbe cambiare.” In cuor nostro, speriamo che i bambini sparino qualche botto e lancino qualche grido adesso, e invece tutto continua a tacere. Le raccontiamo degli episodi passati, condividiamo con lei le nostre preoccupazioni: “Abbiamo fatto aggiungere una clausola di recessione dal contratto in caso di emergenza. Per noi è facile stare qui, siamo affittuari. E non abbiamo figli…che torneranno a casa in divisa.”
“E’ un dilemma – conclude lei – Se ci arrivassero gli accordi di pace, questa casa triplicherebbe il proprio valore. Ma se la politica continua su questa china…”

Tornati in casa scherziamo con amici sulla visita della francese, e su come non farle comprare casa. “Vedi, dovevamo pagare qualche ragazzino per bruciare un cassonetto mentre lei era qui!” Ridiamo tutti, poi improvvisamente si tace, pensierosi: ci vuole davvero così poco a fare la guerra? La risposta è univocamente sì, basta così poco perchè funziona: la paura, il rischio, l’odio fanno anche il prezzo delle case, e così orientano le scelte razionali delle persone. Con una battuta, noi pacifisti ci rendiamo conto di essere in condizione di avere grande interesse nella violenza. Manipolando la paura manipoleremmo le scelte di terzi, in nostro favore. E cosa ci vuole? Per 50 shekel un ragazzino arabo dei quartieri bassi ti brucia ben altro che un cassonetto.

Guardandoti intorno e vedendo le assurde piaghe del conflitto, lasci per un attimo la retorica narrativa nazionalista israeliana e imbracci il sano egoismo razionale italiano, e finalmente molte cose assumono un senso, una profilo: il capillare conflitto d’interessi di una società, una politica ed una economia troppo abituate a fare i conti con la guerra, a metterla come voce di bilancio. Chiunque può trovarsi ad avere interessi diretti nel conflitto, e chiunque può generarlo. Se fossi un costruttore di palizzate in legno per parcheggi privati, se fossi il direttore di un’agenzia di sicurezza privata, se fossi un politico in cerca di coesione sociale, se fossi un palazzinaro delle super protette colonie ebraiche in Palestina, se fossi uno studente che non vuole esser buttato fuori di casa, quanto mi farebbe comodo la strategia della tensione? Un cassonetto bruciato val ben una casa. E un arresto? Uno sfratto? Un ordine di sparare ad altezza uomo? Un rapimento di ragazzini innocenti? Il meccanismo è micidiale. Questa è ora la dimensione della mia quotidianità, lo sperare nella tensione controllata, il rischiare col fuoco prima di tutto con la tua integrità, sempre sul baratro del compromesso: un cassonetto sì, una coltellata no. Questo è vero per me, affacciato sul confine con Gerusalemme Est, ed è vero, troppo vero, per il sionismo contemporaneo che è troppo capace di manipolare la tensione. Come si può resistere?

Post Scriptum

Atto IV

Ieri Aaron è venuto a risquotere l’affitto mensile, accompagnato dalla francese con marito. Hanno fatto il giro per la casa, guardato le stanza. A un certo punto cedo e la butto lì: “Aaron, parliamo di sicurezza. Venerdì ci sono stati scontri in città vecchia, i soldati hanno ucciso un ragazzino palestinese di 13 anni. Lo stesso giorno ci hanno tirato pietre sul terrazzo.” E li porto a vedere i sassi appositamente lasciati sul posto in cui sono atterrati, sulle cacche delle colombe. “Magari sono caduti dal tetto…” azzarda Aaron. “Sono arrivati anche in giardino, e qui sulle inferriate c’è il segno di dove hanno colpito. Sono arrivati da Rehov Naomi”. Tutti tacciono, i due borbottano qualcosa in francese. Al chè, rompendo il silenzio, Aaron li porta a vedere il piano di sotto.

Non abbiamo pagato nessuno per lanciarci le pietre, ma avremmo potuto farlo.
Non abbiamo messo noi ad arte le pietre sul terrazzo e in giardino, ma avremmo potuto farlo.
Abbiamo solo fatto notare l’accaduto, ed ha funzionato. Forse avremmo potuto semplicemente raccontarlo senza lasciare le prove, ma questo avrebbe coinvolto la nostra credibilità, come quando leggiamo le notizie su internet o ascoltiamo il tg. Quel che mi turba è che in cuor nostro abbiamo gioito del lancio di pietre: è stato un compromesso ragionevole. Quindi mi chiedo, se le pietre avessero rotto i vetri, sarebbe stato ancora un compromesso ragionevole? Fino a dove saremmo capace di spingere i mezzi, pur di ottenere il nostro fine? Non lo so, e questo fa paura.

Ti guadagnerai il pane col sudore della fronte

L’annuncio recita: “Azienda avviata cerca impiegati per diverse posizioni: rappresentanti, centralinisti, insegnanti, formatori. No vendita. No mediazione”. La gentile centralinista spiega che si tratta di formazione e supporto clienti per un prodotto altamente tecnologico: lavoro part time o a ore, a seconda delle esigenze, paga ben più alta del minimo di legge. Sembra ottimo per uno studente squattrinato. Se ti interessa, vieni alla presentazione di mercoledì alle 16.00, in via HaPisgah 8. Il centro congressi è pulito e anonimo. Al primo piano una signora con parrucca prende in nomi e chiede da chi siamo stati invitati. Guardandomi in torno vedo solo completi neri e camicie bianche, kippah nere, gonne e maniche lunghe, parrucche: sono tutti, ma proprio tutti, ortodossi hardcore. Le sedie in sala sono divise da un corridoio centrale: gli uomini siedono a destra, le donne a sinistra. Nel corridoio quattro lavagne di alluminio impediscono la vista tra una navata e l’altra: che non si induca in tentazione il timorato di Dio. Il proiettore è acceso su un grande logo DGL Cosmetics Paris. Mi siedo in ultima fila. Finalmente il presentatore entra, completo nero kippah nera camicia bianca, e si piazza in piedi a fondo sala, in linea con le lavagne: senza vederci, sia uomini che donne lo vediamo. “Per prima cosa vi presenteremo il problema, poi la geniale soluzione che abbiamo trovato”. E parte con le diapositive. Il problema pare essere l’inquinamento globale, dall’effetto serra al DDT, per le pessime conseguenze che ha sulla pelle del volto. Eh già, mie care signore. Infatti le tossine nell’aria e nel cibo che mangiate fanno morire le cellule, spuntare le rughe, invecchiare il vostro aspetto. E’ proprio vero: è tutto documentato da fotografie e clipart su sfondo azzurro. Fortunatamente gli studi Swartz di Parigi hanno trovato la soluzione nel quintuplo principio attivo di piante esotiche, racchiuso in questo elegante pacchetto porpora. A mezzora dall’applicazione della crema, il risultato sarà un shock. La vostra incredulità dimostra quanto incredibile sia la nostra tecnologia.

La spiegazione è artatamente confusa, il filo logico attorcigliato. En passant, due dirigenti dei laboratori sono ebrei: non sia mai che lavoriamo per i gentili.

Ma ora passiamo al vostro lavoro: non si tratta di vendere, non si tratta di convincere. Si tratta di trasmettere informazioni. Il vostro numero di telefono verrà stampato su questo facsimile in cui tutto è scritto e vi verrà mandato via posta elettronica. A voi la scelta di quante copie stampare e dove appenderle. E sventola una copia dell’annuncio a cui tutti abbiamo risposto. Questa invece è la lista di informazioni che dovete trasmettere: 11 punti. Saranno le persone a chiamare voi, voi risponderete e seguirete l’ordine dei punti: come ti chiami, da dove chiami, che professione fai, …, dove ti è più comodo partecipare alla presentazione. Per ogni persona che vi contatterà e che andrà alla presentazione e si iscriverà, voi guadagnerete 900 shekel. E per aver fatto cosa? Risposto ad una chiamata di tre minuti. Non male. E non finisce qui: per ogni persona che si iscrive tramite la persona che voi avete fatto iscrivere, guadagnerete 100 shekel. Ecco a voi Avner, un testimone: dicci, Avner, quando sei entrato nella nostra azienda? Due mesi fa, ottimo. E quante persone hai fatto iscrivere? Una a settimana, eccellente! E loro hanno fatto iscrivere a loro volta? Ah sì, una media di due persone a testa?! Fatevi due conti in tasca, signori. In questo prospetto che vi abbiamo preparato sulle slides, con un impegno di mezzora a settimana potete tranquillamente arrivare ad un indotto di 386 mila shekel all’anno! Vedo la mano alzata di un ragazzo in ultima fila: non ora, domande alla fine prego.

Eppure alla fine non c’è spazio per domande, ma ci si divide in tanti gruppetti ciascuno diretto da un rappresentante esperto, mantenendo la rigorosa distinzione tra sessi. Io capito col capo, e la domanda mi bolle in petto come il sangue al cervello che mi è salito nella sua mezzora di sproloquio. Belle le foto del prima e del dopo la cura che ci fai passare sotto gli occhi, davvero una cremina miracolosa.“Ma dimmi, com’è che guadagnerei 900 shekel senza fare assolutamente nulla?”
“Ma come, certo che faresti qualcosa! Passeresti informazioni”.
Sogghigna il mio vicino, uno studente d’ingegneria di un istituto religioso del centro: “E poi scusa, non ti va di guadagnare facile?”
“Nessun problema a guadagnare facile, purchè guadagni il prezzo del servizio che erogo. Qui vendiamo aria, in forma di una iscrizione all’albo dei rappresentanti dell’azienda. Che facciano cosa? Portino altri rappresentanti dell’azienda che…”
E l’ingegnere di nuovo incalza: “Ma a te cosa importa, finchè ti arrivano i soldi”
“Sì, ma vorrai anche fare un lavoro onesto, oltre che i soldi, o anche solo un lavoro nel vero senso della parola…”
“Certo certo certo – taglia corto il presentatore che da vicino ha dei denti mostruosamente gialli e bavosi, e nei suoi occhi già cattivi saetta un baleno di puro odio – se volete parlare potete accomodarvi fuori. – E facciamo silenzio. Quindi prosegue con un sorriso tirato rivolgendosi a me – Se vendessimo aria, sarebbe un lavoro disonesto, ma qui non vendiamo aria. Infatti, con l’apertura del punto di connessione – così chiamano la quota d’iscrizione all’albo dei rappresentanti – si ricevono delle confezioni del prodotto che possono essere vendute…”
“O buttate via – lo interrompo – Ma comunque io, in quanto buttadentro, intasco i miei 900 shekel dall’iscrizione. Questo è ciò che conta. Si può dire che le confezioni siano un…omaggio di benvenuto nella grande famiglia. O, più  in generale, si potrebbe dire che gli interi laboratori Swartz siano una montatura per coprire quello che è il vero prodotto, l’iscrizione all’albo, e il vero cliente: noi adesso. Da domani, una volta pagata la quota d’iscrizione, allora forse potremo dire di essere lavoratori. Ma qui a questo tavolo, adesso, siamo per te una mazzetta di soldi ambulante. – Mi guarda esterrefatto – Piuttosto, a quanto ammonta questa mazzetta? Quanto ci costa l’iscrizione? Se il venditore di prima mano fa 900 e il secondo rivenditore 100 e così via riducendo fino al quinto rivenditore, sarà sicuramente più di 1500 shekel, perchè vorremo pur dare una mancia al grande presentatore, ai suoi segretari e ai suoi avvocati che sicuramente deve pagare per non finire arrestato per frode…no?”

Avrei voluto essere così dirompente e teatrale, istrionico. Ma purtroppo, complice la rabbia e l’ebraico, mi limitai ad un misero “Io non lavoro così, mi spiace. Non vendo una licenza per vendere se stessa. Nè la compro”. Una stretta di mano e un’alzata di spalle, salvo poi voltarmi appoggiarmi al tavolo e inclinarmi verso di lui fissandolo negli occhi e intimando: “Questo sistema è legale, vero?”.
Rosso in viso, coi pugni chiusi, mi lascio alle spalle quella massa di zombie ottusi e opportunisti impinguinati nelle loro kippah e parrucche. Così gli uomini di Dio, per l’ennesima volta, si fanno beffa degli uomini.

PS

Stanno accoccolati sui sedili dell’autobus di fronte a me. Si tampinano e rubano la kippah srugah, ricamata, in continuazione. Quello di sinistra, scuro di carnagione, chiede se quello là, sì, quello là in piedi davanti alla porta, non sia arabo. “Tu odi gli arabi?” chiede di punto in bianco l’altro.
“Sì”, risponde senza problemi il primo.
“Io no. Non li amo, ma neanche li odio”.
L’altro lo guarda scettico. Allora prosegue:
“Io sono di sinistra” fa come per spiegarsi, e poi asserisce: “Il popolo d’Israele è di sinistra”. E con questo chiude la conversazione. Ricominciano a tampinarsi.

Avranno dieci anni, torneranno a casa dal dopo scuola. Il secondo scende alla fermata della stazione degli inglesi, da fuori si attacca al vetro dell’autobus e fa capire che correrà all’altezza dell’amico mentre l’autobus riparte. Si toglie la kippah e la mette in tasca, l’autobus riparte e lui comincia a correre ridendo.

Girolamo, santo

“Tenendo conto dell’originale ebraico e greco dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta “Vulgata”, il testo “ufficiale” della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo “ufficiale” della Chiesa di lingua latina.”

Benedetto XVI

Ventitrè anni mi richiese l’impresa. Ventitrè anni di studio, ventitrè anni di preghiera. Preghiera a chè il mondo ricevesse ciò che ho da annunciargli, senza svelare l’osceno segreto. Ciò che Loro, attraverso di me, hanno da annunciargli. Nacqui in Illiria quando Costante succedeva al grande Costantino, che per primo inchinò Roma alla croce. Fui bambino col latino, mi scoprii uomo col greco, divenni santo con l’ebraico. E al latino dei bambini, infine, riportai la Loro parola.

Mi risolsi a cambiare la storia dell’umanità camminando con te, o Paola, sulle sacre pietre che videro i natali del nostro Signore, generato e non creato della stessa sostanza del Padre. Pietre affioranti da questi colli riarsi, spazzati, graffiati dal vento del deserto che sale la sera, sotto il cielo in cui quel giorno splendeva la cometa. Pietre rosate, pietre dannate, se non fossero servite a teatro del primo atto della nostra Salvazione. Incastonato in queste pietre ho vissuto, da queste pietre protetto ho studiato i testi, imparato le loro rime, calcolato le loro radici trilittere. Dalle profondità di questa caverna ho tradotto il senso con il senso, ponderando parola per parola. Al profumo di queste candele ho barattato, contrattando come sui banchi del mercato degli ebrei, il significato col segno. O Paola, i tuoi occhi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea di quanto Loro abbiano bisogno di noi per rivelare la Loro Grandezza. Solo a te oso rivelare quel che ad ogni altra anima è bene tenere celato: che trentatrè anni, nè di un uomo nè di un Dio, sono abbastanza per portarci sulla Via, la Verità e la Vita, quella che si esprime in un istante solo ed eterno solo ad enti di ugualmente perfetta natura. Il Verbo a noi non basta. A noi mortali solo il tempo può dischiudere i sacri misteri, uno ad uno per bocca dei Loro emissari. Ahi, se non fossimo di così grezza fattura l’intero significato della Storia svanirebbe in uno sbuffo improvviso di verità! E invece il mondo ha bisogno della storia, perchè solo nell’alternarsi delle generazioni, dal Padre al Figlio, la Fede si consolida, la Salvazione si concretizza. Il mondo ha bisogno della Carne. Attraverso l’educazione si compie la salvezza dell’umanità. La salvezza di ogni uomo di ogni tempo è fuori dalla portata persino dei nostri Dei. 

Il nostro Cristo in croce è il passo necessario a tutti i successivi, ma è solo il primo. Tu, Paola, capirai. Se non avessi sentito della storia di Cristo, non mi sarei rinchiuso in questo sarcofago di pietra, in un colle riarso dal sole nei pressi di Betlemme. Magari sarei tornato a Roma, magari avrei continuato verso sud. Ma io credo sento so di avere una missione più grande. Tutto viene da Loro, attraverso di me. E attraverso Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, Pietro, Eusebio e quel d’Ippona che ci sta rivelando il mistero dell’unità nel divino Molteplice. E a quelli che verranno dopo di noi: la Via è ancora lunga. Sbaglia chi, non fidandosi, reclama il miracolo: quand’anche lo vedesse, i suoi occhi ancora acerbi non lo riconoscerebbe. La nostra Fede è dono della tradizione: questo il prezzo per le nostre piccole menti, incapaci di accogliere il prodigio della Resurrezione senza esservi state preparate. Io, e anche te, o mia Paola, prepariamo la strada. Non in senso temporale, giacchè ormai tutto si è compiuto, ma in senso logico: rendiamo ragionevole ciò che, agli occhi del mortale, ragionevole non è. A te sola, o mia Paola, posso confessare quanto la contingenza sia strumento della necessità.

La mia contingenza si è trovata ad essere la lussuria imperversante nelle nostre giovani comunità, il puttaneggio di donne e uomini dissoluti che così trascinati dai sensi perdono in devozione per ciò che di sensuale non è. Il celibato della nascente Chiesa sarà un faro nella notte per queste anime deboli, e come tu sai mi batterò fino alla morte per la sua istituzione. Il nostro monastero, o Paola, resterà nei secoli come atto di fondazione di questo nuovo ordine di uomini sposati alla Trina Divinità. A tal fine, esclusivamente a tale fine, tradussi in Isaia l’ebraico almah e nei Vangeli parthenos con virgo, facendo di una giovane donna una vergine, di una procreazione un miracolo. A tal fine tradii la necessità del testo, per correggere la contingenza dei tempi. A tal fine ho imposto alle future anime cristiane di credere l’incredibile, affinchè facessero l’altrimenti impossibile. Se giungerà il giorno in cui crederò sentirò saprò di essere solo un uomo, allora correggerò il mio errore e ammetterò la mia colpa, la mia grandissima colpa: il mio sacrilego asservire le Loro parole alle mie piccole idee. E accetterò il Loro castigo, implorando il Loro perdono. Ma io, o Paola, credo sento so di essere stato scelto per completare, e non correggere, le Scritture: quel che ho fatto, per questi ventitrè anni nelle viscere di una terra inospitale, è stato continuare, non spezzare;  spiegare, non inquinare; applicare, non inventare. Non l’ho fatto per me, non l’ho fatto a chè il mio nome risuoni di eco divina nei secoli a venire. E questo lo sai anche tu. La Storia, giacchè da me ora corretta, non conserverà traccia dell’estro di Girolamo, ma solo della sua perizia. Eppure questo estro era già scritto, dieci volte scolpito nella pietra; tre volte inchiodato nel legno.

“Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo”

San Girolamo, Ep. 53,10