Del gran rumore attorno a Israele e Palestina “violenza” pare essere il concetto di maggiore appeal. Condivido il sentimento, ma più il mio tempo da abitante di Gerusalemme passa e più lascio i pensieri, di tanto in tanto e senza esagerare, correre sul conflitto, tanto più sento l’esigenza di ricapitolare quale violenza ho di fronte, quale il suo obiettivo e quale il suo meccanismo. Di seguito, mi ripropongo di ridisegnare i confini di questa violenza, cambiandole i connotati per renderla più simile al volto che vedo nella strada, nei giornali, nei posti di blocco, nel vociare sull’autobus, nelle leggi dello Stato.
Partirò dalla violenza in senso proprio, quella degli spintoni, delle sassate, delle coltellate, dei lacrimogeni, delle molotov, dei pestaggi, delle fucilate e dei mezzi blindati, perchè esiste e perchè non mi soddisfa: non è questa la violenza che sento e che turba il mio animo e quello dei milioni che vivono quaggiù. Di violenza fisica nei territori occupati ce n’è tanta, su base quotidiana e su larga scala, capillarmente documentata o totalmente ignorata, alla luce del sole o annidata nel buio degli arresti notturni, nelle torture nelle carceri, degli omicidi chirurgici. E’ per lo più eseguita in modo ordinato e sistematico, organizzata secondo le categorie della burocrazia militare, dosata e disciplinata da ordini superiori. Parlare di violenza fisica palestinese, invece, lascia un po’ a bocca asciutta: almeno da quando sono arrivato qui quasi quattro anni fa, è sporadica, disorganizzata, casuale e quindi poco efficiente. Vale a dire, è molta di più la violenza israeliana che quella palestinese, in termini di case distrutte, arresti, condanne – nulli verso gli israeliani -, ferimenti e omicidi – sporadici sulla popolazione civile israeliana e talvolta su militari. Tale differenza è dovuta in grandissima parte alla sproporzione di mezzi: anche volendo, per i palestinesi non è facile organizzarsi per eseguire violenza mirata senza farsi beccare dai servizi di sicurezza israeliani. Questo tipo di violenza è il terrorismo dei titoli di giornale. Dopo lunghi ripensamenti, sono giunto alla conclusione che se intendiamo il terrorismo come per definizione ingiustificato, allora non sono disposto a chiamare tale violenza terrorismo. Vale a dire, ritengo l’attacco a civili e soldati israeliani da parte palestinese il loro strumento di combattimento in assenza di un esercito regolare, una violenza “dalla base” senza benedizione di alcuna autorità riconosciuta. Fenomeni analoghi sono considerati in altri contesti resistenza, guerriglia, rivolta, e non intendo adesso mostrare come parte integrante della mitologia israeliana glorifichi il terrorismo quando è toccato ai primi sionisti servirsene. Il “terrorismo” attraversa i secoli, da Spartaco alla Rivoluzione Francese ai partigiani alle Brigate Rosse, ma dal suo mero carattere non-istituzionale ritengo non si possa inferire nulla sulla sua giustificazione morale, esattamente come dal mero carattere istituzionale delle guerre non si può inferire nulla sulla loro giustificazione morale. La differenza sostanziale tra i due – che poi sostanziale non è, ma sempre una fastidiosa sfumatura di grigi – è che le guerre sono dichiarate e firmate da rappresentanti che si riconoscono a vicenda, mentre nei casi di terrorismo manca almeno uno degli interlocutori. Si può intendere il terrorismo in un’accezione più specifica, come tentativo di generare panico in una società attaccando civili innocenti. In questo senso, mentre la violenza palestinese mira deliberatamente a tale obiettivo, per l’esercito israeliano le vittime civili sono incidenti di percorso o un male necessario al mantenimento della sicurezza nazionale. Ma ho alcune osservazioni al riguardo. Primo, l’eventualità di tali incidenti o sacrifici è tenuta in talmente scarsa considerazione nella tattica militare israeliana e nell’opinione pubblica, per quelli che sono i miei standard di moralità e civiltà, che ai miei occhi non è un aspetto discriminante tra i due contendenti: la morte di un bambino palestinese impallinato ad un posto di blocco non fa scandalo, ma suscita un’alzata di spalle e un indicibile “probabilmente se lo meritava” o l’eventuale ammissione che sia stato un errore umano, e finisce lì. Per l’israeliano medio e per la giustizia. La ministra della giustizia ha intrapreso una crociata personale contro i mitologici lanciatori di pietre in kefiah: per lei, sono da abbattere sul luogo in quanto attentano alla vita dei soldati, chiusi dentro i loro mezzi blindati. E anche su larga scala, le cicliche devastazioni di Gaza come spropositata risposta ai suoi missilini non disturbano le coscienze d’Israele, e non per la loro giustificazione morale: i motivi e le circostanze dell’uccisione di migliaia di civili restano ovviamente un segreto di Stato, quindi nessuno ha idea se sia una guerra giusta e condotta giustamente. Il benestare degli israeliani sulle vittime civili viene dalla fiducia a priori che vi siano buone ragioni per la strage, puntellata del fiorente circo mediatico attorno agli highlights del combattimento, che seminando una confusione ed eccitazione collettiva non lascia spiragli per la critica razionale. Provare per credere. L’elasticità degli scrupoli morali dell’israeliano medio può essere tesa ad libitum quando viene spezzato l’incantesimo dello sheket, il silenzio: da riconquistare ad ogni costo. Secondo, per un guerrigliero palestinese tutti i sionisti sono oppressori e usurpatori della patria, ex soldati e riservisti dell’esercito occupante , e quindi meritevoli di morire: nella loro mente, non stanno colpendo civili. E davvero in Israele la differenza tra civile e militare è spesso sfumata, basta vedere il numero di armi da fuoco per le vie di Gerusalemme ovest, e dell’utilizzo che se n’è fatto negli ultimi mesi: le condanne a morte degli attentatori sono eseguite in loco spesso da cittadini armati, non da tribunali e soldati. Terzo, i mezzi a disposizione della milizia palestinese non permettono di colpire obiettivi militari significativi, mentre gli obiettivi civili restano più abbordabili: la violenza morale è un lusso. Quel che è certo, è che le vittime e i danni civili del conflitto sono innumerevolmente maggiori tra i palestinesi che tra gli israeliani, nonostante la disparità di mezzi e la violenza chirurgica, e che quindi a ragione i palestinesi vivono più “nel terrore” che gli israeliani. Questo excursus era per dire che violenza fisica israeliana e palestinese, per quanto mi riguarda, hanno a priori lo stesso status morale. A posteriori, poi, mi chiedo se ci sia un motivo per cui solo uno dei due fronti sia un’entità politica riconosciuta e sostenuta globalmente, mentre l’altro no, e se magari questo, sì, porti con sè una valenza morale. Ma queste sono speculazioni per il prossimo pezzo.
L’assenza di perdite israeliane non significa che manchino la volontà e i tentativi di colpire da parte palestinese: è un desiderio palpabile e spesso riscontrabile esplicitamente, ma la sicurezza israeliana è praticamente invulnerabile. Al contrario, invece, la violenza fisica israeliana è quasi nulla rispetto alla potenza di fuoco disponibile: se Israele volesse addirittura distruggere una per una tutte le case palestinesi e deportare o uccidere ogni palestinese, potrebbe farlo senza grandi difficoltà tecniche. Questo mi fa riflettere su un primo fatto: che non è una guerra. Non si può parlare sensatamente di due fronti contrapposti, ma del fronte israeliano alle prese con spinte interne contrapposte: più violenza o meno violenza. Questo e solo questo, se non in parte irrisoria in questioni interne e in parte maggiore per crisi internazionali, è ciò che determina dove e quando avviene un arresto, una manifestazione, un bombardamento. I palestinesi hanno una parte decisamente minoritaria nel corso degli eventi. E su un secondo fatto: Israele non vuole distruggere la Palestina, non ne sta devastando le proprietà e non ne sta sterminando la popolazione, pur avendone i mezzi. Parlare di olocausto palestinese è fuori luogo, e quand’anche ci furono episodi di pulizia etnica, come nella guerra del ’48, non furono eccidi di massa ma espulsioni da villaggi ed espropriazioni per giudaizzare i nuovi territori conquistati.
Al contrario, Israele sta paradossalmente sostenendo la popolazione palestinese più di qualunque altro Stato al mondo. Fornisce, alla West Bank in particolare, acqua ed elettricità, accesso a porti ed aeroporti, ospedali e trasporti, lavoro e istruzione. E paradossalmente in questo intravedo più profondamente i tratti della violenza del conflitto, che non nei mitra e nel filo spinato. Mi spiego sbrigativamente: Israele tiene per le palle la popolazione palestinese. I bisogni primari di ormai tre milioni di persone, in West Bank, e due milioni, a Gaza, sono sotto il controllo del governo “nemico”, che li elargisce evitando l’ecatombe per sete e fame. I prodotti che i palestinesi consumano passano in gran parte da Israele, perchè sono stati costruiti confini invalicabili, così come l’acqua che bevono, perchè Israele ha controllo sulle falde. E se anche tra gli insediamenti palestinesi ci sono consistenti allacciamenti abusivi a elettricità e acqua ed edilizia abusiva, i palestinesi pagano dazi ineludibili su ogni bicchiere di latte che bevono, su ogni macchina che comprano e su ogni computer che usano, perchè il latte viene da Tnuva, le macchine dal porto di Ashkelon e i computer da Tel Aviv. E li pagano spesso coi soldi dei coloni ebrei per cui hanno costruito case e strade e fatto i guardiani notturni, piuttosto che con le più modeste paghe dei datori di lavoro palestinesi. Ben oltre l’andare a votare o il vendere terra al governo israeliano, i palestinesi sono normalizzati nel sistema economico israeliano fino al collo. Con ciò, per essere un popolo oppresso da uno dei più potenti eserciti al mondo, con la disoccupazione fissa al 20%, in un territorio desertico, senza porti e aeroporti, confinante con Paesi in guerra, i palestinesi non se la passano male: non si muore di fame e anzi i consumi sono alti rispetto al resto del Medio Oriente, come anche la scolarizzazione, accessibile sia nei territori che in Israele. Inoltre, uno scenario di guerra civile e pulizia etnica in stile Siria è fuori discussione, finchè Israele protegge i confini esterni della Palestina e del suo quasi 15% di popolazione ebraica (nella West Bank). Ovviamente, il sostegno di Israele alla Palestina è il prezzo da pagare per la sua cattività e indigenza indotta, e a quanto pare, dopo cinquant’anni di occupazione, ripaga: se l’occupazione fosse a conti fatti una perdita, non durerebbe da così tanto. Ma anche questa discussione è da rimandare ad altra sede.
Ma allora perchè i palestinesi vogliono l’indipendenza, e sono pronti a rivendicarla con la violenza? Nel cercare di rispondere a questa domanda ho imparato a riconoscere i tratti somatici della violenza profonda in corso nel conflitto israelo-palestinese. Innanzitutto, le masse palestinesi cercarono e cercano di passare sotto il controllo israeliano, in particolare i cristiani per sfuggire l’oppressione da parte dei mussulmani, ma non solo: quando in seguito alla seconda Intifada venne innalzato il muro di separazione dai territori, ci fu il fuggi fuggi verso Israele, sgattaiolando tra i buchi del cantiere e della burocrazia. L’intuizione, poi confermata, era che Israele significava lavoro, istruzione, sanità, e consumi, seppur al prezzo di discriminazione e razzismo, mentre Palestina depressione e immobilità: quartieri di Gerusalemme est, e la città vecchia stessa, furono invasi di ex palestinesi in caccia del documento israeliano, con buona pace della Resistenza: su larga scala, in Palestina come nel resto del mondo, il sogno borghese vince sull’ideologia dell’autodeterminazione. Lo stesso vale per gli arabi israeliani: lungi dal trasferirsi sotto l’Autorità Palestinese, si tengono ben stretta la loro teudat zehut, la carta d’identità israeliana, ad Haifa, Nazareth, Yafo, con i servizi che garantisce. Per questo la spiegazione ideologica non mi convince: non è questo che muove lo zelo palestinese. Nè la fame. Quindi cosa? Secondo me per due principali motivi, entrambi inerenti l’amministrazione israeliana della Palestina e, più in genere, il fondamento antropologico-giuridico-politico dello Stato d’Israele.
Il primo motivo è il profiling su cui si fonda la distribuzione dei diritti e dei doveri. Dalle più piccole alle più grandi questioni, Israele discrimina su base etnica, politica e religiosa, e in questo manifesta la sua natura tribale. Per la verità, questo modello antropologico è condiviso da tutte le popolazioni dell’area circostante: druso, mussulmano, sunnita, sciita, cristiano, copto, maronita, circasso, beduino sono tutte caratterizzazioni ereditarie, non acquisibili nè alienabili. Sia il palestinese che l’israeliano, quando ti chiedono se sei cristiano, non si riferiscono al tuo credo ma al tuo lignaggio: sei nato in una famiglia cristiana? E’ questo che ciò che conta, poi, per quando li riguarda, puoi essere pure ateo. E’ difficile per noi spiegare che il cristianesimo è solo un credo, e come un credo può andare e venire a prescindere dal sangue. Il fatto interessante è che in Israele, tra i Paesi più scolarizzati e tecnologicamente avanzati al mondo, la logica tribale è legge. Per prendere l’esempio fondamentale: qualsiasi ebreo nel mondo è di diritto cittadino israeliano, se vuole. Questo non in virtù della cittadinanza di un suo antenato, come nel modello di Stato occidentale, ma in virtù della semplice appartenenza al gruppo etnico-religioso. Per un esempio più specifico, in Israele solo per gli ebrei, i drusi e i circassi (4000 individui in tutto) l’esercito è obbligatorio, mentre per le altre minoranze etniche è solo volontario e soggetto a restrizioni politiche: di fatto, i beduini sono ben accolti e i mussulmani no, ad esempio, mentre l’anno scorso venne avanzata in Parlamento la proposta di arruolare obbligatoriamente gli arabi israeliani cristiani, scatenando un pandemonio. Invece, il principale motivo di esenzione dal servizio militare è lo studio rabbinico. Ancor più nello specifico, i beduini ai bordi dell’Autostrada numero 1 tra Gerusalemme e Gerico non hanno diritti edilizi, mentre le colonie di Maale Adumim e dintorni ovviamente sì e i palestinesi falachim dei dintorni di Gerico sì ma con restrizioni. E così via sui diritti di passaggio ai posti di blocco, sul diritto di lasciare il Paese, sui doveri verso l’erario, sulle concessioni edilizie e commerciali, la legge è declinata per ceppi d’appartenenza: all’interno dello stesso villaggio ci possono essere tre o quattro profili, tutti col proprio specifico corredo giudiziario. Il profiling della burocrazia israeliana è di parecchio agevolato dalla praticamente nulla mobilità etnica delle popolazioni locali: un maronita non sposerà mai e poi mai un’armena, e un cristiano non venderà mai e poi mai la casa ad un mussulmano. I trasgressori pagano un prezzo salato di fronte alla comunità, e spesso scelgono la fuga. A Gerusalemme, in particolare, dove da sempre si accavallano comunità una sull’altra, tira un vento costante di fobia dell’estinzione e ansia della conservazione che paralizza le varie discendenze in un claustrofobico orgoglio. Così l’impiegato della sicurezza all’aeroporto Ben Gurion, superati i corsi preparatori, può riconoscere l’etnia del viaggiatore semplicemente dal cognome e dal nome di suo padre o dalla gradazione della pelle, e comportarsi di conseguenza. E questo è, per quanto ho visto finora, il risvolto drammatico della giurisdizione etnica: che il comportamento individuale è irrilevante nel determinare il trattamento ricevuto. I vari diritti e doveri nei confronti dello Stato d’Israele e, nei territori occupati, dell’Esercito Israeliano che ne fa le veci, non sono attribuiti in base al comportamento individuale, ma in base all’appartenenza, scardinando alla base il nesso causale tra la condotta individuale e le sue conseguenze. Per quanto le generalizzazioni siano spesso utili scorciatoie, quando adottate nell’amministrare la giustizia fanno venire meno la condizione essenziale della fiducia tra governante e governato, cioè la garanzia per cui se tu, individuo, giochi secondo queste regole, non incorrerai in alcuna punizione da parte dell’autorità. L’esempio per me più pertinente della violazione di tale rapporto fiduciario è la punizione collettiva in seguito ad attentati: il terrorista tendenzialmente non sopravvive l’attentato, ma è prassi comune che nei giorni successivi l’esercito abbatta la casa del medesimo con divieto di ricostruzione. Così non importa se sei un buon padre di famiglia che non si è mai invischiato in politica: se il tuo inquilino del piano di sopra è terrorista da un giorno all’altro tu sei sul lastrico. Concesso l’effetto deterrente della pratica, che come l’intero impianto dell’occupazione è in teoria volto a tutelare la sicurezza dei cittadini israeliani, essa porta comunque con sè una conseguenza devastante: essere o non essere terrorista, sei sul lastrico uguale. In teoria uno può cercare di stare alla larga da personaggi poco raccomandabili così da non affondare con loro – ed è questo uno degli obiettivi della punizione collettiva – ma quando il fenomeno diventa sistema, è difficile sfuggire: non importa quanto tu ami Israele, se vieni da Nablus non passi il posto di blocco; non importa se non hai messo il piede in moschea, se sei mussulmano non puoi trasferirti ad abitare in tal quartiere; non importa se non c’entri niente, se tuo cugino era in manifestazione ti vengono a prendere a casa e ti fai comunque due notti in carcere; non importa se paghi le tasse, se sei beduino non puoi costruirti la casa in cemento. Perso per perso, tanto vale non amare Israele, andare in moschea, scendere in piazza, costruire illegalmente, e così almeno sfogare parte della frustrazione: il profiling, rendendo i cittadini sudditi della loro appartenenza, mina lo loro motivazione all’obbedienza alle leggi e alla sensatezza di cambiare la loro condotta individuale. Le aspirazioni di un palestinese, come anche di un israeliano, sono in gran parte dettate dal gruppo d’appartenenza – con quelle dell’israeliano solo un po’ più rosee e quelle del palestinese decisamente grigie.
Il secondo motivo di rabbia palestinese, a mio parere, è l’incertezza che domina la vita nei territori. A differenza che in Israele, nella West Bank non c’è amministrazione civile da parte d’Israele ma solo militare: gli impiegati sono soldati, gli sportelli caserme, i tribunali corti marziali, le comunicazioni ordini, le leggi decisioni arbitrarie con effetto immediato. Questo non significa solo mezzi blindati e tute verdi, ma anche l’assenza di garanzie democratiche, o perlomeno giuridiche, in base a cui pianificare il proprio agire. Il posto di blocco da passare per arrivare al lavoro potrebbe essere chiuso per motivi di sicurezza, e sempre per motivi di sicurezza è vietato sapere in base a quali considerazioni: potrebbero non esserci; il tale diritto di tale gruppo etnico-religioso può essere revocato ad interim come misura preventiva; tali terre di tal signore possono essere confiscate per un vago “necessità strategiche”. Vivere sotto un governo di perenne emergenza, come è per definizione il governo marziale, vuol dire non poter dare per scontate condizioni basilari dello svolgere una vita organizzata, come i trasporti e la proprietà, ma dipendere dalle decisioni e dai capricci estemporanei di ufficiali spesso di vent’anni, nè avere accesso ad un organismo di giustizia indipendente: gli appelli in corte marziale vengono giudicati dagli stessi comandanti che hanno dato l’ordinanza contro cui l’appello è rivolto, e stranamente nella stragrande maggioranza dei casi vengono respinti. Fare un investimento sul futuro, come aspettare l’autobus all’ora stabilita, comprare un campo di ulivi, iscriversi all’università o aprire una ditta, in una situazione di tale instabilità può essere una scelta incosciente, e tanto più uno ha da investire, tanto più è difficile tenere i nervi saldi quando improvvisamente e arbitrariamente te lo portano via: una volta etichettato come sicurezza, ogni sopruso diventa praticamente inevitabile. Per questo il relativo benessere della popolazione palestinese è anche fonte di maggiore insoddisfazione e quindi, di rivolta. Là dove la legge d’Israele è chiara e certa, per quanto iniqua come nel caso degli arabi israeliani, non c’è malcontento se non superficiale. La domanda da porsi è se tale schizofrenica amministrazione dei territori occupati sia giustificata da motivi di sicurezza e io, dopo anni di arrovellamenti e indagini, credo proprio di no. Il perchè venga perpetrata, dunque, è un interrogativo che suscita in me diverse speculazioni ancora da levigare. Concludendo, mi sembra che la vera violenza del conflitto risieda da una parte nell’applicazione di regolamenti a gruppi la cui composizione non ha niente a che vedere con la condotta e la responsabilità personale ma solo con il loro pedigree, e dall’altra nel fatto che i regolamenti non sono certi ma in continuo, volatile cambiamento, asfissiando lo spazio della progettualità. E che, tra l’altro, il cambiamento pare andare verso il peggio. La combinazione di questi due fattori, più che la mancanza di autogoverno, le condizioni materiali e la violenza fisica da parte dell’esercito, mi sembra perpetri la più radicale ingiustizia dell’occupazione nel non concedere al singolo il frutto del suo lavoro, e credo che ciò, in definitiva, porti l’animo di chiunque all’esasperazione. Per chi abbia interesse nel capire Israele e Palestina e il pasticcio in cui si sono messi, consiglio di cambiare l’immaginario del conflitto dai mitra e il filo spinato in faccia al bambino arabo ad un meno esotico ufficio pieno di carte e mappe, foto, documenti d’identità, firme e timbri, lettere e conti, e uno stuolo di burocrati, avvocati, ufficiali, ragazzini in divisa, tutti intenti a spacchettare il territorio e i suoi abitanti in categorie e sottocategorie, autorizzazioni e ingiunzioni, facendo quadrare eccezioni alla regola e delibere ad hoc sotto la pressione di faccendieri, palazzinari, fanatici religiosi, imprenditori della sicurezza e dell’industria, in un quotidiano contrabbando della giustizia e della legalità con le contingenze di un sistema sociale, politico, economico, fondato sull’occupazione e da essa dipendente.
Post Scriptum
L’incertezza è anche la maggior fonte di preoccupazioni per la popolazione israeliana, per quanto troppo confusa per attribuirla al proprio assetto politico: in assenza di una vera Costituzione, con un sistema giuridico tendente al modello anglosassone dei precedenti e dei giudici-legislatori, con una demografia in continuo mutamento a seconda delle ondate d’immigrazione ebraica, in Israele le cose cambiano drammaticamente e in fretta, come le maree. Mi ha sempre stupito come uno Stato fondato a tavolino da una combriccola di socialisti e sviluppatosi saldamente sotto la loro guida per trent’anni, abbia visto una brutale svolta capitalista nel giro di un mandato politico; di come un popolo prima ghettizzato e poi simbolo del diritto dell’autodeterminazione si sia ritrovato nel giro di Sei Giorni a dominare e ghettizzare milioni di sudditi; di come l’impronta laica abbia ceduto velocemente il passo ad uno Stato sempre più vicino alla teocrazia; di come interi quartieri e città perdano identità e valore immobiliare nel giro di pochi mesi o anni, quando gli ortodossi l’invadono. In un altro ordine di grandezza temporale e di gravità, anche gli israeliani sono vittime dell’instabilità d’Israele, e chi riesce a formulare dentro di sè il dilemma, se lo pone: c’è davvero da investire gli anni migliori della mia vita in questo Stato, che domani potrebbe lasciarmi con in mano un pugno di cenere? Voglio davvero far nascere qui i miei figli, senza garanzie su come sarà il contesto in cui cresceranno? L’interrogativo è tanto più stringente quanto più ci si rende conto del sacrificio spropositato che lo Stato chiede ai suoi. Tra gli incontri fatti qui, non c’è personaggio più tragico del kibbuznik, nuovo ebreo di una nuova era umanista e giusta, consumato da una vita dedicata alla causa, che si accorge, ormai vecchio, di come il sogno sionista abbia preso la strada opposta a quella che aveva creduto di dargli, a quella che gli avevano raccontato di dargli. Prima infatuato, poi tradito, beffato e sconfitto, per lui è troppo tardi per ripartire e rifare il nido in climi più miti, ma per la generazione dei suoi nipoti disertare questa scommessa pericolosa è sempre meno un tabù.