Melting pot in corso…

L’ulpan di Maagan Michael, corso d’israelismo di base per i nuovi immigrati, rispecchia uno dei tratti salienti d’Israele su larga scala: l’eterogeneità. Uniti dal misterioso denominatore comune dell’ebraismo, si trovano nell’arco di 300 metri quadrati 5 continenti, una decina di lingue e non so quanti background culturali: professione dei genitori, libri di casa, livello d’istruzione, condizione economica, forma di governo, programmi televisivi, vestiti, cibo, arredamento, modi di dire, colore della pelle; tutto ciò di cui era costituita la nostra vita precedente, a casa, è diverso o nei casi più estremi incomunicabile: gli ucraini, ad esempio, provano a spiegarci cos’era essere bambini sotto il regime comunista, ma infine si arrendono. Il risultato è che niente può essere dato per scontato: la quasi totalità delle nostre quotidianità è costituita di ritualità che hanno molto poco a che fare con le nostre necessità naturali ma che sono in verità rivestimenti culturali contingenti, che quindi non possono essere appresi a priori ma solo attraverso l’osservazione. Non è mai solo mangiare, studiare, lavorare, giocare, amare, o perfino dormire: ciascun luogo, e ciascun individuo, aggiunge un proprio ‘avverbio’ all’azione. I sudamericani ridono a squarcia gola, gli americani bevono voracemente, i russi mangiano in silenzio. Certo, sono grossolane discriminazioni variabili da individuo a individuo, osservazioni inadatte a fondare una teoria scientifica in quanto né universali né necessarie, ma d’altra parte sono il massimo che ci è concesso in un campo tanto delicato come l’antropologia, pena l’annullamento delle differenze in quanto vaghe e la conclusione che fino a prova (non vaga) contraria mangiamo, ci vestiamo e parliamo tutti uguale.

Di fronte all’eterogeneità sorgono diverse strategie di comportamento. C’è il gemellaggio, di quelli che si innamorano di uno stile, di una nazionalità, di una lingua e ci si tuffano a pesce circondandosi di amici da quel mondo lì, chiedendo e approfondendo, assimilandosi a loro; c’è la sordina, di chi non riuscendo a mimetizzarsi si annulla; c’è il minimalismo, a cui mi sento di appartenere, che annaspa nel vano tentativo di sfrondare e scartare i diversi strati arrivando al cioccolatino, il cuore della comune natura umana oltre i rivestimenti culturali, a come mangiamo ci vestiamo parliamo e basta; c’è l’ignorante, che non si accorge delle differenze; c’è il superbo, che le ignora in quanto tutte work in progress verso la sua cultura, completa e perfetta; e c’è il turista, quello che più odio, che balzella di fiore in fiore imparando due parole in russo, scimmiottando l’inno francese e bevendo mate come un argentino, fraintendendoli tutti.

I responsabili ulpan ci hanno riunito, alcuni capi classe, per sollecitare nostre iniziative per il gruppo da portare avanti con l’appoggio dello staff: hanno puntualizzato che non c’è una regola né un andazzo consolidato negli anni. Deduco che ogni ulpan finisce col costituire un’amalgama a sé, un proprio microcosmo culturale di sport, cene, feste, incontri, cineforum e chissà che altro destinato ad estinguersi nel giro di pochi mesi. Se ammettiamo che il rivestimento culturale sia portatore di significato (se tale significato sia antecedente al costume o ad esso successivo, ‘posticcio’, non cambia) si può leggere l’intero ulpan come un collettivo e inconsciente processo di alfabetizzazione, cioè di associazione di significati comuni a gestualità comuni fino ad arrivare alla comprensione reciproca attraverso quello che è un vero e proprio linguaggio, per quanto non verbale. Chi degli ulpanisti punta ai pochi posti disponibili come soldato adottivo del kibbutz si rasa i capelli corti e va al pre-addestramento di Chen, due volte a settimana. Chi ha qualcosa di importante da dirsi si siede a pranzo sui tavoli vista mare al posto che nelle tavolate ulpan. Chi in caffetteria vuole parlare ebraico si siede dentro, nell’angolo ‘degli israeliani’, chi in altre lingue fuori o sui divani grandi. Quando una coppia si trova in camera in atteggiamento intimo si appende un calzino sulla maniglia esterna della porta per avvisare i coinquilini; a Yotvata era una maglietta.

Altra conclusione a cui porta l’esperienza dell’eterogeneità è l’oggettiva disparità di mezzi. Chi ha viaggiato, chi ha studiato, e più in generale chi ha conosciuto, può fare di più. Ma non sempre la conoscenza è un merito, spesso è soltanto un dato di fatto: i parlanti spagnolo, o ancor più inglese, hanno molti meno problemi; così come quelli che hanno fatto le medie, il liceo o l’università; per molti non è stata una scelta, ma è capitato, e tuttavia resta la disparità. Il mio coinquilino Massimo, che non parla né inglese né ebraico, è da solo perchè nessuno sa interpretare i fonemi che escono dalla sua bocca: un fatto così banale e meccanico, eppure così determinante. Massimo è triste. Un suo coetaneo dell’Ohio, che esattamente come lui non ha fatto altro che assimilare e riprodurre i fonemi dei propri genitori, è circondato da persone che capiscono ogni sua parola al punto che non può avere segreti in una tavolata internazionale, e deve viaggiare decine di chilometri prima di trovare qualcuno con cui non riesca a comunicare. L’eterogeneità è ingiusta, perchè ci sono culture più potenti di altre, lingue che ne dominano altre, il tutto sulla base di quanta informazione sono in grado trasportare: se un americano nomina il proprio presidente tutti lo conoscono e se ne può parlare, innescando un nuovo circolo d’informazioni. Se Ester, da Atene, nomina il suo, cala il silenzio.

La soluzione di alcuni è sottrarsi a questo gioco truccato in cui non tutti partono dalla stessa linea di partenza, e cambiare le proprie ambizioni, adeguarle al proprio status: chi viene da un paese povero, senza studi alle spalle, chi parla una lingua sconosciuta e astrusa, si arrende alle probabilità avverse che danno gli altri in vantaggio e ammette che, salvo un compenso con le proprie doti naturali, acquisirà meno e ad esso punta. Con questa consapevolezza, è libero.
Un’altra via, che preferisco, è considerare il valore assoluto del salto relativizzando la linea di partenza a quella di arrivo: è vero, l’americano arriverà naturalmente preparato al test d’ingresso d’inglese all’università, ma il russo che passa dal cirillico all’inglese passando per l’ebraico, pur piazzandosi al secondo o terzo posto, avrà conosciuto e apprezzato molto più di quanto l’americano possa immaginare. Certo, il segreto sta nell’apprezzare. Ad ogni modo, la vita è troppo breve e il mondo troppo grande perchè qualcuno si accorga di noi e stili la graduatoria al fotofinish, quindi perchè tanto stress?

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...