Ho visto già diversi trafiletti di giornale titolare ad Israele come modello di sicurezza a cui guardare, ora che siamo stati improvvisamente gettati nella guerra di Gog e Magog con l’estremismo islamico. L’idea sarebbe prendere esempio dall’efficienza e scrupolosità della security dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, con i suoi interrogatori individuali, le sue corsie preferenziali, i suoi metal e chemical detector: grazie a queste procedure sistematiche, l’aeroporto e quindi la porta d’ingresso ad Israele è una fortezza inespugnabile. Sono convinto che investire in intelligence sia un ottimo modo per prevenire attentati, ma ho seri dubbi sull’adozione del modello Israeliano come policy europea. Primo, per una questione di finanze: Israele investe in sicurezza una cosa come un quinto o un quarto del proprio PIL, e circa 180 mila dei suoi giovani tra i 18 e i 21 anni, coscritti nell’esercito di leva, senza contare i 500 mila riservisti regolarmente addestrati. Questa enorme macchina da guerra è impegnata in altre attività che non la sicurezza in aeroporto, trovandosi Israele circondata da vicini di casa non proprio amichevoli e pure dotati di eserciti regolari, tra i quali la Siria che è letteralmente una polveriera. D’altra parte, Israele è completamente blindata entro una cinta muraria che la divide dagli Stati confinanti, con solo tre valichi per la Giordania, uno per l’Egitto e uno per Gaza. E anche all’interno del Paese, per quasi metà consistente dei territori palestinesi occupati, corrono qua e là muri in cemento di otto metri d’altezza, con posti di blocco e torri di controllo. Questo mi porta al secondo punto: che in Europa, a differenza che in Israele, non ci sono confini nè tra Stati, né tra regioni, né tra città. Cosa ce ne facciamo, quindi, di una Malpensa in stile israeliano quando il terrorista può arrivare in prima classe dal passo del Brennero o dal Frejus, o in crociera da Maiorca? Si potrebbe israelianizzare sia il Brennero, che il Frejus, che tutti i porti della penisola, si dirà. Forse è questo che hanno in mente i leghisti. Ma a parte il costo, una tale misura ha enormi costi sulla qualità della vita: immaginate passare un metal detector ogni volta che prendete un treno e una nave, essere circondati da telecamere e uomini armati che vi osservano da dietro occhiali scuri; immaginate di dover raccontare i fatti vostri e di scartare tutti i vostri imballaggi in valigia davanti ad un giovincello in divisa ogni volta che vi fate una vacanzina in Croazia o in Francia. Immaginate che la polizia possa entrarvi in casa o perquisirvi in strada senza un mandato, altro che intercettazioni. Ecco questa è la realtà in Israele, e in particolare a Gerusalemme, che vive in stato d’emergenza da sempre, mai revocato. Niente di tragico, ci si abitua, ma il fastidio resta. E restano strascichi profondi su come squadri chi sale sul tram o cosa ci fa quello zaino incustodito sotto il lampione, su andare a fare la spesa in posti poco affollati e sull’aspettare il bus dietro i blocchi di cemento anti-investimento. O il girare armati, per chi ha il porto d’armi – praticamente tutti. Impercettibili tic di paranoia che a volte rigurgitano barbarie, come il linciaggio a morte di un terrorista qualche mese fa a Beer Sheva, salvo scoprire in seguito che non si trattava di un terrorista ma di un passante, solo un po’ scuro di pelle. O il sistematico crivellare di colpi i baby terroristi armati di coltellini e forbici, non per neutralizzarli (basta un colpo alle gambe – o un pugno in faccia), ma per sfogare la tensione accumulata giorno dopo giorno di chi-va-là. Per quanto non abbia vissuto a Gerusalemme prima dell’attuale stato poliziesco, ho come l’impressione che ogni misura di sicurezza vada a sottrarre la responsabilità degli individui gli uni verso gli altri, corrodendo il rapporto di fiducia che dovrebbe essere alla base della civiltà. Nei rispetti del potenziale nemico, in Israele e in particolare a Gerusalemme, non si cerca di costruire fiducia e interdipendenza, ma solo di essere pronti per il prossimo attacco: razzi terra-aria per Gaza, carri armati per la Siria, areonautica per l’Iran, cittadini armati per i palestinesi. Queste misure preventive non fanno che accrescere l’odio alla base degli attacchi, ma al contempo ne neutralizza la forza, e questo è missione compiuta, per gli israeliani, perché apparentemente il risultato è lo stesso: puoi girare in strada tranquillo. Quel che ho capito è che l’imponente dispositivo di sicurezza israeliano è un ottimo motivo per non fare la pace con i nemici: che bisogno c’è? Oltre ad essere incompatibile con i principi dei nostri Stati di diritto, per cui è vietato il profiling, cioè il trattamento differenziale su base etnica, religiosa o politica, la punizione collettiva, la pena deterrente con le sue rappresagli d’onore e altro, questa logica schiera le persone su fronti avversi sulla presunzione di colpevolezza, piuttosto che avvicinarle in quanto tutte potenziali vittime di attacchi. Il modello sicurista israeliano, per quanto apparentemente accattivante, non è alla nostra portata perché appartiene ad un altro universo culturale, un contesto militarista e tribale che l’Europa, se mai l’abbia avuto, ha abbandonato con l’Illuminismo. Non mi sembra il caso di tornarci nel giro di pochi mesi per qualche attacco terroristico.
Piuttosto, potremmo imparare un antidoto allo scontro di civiltà proprio là dove meno ce lo aspetteremmo: la stessa Israele. La trama romanzesca dello Stato Ebraico, infatti, consiste proprio nella grande riunione famigliare degli ebrei in diaspora: Europa, Americhe, Russia, Australia, Africa, Medio Oriente, perfino India! In questo fazzoletto di terra pieno di filo spinato si sono nei decenni mescolati pacificamente individui provenienti da climi diversi, paesaggi diversi, con lingue diverse, cibi diversi, vestiti diversi, abitudini diverse, obiettivi diversi, sulla base di un solo comun denominatore: l’ebraismo. Ma cos’è l’ebraismo? Non è una fede, perché molti israeliani, tra cui i fondatori della patria, erano dichiaratamente atei; non è una razza, perché il sangue è misto e i diversi colori della pelle non lasciano dubbi; non è una cultura, perché ciascun immigrato ha portato con sé pezzi di diaspora radicalmente diversi tra loro; non è una filosofia, perché le diverse comunità erano riunite da diversi valori; non è un’affinità d’intenti, perché ciascuno tornò dalla diaspora con una diversa idea di felicità e di come perseguirla. Non è facile dire cosa rende gli ebrei tutti ugualmente ebrei, ma tra tutto direi l’antisemitismo, vissuto o pensato. Non a caso, la Legge del Ritorno che definisce il diritto alla cittadinanza israeliana è la falsariga delle leggi razziali di Norimberga. Tutte le tradizioni ebraiche in un modo o nell’altro praticano il culto della persecuzione come metafora della vita, quasi come ordine metafisico: una minaccia alla sopravvivenza della specie e un salvataggio in corner dal retrogusto provvidenziale, mistico. Una cosmologia in bilico tra la disperazione e la gratitudine, un fatalismo che impregna l’aria e la contraddistingue da ogni altra aria. Questa per gli israeliani è l’aria di casa, ciò che li unisce: visto che il mondo ci odia, almeno tra noi amiamoci. In questo momento tralascerei le riflessioni sulla prima causativa – “Visto che…” – perché mi interessa mostrare i poteri strabilianti della reggente – “almeno tra noi amiamoci”. Non c’è una regola precisa su come il concetto venga introiettato: può essere devozione religiosa, idealismo sociale, attrazione per l’esercito, speranza in prospettive professionali, fuga da persecuzioni, noia; ho incontrato di tutto. Ma tutte queste innumerevoli storie possono portare ad un fondamentale sentimento: che Israele è casa. Su questa basilare buona volontà è fiorita dal nulla una nuova civiltà con la propria lingua, la propria musica, la propria industria, la propria personalità, e una società tutto sommato coesa: la cura e la guida di questa buona volontà è quello che l’Europa deve cercare e può imparare da Israele, mutatis mutandis.
Per dare un’idea della portentosa macchina dell’integrazione che Israele ha messo in atto, si pensi che alla nascita nel 1948 la nazione consisteva di 800 mila persone, e che nel giro di vent’anni altri 800 mila ebrei cacciati dai Paesi arabi vennero accolti come cittadini. E non è solo questione di numeri: yemeniti, marocchini, iracheni, egiziani, tunisini, afgani, iraniani, i nuovi israeliani erano a tutti gli effetti profughi, avendo dovuto lasciare case e beni, lavoro e conoscenze. Si trovavano catapultati in una nazione appena nata, su un territorio ancora privo di infrastrutture, senza lavoro e soprattutto in un modello di società, il socialismo industrializzato propugnato dall’élite ashkenazita, radicalmente diverso da quello di provenienza. Eppure, non senza discriminazione e disparità che sopravvivono fino ad oggi, si integrarono e impararono a chiamare Israele “casa”, servendo nell’esercito, pagando le tasse, adeguandosi al nuovo sistema di valori, imparando la lingua. Ecco, il miracolo d’integrazione israeliano parte dalla lingua. L’Ulpan, corso intensivo di lingua ebraica, è il cuore della politica di “assorbimento” sionista fin da prima della fondazione dello Stato. Oltre ad essere studiato per guidare il nuovo immigrato in un apprendimento sistematico, l’Ulpan ha lo scopo di fornire un background culturale minimo su cui costruire un’appartenenza: canzoni, storie, personaggi, luoghi, eventi, un corso accelerato di cultura popolare, forse da settimana enigmistica, ma comunque cruciale per muovere i primi passi in una società a tutti gli effetti straniera. Ai miei tempi di ulpanista nel kibbutz Maagan Michael, unico non ebreo negli annali, ho vissuto in prima persona il processo di assimilazione, ma in assenza della “buona volontà” di diventare nuovo cittadino del Paese ho potuto osservare con un certo distacco gli ingranaggi della fabbrica del nuovo israeliano: rari riferimenti biblici e classici, limitati ai grandi exploit nazionalistici come la rivolta di Bar Kochvah e il suicidio collettivo di Masada; introduzione al Talmud come tradizione dell’esilio; silenzio sui millenni di diaspora europea e imbruttimento superstizioso; grande attenzione all’umanesimo ebraico inaugurato da Spinoza e costellato di successi in discipline non-religiose fino ad Einstein, alle tecnologie agricole e alle startup israeliane; culto del Sionismo come movimento laico e socialista in risposta all’antisemitismo europeo e racconto romanzato delle imprese militari israeliane come sua naturale continuazione, dalle guerre contro eserciti regolari (Sei Giorni e Kippur), alla difesa dal terrorismo (operazione Entebbe) e al salvataggio di ebrei in diaspora (operazione Salomon), ciascuna con veterani dell’esercito a raccontarla in prima persona; accenno all’occupazione della Palestina come fase di una tattica militare estemporanea; due lezioni sull’Olocausto nel giorno della memoria, coronate da gita di classe al museo dei combattenti di Varsavia e alla fabbrica clandestina di armi per la guerra d’Indipendenza del ’48, come eventi logicamente connessi; scoperta dell’universo kibbutz come modello educativo e punta di diamante nel progresso dello Stato; nessun riferimento alla cultura araba (mussulmana, cristiana o ebraica di sorta), essendo gli arabi solo comparse accidentali sul palco in cui il nuovo ebreo è il protagonista indiscusso; cultura generale attraverso canti popolari e hit popolari fino ai giorni nostri. Tra le altre cose abbiamo imparato i nomi degli uccelli e dei fiori locali, distinguendo diversi tipi di aironi e di papaveri; abbiamo camminato nel deserto per vedere da vicino un certo minerale che si trova solo lì, e abbiamo piantato gli alberi nel giorno nazionale a questo dedicato: questo per dare un’idea del grado di specificità della formazione a cui mira l’Ulpan. Ci si chiederà, perché mai investire su dettagli così trascurabili con gente appena arrivata che non sa ancora da che parte è girata? L’obiettivo è dare ai nuovi israeliani una presa immediata sul territorio e le sue peculiarità, togliendo da subito l’imbarazzo del neofita: dopo due mesi in Israele un russo che non sa ancora leggere il tabellone degli arrivi dei treni può però riconoscere i diversi tipi di papaveri, come solo un locale sa fare, e questo in un certo senso gli dà il diritto di “sentirsi a casa”. In quanto nazione di immigrati, poi, nessuno storcerà il naso per il suo accento o metterà in discussione il suo status di cittadino.
L’Ulpan, gratuito per gli ebrei, è finanziato e organizzato negli aspetti logistici dall’Agenzia Ebraica, che tra le altre cose smista gli iscritti nei diversi Ulpan a seconda di età ed orientamento social-ideologico: Maagan Michael raccoglie giovani in età esercito, di cui alla fine più della metà si ferma in Israele e si arruola. Il programma di studi è ministeriale ma declinato a seconda dell’istituto che effettivamente lo eroga: Maagan Michael ha il gusto anacronistico dell’Ulpan per sionisti degli anni ’30, futuri contadini e combattenti in una terra ancora vergine su cui costruire una società giusta. Invece all’Ulpan dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove metà degli studenti sono arabi che perfezionano la lingua in vista degli studi accademici, un quarto cristiani stranieri studenti di Bibbia e teologia, e un quarto nuovi immigrati ebrei, l’accento è meno militarista-pionieristico ma più indirizzato ad aspetti storici, giuridici ed economici dello Stato d’Israele, il suo sistema stradale e i suoi acquedotti, i suoi scrittori e i suoi scienziati. Come studente a Gerusalemme, dopo un anno di kibbutz, ho finalmente capito che Israele non è più una terra vergine su cui costruire una società giusta, ma una terra che ne ha viste troppe in pochissimo tempo e che quindi, in classe, è meglio non parlare di politica, di storia e di valori. Ma per centinaia di migliaia di israeliani, prima di essere piazzati in tranquilli sobborghi di Tel Aviv e Haifa, kibbutz e moshav in Galilea e centro o in qualche tranquilla colonia come Ariel e Maale Adumim, l’identità nazionale si è cristallizzata sulla versione ufficiale di quei pochi mesi di Ulpan: si sentono cittadini secondo le formule che hanno introiettato nel corso di lingua. Per questo l’Ulpan è da sempre la chiave di accesso alla politica d’integrazione israeliana e, per chi vuole vederlo, la cartina di tornasole della sua storiografia ufficiale.
I mutatis mutandis sono troppi da snocciolare qui, ma la mia intuizione è chiara: il successo di una società pluralista sta nella sua politica d’integrazione, che a sua volta richiede come punto di partenza la buona volontà dell’integrante di essere integrato. Apparentemente Israele ha l’ebraismo come ovvio catalizzatore della volontà d’integrazione, ma a ben vedere non è proprio così: si stima che un terzo del milione e mezzo di russi arrivati a inizio anni Novanta in Israele non siano ebrei, né di sangue né di tradizione, così come l’ebraismo dei Falasha e Falash Mura etiopi è, per così dire, esotico. In questi casi la motivazione del migrante era una miglior prospettiva economica, mentre quella dello Stato d’Israele la solita competizione demografica con gli arabi israeliani. Ma tanto è bastato per fare di questa materia grezza buoni cittadini. Le Costituzioni degli Stati Europei includono già in nuce appigli su cui la buona volontà dei migranti può attecchire: il lavoro come mezzo di successo individuale e sociale, la tutela dei diritti individuali e l’uguaglianza davanti alla legge. Chiunque bussi alla porta delle nostre nazioni ed è disposto ad accettare questi valori ha potenziale d’integrazione, e credo che si tratti della schiacciante maggioranza dei casi. La grande assente è piuttosto l’istituzione responsabile di prendere questo potenziale e farlo maturare, dargli una forma e una voce, e in particolare una lingua: in Italia non c’è l’Ulpan. Non c’è un programma di studio intensivo e progressivo della lingua, distribuito su pochi mesi intensivi o un anno diluito; non c’è un istituto di matching tra la domanda e l’offerta, come è l’Agenzia Ebraica tra movimenti giovanili ebraici in diaspora e kibbutz/esercito/aziende in Israele, per cui immigrati di un certo tipo vengono avvicinati fin da subito a realtà di un certo tipo; non c’è alcuna attenzione a fornire, oltre che uno status di nuovo cittadino, una background da nuovo cittadino, che sappia canticchiare le canzoni alla radio, capire le battute di un comico in televisione o riconoscere i diversi tipi di papavero – o di pasta, nel nostro caso; non c’è alcun contatto in loco, là sulle coste dove si accumulano disperati in cerca di un futuro leggermente migliore, per identificarli, distinguere i criminali in fuga da profughi, e smistarli per grado di educazione e conoscenza della lingua; non esiste un programma di mobilità nazionale che faccia conoscere agli italiani l’Italia e gli altri italiani, appianando le differenze e ossigenando il provincialismo imperante: in Israele è l’esercito, altro enorme motore dell’integrazione sociale, da noi potrebbe essere il servizio civile. L’integrazione non nasce sotto gli alberi, ma nei programmi ministeriali. Quindi, finché non si porrà fine ai disastri umanitari che portano milioni di persone ad attraversare deserti e mari per arrivare da noi, la carta migliore che abbiamo è investire su questi flussi piuttosto che fingere che non esistano, e investire può voler dire prendere il ministero dell’Immigrazione israeliano e copiarlo pari pari in Italia, depurato delle sue derive razziste e particolariste, ma soprattutto dell’identificazione di una minaccia esterna come strumento per la coesione interna. Ad ogni modo, ironico pensare al cinismo e al disgusto con cui gli israeliani parlano dell’integrazione, pilastro della civiltà europea, quando proprio Israele è, a ben vedere, uno dei casi di fusione interculturale meglio riusciti della storia.