Imitare Israele. Ma nel modo giusto

Ho visto già diversi trafiletti di giornale titolare ad Israele come modello di sicurezza a cui guardare, ora che siamo stati improvvisamente gettati nella guerra di Gog e Magog con l’estremismo islamico. L’idea sarebbe prendere esempio dall’efficienza e scrupolosità della security dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, con i suoi interrogatori individuali, le sue corsie preferenziali, i suoi metal e chemical detector: grazie a queste procedure sistematiche, l’aeroporto e quindi la porta d’ingresso ad Israele è una fortezza inespugnabile. Sono convinto che investire in intelligence sia un ottimo modo per prevenire attentati, ma ho seri dubbi sull’adozione del modello Israeliano come policy europea. Primo, per una questione di finanze: Israele investe in sicurezza una cosa come un quinto o un quarto del proprio PIL, e circa 180 mila dei suoi giovani tra i 18 e i 21 anni, coscritti nell’esercito di leva, senza contare i 500 mila riservisti regolarmente addestrati. Questa enorme macchina da guerra è impegnata in altre attività che non la sicurezza in aeroporto, trovandosi Israele circondata da vicini di casa non proprio amichevoli e pure dotati di eserciti regolari, tra i quali la Siria che è letteralmente una polveriera. D’altra parte, Israele è completamente blindata entro una cinta muraria che la divide dagli Stati confinanti, con solo tre valichi per la Giordania, uno per l’Egitto e uno per Gaza. E anche all’interno del Paese, per quasi metà consistente dei territori palestinesi occupati, corrono qua e là muri in cemento di otto metri d’altezza, con posti di blocco e torri di controllo. Questo mi porta al secondo punto: che in Europa, a differenza che in Israele, non ci sono confini nè tra Stati, né tra regioni, né tra città. Cosa ce ne facciamo, quindi, di una Malpensa in stile israeliano quando il terrorista può arrivare in prima classe dal passo del Brennero o dal Frejus, o in crociera da Maiorca? Si potrebbe israelianizzare sia il Brennero, che il Frejus, che tutti i porti della penisola, si dirà. Forse è questo che hanno in mente i leghisti. Ma a parte il costo, una tale misura ha enormi costi sulla qualità della vita: immaginate passare un metal detector ogni volta che prendete un treno e una nave, essere circondati da telecamere e uomini armati che vi osservano da dietro occhiali scuri; immaginate di dover raccontare i fatti vostri e di scartare tutti i vostri imballaggi in valigia davanti ad un giovincello in divisa ogni volta che vi fate una vacanzina in Croazia o in Francia. Immaginate che la polizia possa entrarvi in casa o perquisirvi in strada senza un mandato, altro che intercettazioni. Ecco questa è la realtà in Israele, e in particolare a Gerusalemme, che vive in stato d’emergenza da sempre, mai revocato. Niente di tragico, ci si abitua, ma il fastidio resta. E restano strascichi profondi su come squadri chi sale sul tram o cosa ci fa quello zaino incustodito sotto il lampione, su andare a fare la spesa in posti poco affollati e sull’aspettare il bus dietro i blocchi di cemento anti-investimento. O il girare armati, per chi ha il porto d’armi – praticamente tutti. Impercettibili tic di paranoia che a volte rigurgitano barbarie, come il linciaggio a morte di un terrorista qualche mese fa a Beer Sheva, salvo scoprire in seguito che non si trattava di un terrorista ma di un passante, solo un po’ scuro di pelle. O il sistematico crivellare di colpi i baby terroristi armati di coltellini e forbici, non per neutralizzarli (basta un colpo alle gambe – o un pugno in faccia), ma per sfogare la tensione accumulata giorno dopo giorno di chi-va-là. Per quanto non abbia vissuto a Gerusalemme prima dell’attuale stato poliziesco, ho come l’impressione che ogni misura di sicurezza vada a sottrarre la responsabilità degli individui gli uni verso gli altri, corrodendo il rapporto di fiducia che dovrebbe essere alla base della civiltà. Nei rispetti del potenziale nemico, in Israele e in particolare a Gerusalemme, non si cerca di costruire fiducia e interdipendenza, ma solo di essere pronti per il prossimo attacco: razzi terra-aria per Gaza, carri armati per la Siria, areonautica per l’Iran, cittadini armati per i palestinesi. Queste misure preventive non fanno che accrescere l’odio alla base degli attacchi, ma al contempo ne neutralizza la forza, e questo è missione compiuta, per gli israeliani, perché apparentemente il risultato è lo stesso: puoi girare in strada tranquillo. Quel che ho capito è che l’imponente dispositivo di sicurezza israeliano è un ottimo motivo per non fare la pace con i nemici: che bisogno c’è? Oltre ad essere incompatibile con i principi dei nostri Stati di diritto, per cui è vietato il profiling, cioè il trattamento differenziale su base etnica, religiosa o politica, la punizione collettiva, la pena deterrente con le sue rappresagli d’onore e altro, questa logica schiera le persone su fronti avversi sulla presunzione di colpevolezza, piuttosto che avvicinarle in quanto tutte potenziali vittime di attacchi. Il modello sicurista israeliano, per quanto apparentemente accattivante, non è alla nostra portata perché appartiene ad un altro universo culturale, un contesto militarista e tribale che l’Europa, se mai l’abbia avuto, ha abbandonato con l’Illuminismo. Non mi sembra il caso di tornarci nel giro di pochi mesi per qualche attacco terroristico.

Piuttosto, potremmo imparare un antidoto allo scontro di civiltà proprio là dove meno ce lo aspetteremmo: la stessa Israele. La trama romanzesca dello Stato Ebraico, infatti, consiste proprio nella grande riunione famigliare degli ebrei in diaspora: Europa, Americhe, Russia, Australia, Africa, Medio Oriente, perfino India! In questo fazzoletto di terra pieno di filo spinato si sono nei decenni mescolati pacificamente individui provenienti da climi diversi, paesaggi diversi, con lingue diverse, cibi diversi, vestiti diversi, abitudini diverse, obiettivi diversi, sulla base di un solo comun denominatore: l’ebraismo. Ma cos’è l’ebraismo? Non è una fede, perché molti israeliani, tra cui i fondatori della patria, erano dichiaratamente atei; non è una razza, perché il sangue è misto e i diversi colori della pelle non lasciano dubbi; non è una cultura, perché ciascun immigrato ha portato con sé pezzi di diaspora radicalmente diversi tra loro; non è una filosofia, perché le diverse comunità erano riunite da diversi valori; non è un’affinità d’intenti, perché ciascuno tornò dalla diaspora con una diversa idea di felicità e di come perseguirla. Non è facile dire cosa rende gli ebrei tutti ugualmente ebrei, ma tra tutto direi l’antisemitismo, vissuto o pensato. Non a caso, la Legge del Ritorno che definisce il diritto alla cittadinanza israeliana è la falsariga delle leggi razziali di Norimberga. Tutte le tradizioni ebraiche in un modo o nell’altro praticano il culto della persecuzione come metafora della vita, quasi come ordine metafisico: una minaccia alla sopravvivenza della specie e un salvataggio in corner dal retrogusto provvidenziale, mistico. Una cosmologia in bilico tra la disperazione e la gratitudine, un fatalismo che impregna l’aria e la contraddistingue da ogni altra aria. Questa per gli israeliani è l’aria di casa, ciò che li unisce: visto che il mondo ci odia, almeno tra noi amiamoci. In questo momento tralascerei le riflessioni sulla prima causativa – “Visto che…” – perché mi interessa mostrare i poteri strabilianti della reggente – “almeno tra noi amiamoci”. Non c’è una regola precisa su come il concetto venga introiettato: può essere devozione religiosa, idealismo sociale, attrazione per l’esercito, speranza in prospettive professionali, fuga da persecuzioni, noia; ho incontrato di tutto. Ma tutte queste innumerevoli storie possono portare ad un fondamentale sentimento: che Israele è casa. Su questa basilare buona volontà è fiorita dal nulla una nuova civiltà con la propria lingua, la propria musica, la propria industria, la propria personalità, e una società tutto sommato coesa: la cura e la guida di questa buona volontà è quello che l’Europa deve cercare e può imparare da Israele, mutatis mutandis.
Per dare un’idea della portentosa macchina dell’integrazione che Israele ha messo in atto, si pensi che alla nascita nel 1948 la nazione consisteva di 800 mila persone, e che nel giro di vent’anni altri 800 mila ebrei cacciati dai Paesi arabi vennero accolti come cittadini. E non è solo questione di numeri: yemeniti, marocchini, iracheni, egiziani, tunisini, afgani, iraniani, i nuovi israeliani erano a tutti gli effetti profughi, avendo dovuto lasciare case e beni, lavoro e conoscenze. Si trovavano catapultati in una nazione appena nata, su un territorio ancora privo di infrastrutture, senza lavoro e soprattutto in un modello di società, il socialismo industrializzato propugnato dall’élite ashkenazita, radicalmente diverso da quello di provenienza. Eppure, non senza discriminazione e disparità che sopravvivono fino ad oggi, si integrarono e impararono a chiamare Israele “casa”, servendo nell’esercito, pagando le tasse, adeguandosi al nuovo sistema di valori, imparando la lingua. Ecco, il miracolo d’integrazione israeliano parte dalla lingua. L’Ulpan, corso intensivo di lingua ebraica, è il cuore della politica di “assorbimento” sionista fin da prima della fondazione dello Stato. Oltre ad essere studiato per guidare il nuovo immigrato in un apprendimento sistematico, l’Ulpan ha lo scopo di fornire un background culturale minimo su cui costruire un’appartenenza: canzoni, storie, personaggi, luoghi, eventi, un corso accelerato di cultura popolare, forse da settimana enigmistica, ma comunque cruciale per muovere i primi passi in una società a tutti gli effetti straniera. Ai miei tempi di ulpanista nel kibbutz Maagan Michael, unico non ebreo negli annali, ho vissuto in prima persona il processo di assimilazione, ma in assenza della “buona volontà” di diventare nuovo cittadino del Paese ho potuto osservare con un certo distacco gli ingranaggi della fabbrica del nuovo israeliano: rari riferimenti biblici e classici, limitati ai grandi exploit nazionalistici come la rivolta di Bar Kochvah e il suicidio collettivo di Masada; introduzione al Talmud come tradizione dell’esilio; silenzio sui millenni di diaspora europea e imbruttimento superstizioso; grande attenzione all’umanesimo ebraico inaugurato da Spinoza e costellato di successi in discipline non-religiose fino ad Einstein, alle tecnologie agricole e alle startup israeliane; culto del Sionismo come movimento laico e socialista in risposta all’antisemitismo europeo e racconto romanzato delle imprese militari israeliane come sua naturale continuazione, dalle guerre contro eserciti regolari (Sei Giorni e Kippur), alla difesa dal terrorismo (operazione Entebbe) e al salvataggio di ebrei in diaspora (operazione Salomon), ciascuna con veterani dell’esercito a raccontarla in prima persona; accenno all’occupazione della Palestina come fase di una tattica militare estemporanea; due lezioni sull’Olocausto nel giorno della memoria, coronate da gita di classe al museo dei combattenti di Varsavia e alla fabbrica clandestina di armi per la guerra d’Indipendenza del ’48, come eventi logicamente connessi; scoperta dell’universo kibbutz come modello educativo e punta di diamante nel progresso dello Stato; nessun riferimento alla cultura araba (mussulmana, cristiana o ebraica di sorta), essendo gli arabi solo comparse accidentali sul palco in cui il nuovo ebreo è il protagonista indiscusso; cultura generale attraverso canti popolari e hit popolari fino ai giorni nostri. Tra le altre cose abbiamo imparato i nomi degli uccelli e dei fiori locali, distinguendo diversi tipi di aironi e di papaveri; abbiamo camminato nel deserto per vedere da vicino un certo minerale che si trova solo lì, e abbiamo piantato gli alberi nel giorno nazionale a questo dedicato: questo per dare un’idea del grado di specificità della formazione a cui mira l’Ulpan. Ci si chiederà, perché mai investire su dettagli così trascurabili con gente appena arrivata che non sa ancora da che parte è girata? L’obiettivo è dare ai nuovi israeliani una presa immediata sul territorio e le sue peculiarità, togliendo da subito l’imbarazzo del neofita: dopo due mesi in Israele un russo che non sa ancora leggere il tabellone degli arrivi dei treni può però riconoscere i diversi tipi di papaveri, come solo un locale sa fare, e questo in un certo senso gli dà il diritto di “sentirsi a casa”. In quanto nazione di immigrati, poi, nessuno storcerà il naso per il suo accento o metterà in discussione il suo status di cittadino.

L’Ulpan, gratuito per gli ebrei, è finanziato e organizzato negli aspetti logistici dall’Agenzia Ebraica, che tra le altre cose smista gli iscritti nei diversi Ulpan a seconda di età ed orientamento social-ideologico: Maagan Michael raccoglie giovani in età esercito, di cui alla fine più della metà si ferma in Israele e si arruola. Il programma di studi è ministeriale ma declinato a seconda dell’istituto che effettivamente lo eroga: Maagan Michael ha il gusto anacronistico dell’Ulpan per sionisti degli anni ’30, futuri contadini e combattenti in una terra ancora vergine su cui costruire una società giusta. Invece all’Ulpan dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove metà degli studenti sono arabi che perfezionano la lingua in vista degli studi accademici, un quarto cristiani stranieri studenti di Bibbia e teologia, e un quarto nuovi immigrati ebrei, l’accento è meno militarista-pionieristico ma più indirizzato ad aspetti storici, giuridici ed economici dello Stato d’Israele, il suo sistema stradale e i suoi acquedotti, i suoi scrittori e i suoi scienziati. Come studente a Gerusalemme, dopo un anno di kibbutz, ho finalmente capito che Israele non è più una terra vergine su cui costruire una società giusta, ma una terra che ne ha viste troppe in pochissimo tempo e che quindi, in classe, è meglio non parlare di politica, di storia e di valori. Ma per centinaia di migliaia di israeliani, prima di essere piazzati in tranquilli sobborghi di Tel Aviv e Haifa, kibbutz e moshav in Galilea e centro o in qualche tranquilla colonia come Ariel e Maale Adumim, l’identità nazionale si è cristallizzata sulla versione ufficiale di quei pochi mesi di Ulpan: si sentono cittadini secondo le formule che hanno introiettato nel corso di lingua. Per questo l’Ulpan è da sempre la chiave di accesso alla politica d’integrazione israeliana e, per chi vuole vederlo, la cartina di tornasole della sua storiografia ufficiale.
I mutatis mutandis sono troppi da snocciolare qui, ma la mia intuizione è chiara: il successo di una società pluralista sta nella sua politica d’integrazione, che a sua volta richiede come punto di partenza la buona volontà dell’integrante di essere integrato. Apparentemente Israele ha l’ebraismo come ovvio catalizzatore della volontà d’integrazione, ma a ben vedere non è proprio così: si stima che un terzo del milione e mezzo di russi arrivati a inizio anni Novanta in Israele non siano ebrei, né di sangue né di tradizione, così come l’ebraismo dei Falasha e Falash Mura etiopi è, per così dire, esotico. In questi casi la motivazione del migrante era una miglior prospettiva economica, mentre quella dello Stato d’Israele la solita competizione demografica con gli arabi israeliani. Ma tanto è bastato per fare di questa materia grezza buoni cittadini. Le Costituzioni degli Stati Europei includono già in nuce appigli su cui la buona volontà dei migranti può attecchire: il lavoro come mezzo di successo individuale e sociale, la tutela dei diritti individuali e l’uguaglianza davanti alla legge. Chiunque bussi alla porta delle nostre nazioni ed è disposto ad accettare questi valori ha potenziale d’integrazione, e credo che si tratti della schiacciante maggioranza dei casi. La grande assente è piuttosto l’istituzione responsabile di prendere questo potenziale e farlo maturare, dargli una forma e una voce, e in particolare una lingua: in Italia non c’è l’Ulpan. Non c’è un programma di studio intensivo e progressivo della lingua, distribuito su pochi mesi intensivi o un anno diluito; non c’è un istituto di matching tra la domanda e l’offerta, come è l’Agenzia Ebraica tra movimenti giovanili ebraici in diaspora e kibbutz/esercito/aziende in Israele, per cui immigrati di un certo tipo vengono avvicinati fin da subito a realtà di un certo tipo; non c’è alcuna attenzione a fornire, oltre che uno status di nuovo cittadino, una background da nuovo cittadino, che sappia canticchiare le canzoni alla radio, capire le battute di un comico in televisione o riconoscere i diversi tipi di papavero – o di pasta, nel nostro caso; non c’è alcun contatto in loco, là sulle coste dove si accumulano disperati in cerca di un futuro leggermente migliore, per identificarli, distinguere i criminali in fuga da profughi, e smistarli per grado di educazione e conoscenza della lingua; non esiste un programma di mobilità nazionale che faccia conoscere agli italiani l’Italia e gli altri italiani, appianando le differenze e ossigenando il provincialismo imperante: in Israele è l’esercito, altro enorme motore dell’integrazione sociale, da noi potrebbe essere il servizio civile. L’integrazione non nasce sotto gli alberi, ma nei programmi ministeriali. Quindi, finché non si porrà fine ai disastri umanitari che portano milioni di persone ad attraversare deserti e mari per arrivare da noi, la carta migliore che abbiamo è investire su questi flussi piuttosto che fingere che non esistano, e investire può voler dire prendere il ministero dell’Immigrazione israeliano e copiarlo pari pari in Italia, depurato delle sue derive razziste e particolariste, ma soprattutto dell’identificazione di una minaccia esterna come strumento per la coesione interna. Ad ogni modo, ironico pensare al cinismo e al disgusto con cui gli israeliani parlano dell’integrazione, pilastro della civiltà europea, quando proprio Israele è, a ben vedere, uno dei casi di fusione interculturale meglio riusciti della storia.

Non gli spari, non le botte

Del gran rumore attorno a Israele e Palestina “violenza” pare essere il concetto di maggiore appeal. Condivido il sentimento, ma più il mio tempo da abitante di Gerusalemme passa e più lascio i pensieri, di tanto in tanto e senza esagerare, correre sul conflitto, tanto più sento l’esigenza di ricapitolare quale violenza ho di fronte, quale il suo obiettivo e quale il suo meccanismo. Di seguito, mi ripropongo di ridisegnare i confini di questa violenza, cambiandole i connotati per renderla più simile al volto che vedo nella strada, nei giornali, nei posti di blocco, nel vociare sull’autobus, nelle leggi dello Stato.
Partirò dalla violenza in senso proprio, quella degli spintoni, delle sassate, delle coltellate, dei lacrimogeni, delle molotov, dei pestaggi, delle fucilate e dei mezzi blindati, perchè esiste e perchè non mi soddisfa: non è questa la violenza che sento e che turba il mio animo e quello dei milioni che vivono quaggiù. Di violenza fisica nei territori occupati ce n’è tanta, su base quotidiana e su larga scala, capillarmente documentata o totalmente ignorata, alla luce del sole o annidata nel buio degli arresti notturni, nelle torture nelle carceri, degli omicidi chirurgici. E’ per lo più eseguita in modo ordinato e sistematico, organizzata secondo le categorie della burocrazia militare, dosata e disciplinata da ordini superiori. Parlare di violenza fisica palestinese, invece, lascia un po’ a bocca asciutta: almeno da quando sono arrivato qui quasi quattro anni fa, è sporadica, disorganizzata, casuale e quindi poco efficiente. Vale a dire, è molta di più la violenza israeliana che quella palestinese, in termini di case distrutte, arresti, condanne – nulli verso gli israeliani -, ferimenti e omicidi – sporadici sulla popolazione civile israeliana e talvolta su militari. Tale differenza è dovuta in grandissima parte alla sproporzione di mezzi: anche volendo, per i palestinesi non è facile organizzarsi per eseguire violenza mirata senza farsi beccare dai servizi di sicurezza israeliani. Questo tipo di violenza è il terrorismo dei titoli di giornale. Dopo lunghi ripensamenti, sono giunto alla conclusione che se intendiamo il terrorismo come per definizione ingiustificato, allora non sono disposto a chiamare tale violenza terrorismo. Vale a dire, ritengo l’attacco a civili e soldati israeliani da parte palestinese il loro strumento di combattimento in assenza di un esercito regolare, una violenza “dalla base” senza benedizione di alcuna autorità riconosciuta. Fenomeni analoghi sono considerati in altri contesti resistenza, guerriglia, rivolta, e non intendo adesso mostrare come parte integrante della mitologia israeliana glorifichi il terrorismo quando è toccato ai primi sionisti servirsene. Il “terrorismo” attraversa i secoli, da Spartaco alla Rivoluzione Francese ai partigiani alle Brigate Rosse, ma dal suo mero carattere non-istituzionale ritengo non si possa inferire nulla sulla sua giustificazione morale, esattamente come dal mero carattere istituzionale delle guerre non si può inferire nulla sulla loro giustificazione morale. La differenza sostanziale tra i due – che poi sostanziale non è, ma sempre una fastidiosa sfumatura di grigi – è che le guerre sono dichiarate e firmate da rappresentanti che si riconoscono a vicenda, mentre nei casi di terrorismo manca almeno uno degli interlocutori. Si può intendere il terrorismo in un’accezione più specifica, come tentativo di generare panico in una società attaccando civili innocenti. In questo senso, mentre la violenza palestinese mira deliberatamente a tale obiettivo, per l’esercito israeliano le vittime civili sono incidenti di percorso o un male necessario al mantenimento della sicurezza nazionale. Ma ho alcune osservazioni al riguardo. Primo, l’eventualità di tali incidenti o sacrifici è tenuta in talmente scarsa considerazione nella tattica militare israeliana e nell’opinione pubblica, per quelli che sono i miei standard di moralità e civiltà, che ai miei occhi non è un aspetto discriminante tra i due contendenti: la morte di un bambino palestinese impallinato ad un posto di blocco non fa scandalo, ma suscita un’alzata di spalle e un indicibile “probabilmente se lo meritava” o l’eventuale ammissione che sia stato un errore umano, e finisce lì. Per l’israeliano medio e per la giustizia. La ministra della giustizia ha intrapreso una crociata personale contro i mitologici lanciatori di pietre in kefiah: per lei, sono da abbattere sul luogo in quanto attentano alla vita dei soldati, chiusi dentro i loro mezzi blindati. E anche su larga scala, le cicliche devastazioni di Gaza come spropositata risposta ai suoi missilini non disturbano le coscienze d’Israele, e non per la loro giustificazione morale: i motivi e le circostanze dell’uccisione di migliaia di civili restano ovviamente un segreto di Stato, quindi nessuno ha idea se sia una guerra giusta e condotta giustamente. Il benestare degli israeliani sulle vittime civili viene dalla fiducia a priori che vi siano buone ragioni per la strage, puntellata del fiorente circo mediatico attorno agli highlights del combattimento, che seminando una confusione ed eccitazione collettiva non lascia spiragli per la critica razionale. Provare per credere. L’elasticità degli scrupoli morali dell’israeliano medio può essere tesa ad libitum quando viene spezzato l’incantesimo dello sheket, il silenzio: da riconquistare ad ogni costo. Secondo, per un guerrigliero palestinese tutti i sionisti sono oppressori e usurpatori della patria, ex soldati e riservisti 
dell’esercito occupante , e quindi meritevoli di morire: nella loro mente, non stanno colpendo civili. E davvero in Israele la differenza tra civile e militare è spesso sfumata, basta vedere il numero di armi da fuoco per le vie di Gerusalemme ovest, e dell’utilizzo che se n’è fatto negli ultimi mesi: le condanne a morte degli attentatori sono eseguite in loco spesso da cittadini armati, non da tribunali e soldati. Terzo, i mezzi a disposizione della milizia palestinese non permettono di colpire obiettivi militari significativi, mentre gli obiettivi civili restano più abbordabili: la violenza morale è un lusso. Quel che è certo, è che le vittime e i danni civili del conflitto sono innumerevolmente maggiori tra i  palestinesi che tra gli israeliani, nonostante la disparità di mezzi e la violenza chirurgica, e che quindi a ragione i palestinesi vivono più “nel terrore” che gli israeliani. Questo excursus era per dire che violenza fisica israeliana e palestinese, per quanto mi riguarda, hanno a priori lo stesso status morale. A posteriori, poi, mi chiedo se ci sia un motivo per cui solo uno dei due fronti sia un’entità politica riconosciuta e sostenuta globalmente, mentre l’altro no, e se magari questo, sì, porti con sè una valenza morale. Ma queste sono speculazioni per il prossimo pezzo.

L’assenza di perdite israeliane non significa che manchino la volontà e i tentativi di colpire da parte palestinese: è un desiderio palpabile e spesso riscontrabile esplicitamente, ma la sicurezza israeliana è praticamente invulnerabile. Al contrario, invece, la violenza fisica israeliana è quasi nulla rispetto alla potenza di fuoco disponibile: se Israele volesse addirittura distruggere una per una tutte le case palestinesi e deportare o uccidere ogni palestinese, potrebbe farlo senza grandi difficoltà tecniche. Questo mi fa riflettere su un primo fatto: che non è una guerra. Non si può parlare sensatamente di due fronti contrapposti, ma del fronte israeliano alle prese con spinte interne contrapposte: più violenza o meno violenza. Questo e solo questo, se non in parte irrisoria in questioni interne e in parte maggiore per crisi internazionali, è ciò che determina dove e quando avviene un arresto, una manifestazione, un bombardamento. I palestinesi hanno una parte decisamente minoritaria nel corso degli eventi. E su un secondo fatto: Israele non vuole distruggere la Palestina, non ne sta devastando le proprietà e non ne sta sterminando la popolazione, pur avendone i mezzi. Parlare di olocausto palestinese è fuori luogo, e quand’anche ci furono episodi di pulizia etnica, come nella guerra del ’48, non furono eccidi di massa ma espulsioni da villaggi ed espropriazioni per giudaizzare i nuovi territori conquistati.

Al contrario, Israele sta paradossalmente sostenendo la popolazione palestinese più di qualunque altro Stato al mondo. Fornisce, alla West Bank in particolare, acqua ed elettricità, accesso a porti ed aeroporti, ospedali e trasporti, lavoro e istruzione. E paradossalmente in questo intravedo più profondamente i tratti della violenza del conflitto, che non nei mitra e nel filo spinato. Mi spiego sbrigativamente: Israele tiene per le palle la popolazione palestinese. I bisogni primari di ormai tre milioni di persone, in West Bank, e due milioni, a Gaza, sono sotto il controllo del governo “nemico”, che li elargisce evitando l’ecatombe per sete e fame. I prodotti che i palestinesi consumano passano in gran parte da Israele, perchè sono stati costruiti confini invalicabili, così come l’acqua che bevono, perchè Israele ha controllo sulle falde. E se anche tra gli insediamenti palestinesi ci sono consistenti allacciamenti abusivi a elettricità e acqua ed edilizia abusiva, i palestinesi pagano dazi ineludibili su ogni bicchiere di latte che bevono, su ogni macchina che comprano e su ogni computer che usano, perchè il latte viene da Tnuva, le macchine dal porto di Ashkelon e i computer da Tel Aviv. E li pagano spesso coi soldi dei coloni ebrei per cui hanno costruito case e strade e fatto i guardiani notturni, piuttosto che con le più modeste paghe dei datori di lavoro palestinesi. Ben oltre l’andare a votare o il vendere terra al governo israeliano, i palestinesi sono normalizzati nel sistema economico israeliano fino al collo. Con ciò, per essere un popolo oppresso da uno dei più potenti eserciti al mondo, con la disoccupazione fissa al 20%, in un territorio desertico, senza porti e aeroporti, confinante con Paesi in guerra, i palestinesi non se la passano male: non si muore di fame e anzi i consumi sono alti rispetto al resto del Medio Oriente, come anche la scolarizzazione, accessibile sia nei territori che in Israele. Inoltre, uno scenario di guerra civile e pulizia etnica in stile Siria è fuori discussione, finchè Israele protegge i confini esterni della Palestina e del suo quasi 15%  di popolazione ebraica (nella West Bank). Ovviamente, il sostegno di Israele alla Palestina è il prezzo da pagare per la sua cattività e indigenza indotta, e a quanto pare, dopo cinquant’anni di occupazione, ripaga: se l’occupazione fosse a conti fatti una perdita, non durerebbe da così tanto. Ma anche questa discussione è da rimandare ad altra sede.

Ma allora perchè i palestinesi vogliono l’indipendenza, e sono pronti a rivendicarla con la violenza? Nel cercare di rispondere a questa domanda ho imparato a riconoscere i tratti somatici della violenza profonda in corso nel conflitto israelo-palestinese. Innanzitutto, le masse palestinesi cercarono e cercano di passare sotto il controllo israeliano, in particolare i cristiani per sfuggire l’oppressione da parte dei mussulmani, ma non solo: quando in seguito alla seconda Intifada venne innalzato il muro di separazione dai territori, ci fu il fuggi fuggi verso Israele, sgattaiolando tra i buchi del cantiere e della burocrazia. L’intuizione, poi confermata, era che Israele significava lavoro, istruzione, sanità, e consumi, seppur al prezzo di discriminazione e razzismo, mentre Palestina depressione e immobilità: quartieri di Gerusalemme est, e la città vecchia stessa, furono invasi di ex palestinesi in caccia del documento israeliano, con buona pace della Resistenza: su larga scala, in Palestina come nel resto del mondo, il sogno borghese vince sull’ideologia dell’autodeterminazione. Lo stesso vale per gli arabi israeliani: lungi dal trasferirsi sotto l’Autorità Palestinese, si tengono ben stretta la loro teudat zehut, la carta d’identità israeliana, ad Haifa, Nazareth, Yafo, con i servizi che garantisce. Per questo la spiegazione ideologica non mi convince: non è questo che muove lo zelo palestinese. Nè la fame. Quindi cosa? Secondo me per due principali motivi, entrambi inerenti l’amministrazione israeliana della Palestina e, più in genere, il fondamento antropologico-giuridico-politico dello Stato d’Israele.

Il primo motivo è il profiling su cui si fonda la distribuzione dei diritti e dei doveri. Dalle più piccole alle più grandi questioni, Israele discrimina su base etnica, politica e religiosa, e in questo manifesta la sua natura tribale. Per la verità, questo modello antropologico è condiviso da tutte le popolazioni dell’area circostante: druso, mussulmano, sunnita, sciita, cristiano, copto, maronita, circasso, beduino sono tutte caratterizzazioni ereditarie, non acquisibili nè alienabili. Sia il palestinese che l’israeliano, quando ti chiedono se sei cristiano, non si riferiscono al tuo credo ma al tuo lignaggio: sei nato in una famiglia cristiana? E’ questo che ciò che conta, poi, per quando li riguarda, puoi essere pure ateo. E’ difficile per noi spiegare che il cristianesimo è solo un credo, e come un credo può andare e venire a prescindere dal sangue. Il fatto interessante è che in Israele, tra i Paesi più scolarizzati e tecnologicamente avanzati al mondo,  la logica tribale è legge. Per prendere l’esempio fondamentale: qualsiasi ebreo nel mondo è di diritto cittadino israeliano, se vuole. Questo non in virtù della cittadinanza di un suo antenato, come nel modello di Stato occidentale, ma in virtù della semplice appartenenza al gruppo etnico-religioso. Per un esempio più specifico, in Israele solo per gli ebrei, i drusi e i circassi (4000 individui in tutto) l’esercito è obbligatorio, mentre per le altre minoranze etniche è solo volontario e soggetto a restrizioni politiche: di fatto, i beduini sono ben accolti e  i mussulmani no, ad esempio, mentre l’anno scorso venne avanzata in Parlamento la proposta di arruolare obbligatoriamente gli arabi israeliani cristiani, scatenando un pandemonio. Invece, il principale motivo di esenzione dal servizio militare è lo studio rabbinico. Ancor più nello specifico, i beduini ai bordi dell’Autostrada numero 1 tra Gerusalemme e Gerico non hanno diritti edilizi, mentre le colonie di Maale Adumim e dintorni ovviamente sì e i palestinesi falachim dei dintorni di Gerico sì ma con restrizioni. E così via sui diritti di passaggio ai posti di blocco, sul diritto di lasciare il Paese, sui doveri verso l’erario, sulle concessioni edilizie e commerciali, la legge è declinata per ceppi d’appartenenza: all’interno dello stesso villaggio ci possono essere tre o quattro profili, tutti col proprio specifico corredo giudiziario. Il profiling della burocrazia israeliana è di parecchio agevolato dalla praticamente nulla mobilità etnica delle popolazioni locali: un maronita non sposerà mai e poi mai un’armena, e un cristiano non venderà mai e poi mai la casa ad un mussulmano. I trasgressori pagano un prezzo salato di fronte alla comunità, e spesso scelgono la fuga. A Gerusalemme, in particolare, dove da sempre si accavallano comunità una sull’altra, tira un vento costante di fobia dell’estinzione e ansia della conservazione che paralizza le varie discendenze in un claustrofobico orgoglio. Così l’impiegato della sicurezza all’aeroporto Ben Gurion, superati i corsi preparatori, può riconoscere l’etnia del viaggiatore semplicemente dal cognome e dal nome di suo padre o dalla gradazione della pelle, e comportarsi di conseguenza. E questo è, per quanto ho visto finora, il risvolto drammatico della giurisdizione etnica: che il comportamento individuale è irrilevante nel determinare il trattamento ricevuto. I vari diritti e doveri nei confronti dello Stato d’Israele e, nei territori occupati, dell’Esercito Israeliano che ne fa le veci, non sono attribuiti in base al comportamento individuale, ma in base all’appartenenza, scardinando alla base il nesso causale tra la condotta individuale e le sue conseguenze. Per quanto le generalizzazioni siano spesso utili scorciatoie, quando adottate nell’amministrare la giustizia fanno venire meno la condizione essenziale della fiducia tra governante e governato, cioè la garanzia per cui se tu, individuo, giochi secondo queste regole, non incorrerai in alcuna punizione da parte dell’autorità. L’esempio per me più pertinente della violazione di tale rapporto fiduciario è la punizione collettiva in seguito ad attentati: il terrorista tendenzialmente non sopravvive l’attentato, ma è prassi comune che nei giorni successivi l’esercito abbatta la casa del medesimo con divieto di ricostruzione. Così non importa se sei un buon padre di famiglia che non si è mai invischiato in politica: se il tuo inquilino del piano di sopra è terrorista da un giorno all’altro tu sei sul lastrico. Concesso l’effetto deterrente della pratica, che come l’intero impianto dell’occupazione è in teoria volto a tutelare la sicurezza dei cittadini israeliani, essa porta comunque con sè una conseguenza devastante: essere o non essere terrorista, sei sul lastrico uguale. In teoria uno può cercare di stare alla larga da personaggi poco raccomandabili così da non affondare con loro – ed è questo uno degli obiettivi della punizione collettiva – ma quando il fenomeno diventa sistema, è difficile sfuggire: non importa quanto tu ami Israele, se vieni da Nablus non passi il posto di blocco; non importa se non hai messo il piede in moschea, se sei mussulmano non puoi trasferirti ad abitare in tal quartiere; non importa se non c’entri niente, se tuo cugino era in manifestazione ti vengono a prendere a casa e ti fai comunque due notti in carcere; non importa se paghi le tasse, se sei beduino non puoi costruirti la casa in cemento. Perso per perso, tanto vale non amare Israele, andare in moschea, scendere in piazza, costruire illegalmente, e così almeno sfogare parte della frustrazione: il profiling, rendendo i cittadini sudditi della loro appartenenza, mina lo loro motivazione all’obbedienza alle leggi e alla sensatezza di cambiare la loro condotta individuale. Le aspirazioni di un palestinese, come anche di un israeliano, sono in gran parte dettate dal gruppo d’appartenenza – con quelle dell’israeliano solo un po’ più rosee e quelle del palestinese decisamente grigie.

Il secondo motivo di rabbia palestinese, a mio parere, è l’incertezza che domina la vita nei territori. A differenza che in Israele, nella West Bank non c’è amministrazione civile da parte d’Israele ma solo militare: gli impiegati sono soldati, gli sportelli caserme, i tribunali corti marziali, le comunicazioni ordini, le leggi decisioni arbitrarie con effetto immediato. Questo non significa solo mezzi blindati e tute verdi, ma anche l’assenza di garanzie democratiche, o perlomeno giuridiche, in base a cui pianificare il proprio agire. Il posto di blocco da passare per arrivare al lavoro potrebbe essere chiuso per motivi di sicurezza, e sempre per motivi di sicurezza è vietato sapere in base a quali considerazioni: potrebbero non esserci; il tale diritto di tale gruppo etnico-religioso può essere revocato ad interim come misura preventiva; tali terre di tal signore possono essere confiscate per un vago “necessità strategiche”. Vivere sotto un governo di perenne emergenza, come è per definizione il governo marziale, vuol dire non poter dare per scontate condizioni basilari dello svolgere una vita organizzata, come i trasporti e la proprietà, ma dipendere dalle decisioni e dai capricci estemporanei di ufficiali spesso di vent’anni, nè avere accesso ad un organismo di giustizia indipendente: gli appelli in corte marziale vengono giudicati dagli stessi comandanti che hanno dato l’ordinanza contro cui l’appello è rivolto, e stranamente nella stragrande maggioranza dei casi vengono respinti. Fare un investimento sul futuro, come aspettare l’autobus all’ora stabilita, comprare un campo di ulivi, iscriversi all’università o aprire una ditta, in una situazione di tale instabilità può essere una scelta incosciente, e tanto più uno ha da investire, tanto più è difficile tenere i nervi saldi quando improvvisamente e arbitrariamente te lo portano via: una volta etichettato come sicurezza, ogni sopruso diventa praticamente inevitabile. Per questo il relativo benessere della popolazione palestinese è anche fonte di maggiore insoddisfazione e quindi, di rivolta. Là dove la legge d’Israele è chiara e certa, per quanto iniqua come nel caso degli arabi israeliani, non c’è malcontento se non superficiale. La domanda da porsi è se tale schizofrenica amministrazione dei territori occupati sia giustificata da motivi di sicurezza e io, dopo anni di arrovellamenti e indagini, credo proprio di no. Il perchè venga perpetrata, dunque, è un interrogativo che suscita in me diverse speculazioni ancora da levigare. Concludendo, mi sembra che la vera violenza del conflitto risieda da una parte nell’applicazione di regolamenti a gruppi la cui composizione non ha niente a che vedere con la condotta e la responsabilità personale ma solo con il loro pedigree, e dall’altra nel fatto che i regolamenti non sono certi ma in continuo, volatile cambiamento, asfissiando lo spazio della progettualità. E che, tra l’altro, il cambiamento pare andare verso il peggio. La combinazione di questi due fattori, più che la mancanza di autogoverno, le condizioni materiali e la violenza fisica da parte dell’esercito, mi sembra perpetri la più radicale ingiustizia dell’occupazione nel non concedere al singolo il frutto del suo lavoro, e credo che ciò, in definitiva, porti l’animo di chiunque all’esasperazione. Per chi abbia interesse nel capire Israele e Palestina e il pasticcio in cui si sono messi, consiglio di cambiare l’immaginario del conflitto dai mitra e il filo spinato in faccia al bambino arabo ad un meno esotico ufficio pieno di carte e mappe, foto, documenti d’identità, firme e timbri, lettere e conti, e uno stuolo di burocrati, avvocati, ufficiali, ragazzini in divisa, tutti intenti a spacchettare il territorio e i suoi abitanti in categorie e sottocategorie, autorizzazioni e ingiunzioni, facendo quadrare eccezioni alla regola e delibere ad hoc sotto la pressione di faccendieri, palazzinari, fanatici religiosi, imprenditori della sicurezza e dell’industria, in un quotidiano contrabbando della giustizia e della legalità con le contingenze di un sistema sociale, politico, economico, fondato sull’occupazione e da essa dipendente.

Post Scriptum

L’incertezza è anche la maggior fonte di preoccupazioni per la popolazione israeliana, per quanto troppo confusa per attribuirla al proprio assetto politico: in assenza di una vera Costituzione, con un sistema giuridico tendente al modello anglosassone dei precedenti e dei giudici-legislatori, con una demografia in continuo mutamento a seconda delle ondate d’immigrazione ebraica, in Israele le cose cambiano drammaticamente e in fretta, come le maree. Mi ha sempre stupito come uno Stato fondato a tavolino da una combriccola di socialisti e sviluppatosi saldamente sotto la loro guida per trent’anni, abbia visto una brutale svolta capitalista nel giro di un mandato politico; di come un popolo  prima ghettizzato e poi simbolo del diritto dell’autodeterminazione si sia ritrovato nel giro di Sei Giorni a dominare e ghettizzare milioni di sudditi; di come l’impronta laica abbia ceduto velocemente il passo ad uno Stato sempre più vicino alla teocrazia; di come interi quartieri e città perdano identità e valore immobiliare nel giro di pochi mesi o anni, quando gli ortodossi l’invadono. In un altro ordine di grandezza temporale e di gravità, anche gli israeliani sono vittime dell’instabilità d’Israele, e chi riesce a formulare dentro di sè il dilemma, se lo pone: c’è davvero da investire gli anni migliori della mia vita in questo Stato, che domani potrebbe lasciarmi con in mano un pugno di cenere? Voglio davvero far nascere qui i miei figli, senza garanzie su come sarà il contesto in cui cresceranno? L’interrogativo è tanto più stringente quanto più ci si rende conto del sacrificio spropositato che lo Stato chiede ai suoi. Tra gli incontri fatti qui, non c’è personaggio più tragico del kibbuznik, nuovo ebreo di una nuova era umanista e giusta, consumato da una vita dedicata alla causa, che si accorge, ormai vecchio, di come il sogno sionista abbia preso la strada opposta a quella che aveva creduto di dargli, a quella che gli avevano raccontato di dargli. Prima infatuato, poi tradito, beffato e sconfitto, per lui è troppo tardi per ripartire e rifare il nido in climi più miti, ma per la generazione dei suoi nipoti disertare questa scommessa pericolosa è sempre meno un tabù.

Girolamo, santo

“Tenendo conto dell’originale ebraico e greco dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta “Vulgata”, il testo “ufficiale” della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo “ufficiale” della Chiesa di lingua latina.”

Benedetto XVI

Ventitrè anni mi richiese l’impresa. Ventitrè anni di studio, ventitrè anni di preghiera. Preghiera a chè il mondo ricevesse ciò che ho da annunciargli, senza svelare l’osceno segreto. Ciò che Loro, attraverso di me, hanno da annunciargli. Nacqui in Illiria quando Costante succedeva al grande Costantino, che per primo inchinò Roma alla croce. Fui bambino col latino, mi scoprii uomo col greco, divenni santo con l’ebraico. E al latino dei bambini, infine, riportai la Loro parola.

Mi risolsi a cambiare la storia dell’umanità camminando con te, o Paola, sulle sacre pietre che videro i natali del nostro Signore, generato e non creato della stessa sostanza del Padre. Pietre affioranti da questi colli riarsi, spazzati, graffiati dal vento del deserto che sale la sera, sotto il cielo in cui quel giorno splendeva la cometa. Pietre rosate, pietre dannate, se non fossero servite a teatro del primo atto della nostra Salvazione. Incastonato in queste pietre ho vissuto, da queste pietre protetto ho studiato i testi, imparato le loro rime, calcolato le loro radici trilittere. Dalle profondità di questa caverna ho tradotto il senso con il senso, ponderando parola per parola. Al profumo di queste candele ho barattato, contrattando come sui banchi del mercato degli ebrei, il significato col segno. O Paola, i tuoi occhi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea di quanto Loro abbiano bisogno di noi per rivelare la Loro Grandezza. Solo a te oso rivelare quel che ad ogni altra anima è bene tenere celato: che trentatrè anni, nè di un uomo nè di un Dio, sono abbastanza per portarci sulla Via, la Verità e la Vita, quella che si esprime in un istante solo ed eterno solo ad enti di ugualmente perfetta natura. Il Verbo a noi non basta. A noi mortali solo il tempo può dischiudere i sacri misteri, uno ad uno per bocca dei Loro emissari. Ahi, se non fossimo di così grezza fattura l’intero significato della Storia svanirebbe in uno sbuffo improvviso di verità! E invece il mondo ha bisogno della storia, perchè solo nell’alternarsi delle generazioni, dal Padre al Figlio, la Fede si consolida, la Salvazione si concretizza. Il mondo ha bisogno della Carne. Attraverso l’educazione si compie la salvezza dell’umanità. La salvezza di ogni uomo di ogni tempo è fuori dalla portata persino dei nostri Dei. 

Il nostro Cristo in croce è il passo necessario a tutti i successivi, ma è solo il primo. Tu, Paola, capirai. Se non avessi sentito della storia di Cristo, non mi sarei rinchiuso in questo sarcofago di pietra, in un colle riarso dal sole nei pressi di Betlemme. Magari sarei tornato a Roma, magari avrei continuato verso sud. Ma io credo sento so di avere una missione più grande. Tutto viene da Loro, attraverso di me. E attraverso Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, Pietro, Eusebio e quel d’Ippona che ci sta rivelando il mistero dell’unità nel divino Molteplice. E a quelli che verranno dopo di noi: la Via è ancora lunga. Sbaglia chi, non fidandosi, reclama il miracolo: quand’anche lo vedesse, i suoi occhi ancora acerbi non lo riconoscerebbe. La nostra Fede è dono della tradizione: questo il prezzo per le nostre piccole menti, incapaci di accogliere il prodigio della Resurrezione senza esservi state preparate. Io, e anche te, o mia Paola, prepariamo la strada. Non in senso temporale, giacchè ormai tutto si è compiuto, ma in senso logico: rendiamo ragionevole ciò che, agli occhi del mortale, ragionevole non è. A te sola, o mia Paola, posso confessare quanto la contingenza sia strumento della necessità.

La mia contingenza si è trovata ad essere la lussuria imperversante nelle nostre giovani comunità, il puttaneggio di donne e uomini dissoluti che così trascinati dai sensi perdono in devozione per ciò che di sensuale non è. Il celibato della nascente Chiesa sarà un faro nella notte per queste anime deboli, e come tu sai mi batterò fino alla morte per la sua istituzione. Il nostro monastero, o Paola, resterà nei secoli come atto di fondazione di questo nuovo ordine di uomini sposati alla Trina Divinità. A tal fine, esclusivamente a tale fine, tradussi in Isaia l’ebraico almah e nei Vangeli parthenos con virgo, facendo di una giovane donna una vergine, di una procreazione un miracolo. A tal fine tradii la necessità del testo, per correggere la contingenza dei tempi. A tal fine ho imposto alle future anime cristiane di credere l’incredibile, affinchè facessero l’altrimenti impossibile. Se giungerà il giorno in cui crederò sentirò saprò di essere solo un uomo, allora correggerò il mio errore e ammetterò la mia colpa, la mia grandissima colpa: il mio sacrilego asservire le Loro parole alle mie piccole idee. E accetterò il Loro castigo, implorando il Loro perdono. Ma io, o Paola, credo sento so di essere stato scelto per completare, e non correggere, le Scritture: quel che ho fatto, per questi ventitrè anni nelle viscere di una terra inospitale, è stato continuare, non spezzare;  spiegare, non inquinare; applicare, non inventare. Non l’ho fatto per me, non l’ho fatto a chè il mio nome risuoni di eco divina nei secoli a venire. E questo lo sai anche tu. La Storia, giacchè da me ora corretta, non conserverà traccia dell’estro di Girolamo, ma solo della sua perizia. Eppure questo estro era già scritto, dieci volte scolpito nella pietra; tre volte inchiodato nel legno.

“Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo”

San Girolamo, Ep. 53,10

emergency.state.democracy

The Roman Republic allowed that in times of crisis, like wars of natural disasters, a dictator with absolute powers would temporarily take charge over the republican institutions, on the assumption that the critical situation required decisions to be taken faster than how the normal dialectic could afford. Until nowadays modern Constitutions allow cases for the suspension of the democratic processes in favor of a faster, though risky, omnipotent magistrate.

The post-fascist Italian Constitution went cautious with this prerogative, by allowing only the institution of governmental acts as legitimate overlook of the parliamentary supremacy: they are short-termed, immediate regulations promulged by the government, with the President of the Republic as only guarantor of the constitutionality of the act, the only one with the power of veto. In order to be confirmed as ordinary law of the State the act must be voted by the majority of the Parliament within 60 days. Among the many good and moderate uses that have been done of the governmental prerogative, I want to point out two cases in which the emergency was used for political rather than national needs.
The first case are the so called save-Berlusconi governmental acts, proposed by the Prime Minister Bettino Craxi in 1984 and not confirmed by the Parliament because considered unconstitutional, so that it was renewed in 1985 with only little differences. The act “froze” the state of affairs of telecommunications imposing the tribunal of Turin to reopen Berlusconi’s networks which, after all the other private networks, had just been shut down because illegal. The act declared de facto the monopoly of Berlusconi on the Italian private television, with the tremendous consequences that this brought to the Italian democracy. The act, transformed in ordinary law by the Parliament the 4th of February, was later on declared unconstitutional too. But it was too late: Berlusconi’s television was already and institution.
The second one is the emergency act promulged the day after the earthquake  which hit Abruzzo in 2009, this time signed by Berlusconi that meanwhile became Prime Minister (by the way, achieving direct control to the national television too, a very liberal 99% of the national audience). The act suspended the activity of the municipalities touched by the natural disaster. A special commission of the Civil Protection, headed by Bertolaso, took charge of the administrative functions and, more interestingly, of the reconstruction projects. Facing no opposition, the temporary dictator decided not to restore the damaged buildings but rather to rebuild entire cities. Interestingly, the projects for the reconstructions where already on the Commission’s table only few weeks after the disaster: record time for Italian standards! The emergency state required an immediate intervention, so that no contest between contractors were held: the contractors were directly chosen by the Commission, skipping the democratic iter. Interestingly, the G8 planned in Sardinia was moved to L’Aquila, main municipality of Abruzzo, so transferring its administration and infrastructural planning to the omnipotent Commission. The media represented the operation as the most successful of all times. In 2010 prosecutors started a trial on Bertolaso and his collaborators, accused of  concussion with contractors, some of them belonging to mafia families. In 2014 the first contractors were arrested for mafia and corruption to public officers, but the trial is still on course with hundreds of accused. L’Aquila is still a ghost city. More than 60% of the ruins has to be removed yet. The great reconstruction plans were never terminated. Many people are still waiting for a definitive relocation, meanwhile receiving subsidiary income by the State.

Israel is declared in state of emergency since its birth in 1948. Of course Israel has also being facing a “tense” atmosphere since 1948. The emergency regulation has many consequences on the democratic life of the country, allowing a high prerogative of the State on detention and deportation, private propriety, transportation restrictions and freedom of opinion and expression. In the occupied territories the emergency regulation is supplemented by the military law in the areas A,B,C accordingly. Some of the regulations come from the Ottoman and British juridical systems, some other are Israeli introductions. If you put together the juridical emergency state and the historical emergency state that we are facing right now, with Israeli citizens threatened by Hamas’ rockets, the result is that the life of thousands of Palestinians and hundreds of Israelis is directly in the hands of the Prime Minister Benjamin Netanyahu. Legally speaking, one person with few collaborators can eventually declare the terms of a ground invasion of one of the most densely populated places on Earth by one of the most effective armies on Earth. The democratic dialectic is restricted to the minimum. Like at the time of the Roman Republic, Israel is facing an emergency so there’s no time to discuss and convince each other. It’s time to operate, not to think.

The first thing that shocked me is that this is possible, it happens. It is possible to live in a place where one person has the power of life or death on thousands. If you are a front line soldier at border with Gaza, Bibi’s opinion has a consistent influence on whether  you’ll get married, whether you will ever travel to Venezia or you will have children. Or if you’ll ever have dinner with your mum again. If you’re an Israeli soldier, at least you voted at the elections where Bibi won. If you’re a Gazan, no. Your level of security is roughly the same of a inhabitant of Sparta or a middle age city: the enemy is outside the walls and can run the attack whenever he wants. You have no diplomacy, no contractual power toto influence his choice. In spite of this tremendous importance of the Prime Minister in you’re future vacation to Venice, in the last elections only about 65% of the voters actually voted. Roughly speaking, almost half of the Israelis now waiting for the verdict on their future at the border of Gaza let someone else choose who will decide if they’ll have dinner with their mum again. Can you really get used to that influence of the world geopolitics in your individual life? So it seems.

The second thing that shocked me in the last month is the psychological emergency which owns Israelis. Israel is an incredibly liberal country, with a wide range of extremes and all the middle ways in between: hippies, orthodox religious, backpackers, hipsters, homosexuals, bisexuals, trisexuals (I’m sure in Tel Aviv exists such a thing), conservatives, progressives; one of the highest level of education and technology, which they export in all the world; a rich, though (casually?) tough, artistic production in cinema, poetry, music, theater, dance. There is a complex political geography ranging from the integral Jewish party to the Arab one, all represented in the Parlament. With the Israelis I know (and I know thousands) everything is always on the table, no truth is taken for granted and it’s always the right moment to disagree. Israelis know it and proudly defend this Jewish heritage: “Two Jews, three opinions”. This is all true until the security emergency arrives: then what the government and the army decides is a priori “the only possible way”.
As soon as the three kids were kidnapped, no political argument could be brought, no suspect could be moved. Suddenly it was the time to operate, and don’t you dare to think! Think that maybe is not a great idea to enter in an already hot territory with thousands of soldiers under the slogan “We’ll bring back our boys”, with the reasonable suspect that they’re already dead (given the shooting you hear in the phone recordings and the blood you find in the car of the kidnapping) and the rationally very low chance to find them. Think that inflicting a collective punishment to thousands of people which are already not actually satisfied with their life conditions will provoke a reaction. Think that the same angry people just made a political alliance with the angry but armed people in Gaza, so that if a reaction has to come it will come from Gaza too. Think that Hamas needs international support more than Israel needs, and that by traumatizing two millions Palestinians in the West Bank you give Hamas an excellent pretext to start the rocket rainfall. In light of all this elementary reasoning, think that in order to save three probably dead kids you’re putting your entire nation in danger. Why none around me dare to think so far, and not even to hear so far? They stop you when you say that to operate might not be the best action: “So what? You let them kidnap your kids without responding?”. If responding means to bring a greater danger on three, one hundred, ten thousands kids in Ashkelon and Ashdod, then yes, it’s better not to operate. Cause the kids in Ashkelon are not less important and Jewish than the ones kidnapped in Hebron. If tomorrow a rocket will kill three Israelis, the entire operation “We’ll bring back our boys” will by a total failure. It’s better to think. Think that a legitimate right to answer the fire is not a sufficient reason to do it. Thinking a long term strategy without launching an impulsive offensive would have been the best reaction of the securist party, the party which first of all is interested in the security of Israelis. Now you can add accessory considerations, for example about the Palestinian casualties that is highly probable to cause by entering the West Bank with thousands of angry and vulnerable 18 years old soldiers; about their property you will destroy, the generalized arrests you will make. Though all this is legal according to the emergency state by which the West Bank is administrated, it might though be considered at least “rude”. But this is too a left wing thought, so it could be politically refused: “we only care about Jew’s security, even when Palestinians’ security is its price”. So let’s point the attention of this right wing thinker to the Jews in France, Germany, Poland, and any other state where no IDF soldiers defend Jews. Given the great pretext you gave to worldwide victimism towards Palestinians (distracting from what the leadership of Palestinians actually is), and given the dubious equation Jews=Israelis, don’t you expect a revenge on these overseas Jews? Let’s also make count of the wave of racist hatred that the kidnapping provoked. While I was shocked of how police and politics didn’t intervene to condamn and shut up public instigation to revenge and killing, by simply standing by and observing hundreds of teenagers screaming nazi slogans instead, all my friends told me I was exaggerating, that it was a normal, though eccentric, expression of sorrow of an extremist minority: “that’s how you do in democracy”. You might consider that if you send the message that is fine to scream “death to Arabs” in the street of the center, this will cause some people to get a misleading idea of what is democracy.
Let’s make the balance of the “forced alternative” launched by the government in response of the kidnapping: the kids were found dead, killed few minutes after the kidnapping; few Palestinians got accidentally killed, hundreds incarcerated with no accuse nor trial, many beaten and injured; thousands of dollars of Palestinian property were destroyed; Hamas immediately started an escalation of threats, and finally started launching rockets; Israel had to respond spending an immense amount of money in bombs; thousands of Israelis live in bunkers, frightened by sirens and explosions, their houses destroyed; hundreds of Gazans were killed, their property destroyed; thousands of Israeli workers and students were called to the arms, now they’re boiling of heat in the desert, ready to start ground operations; in Europe there were street protests against the Occupation and violence against Jews. PS: all this mess adds another generation of hatred and resentment to the account of the peace process. And yet for most of my smartest friends this strategy, never democratically discussed because of the emergency state of the emergency State, was “the only possibility”.

In my elitist view of the world, I accept that the majority of the people will follow instead of pulling back, alarming, denouncing. I take conformism in account. It was so at the save-Berlusconi act, “a necessary measure to regulate the telecommunication system”, and in the save-Abruzzo act, “a necessary measure to take care of the victims of the earthquake”. But in both cases there were a discrete amount of critics warning about the danger that the dictator intrinsically brings. These voices were in universities, street protests, newspapers (interestingly, not on television…). They were the voices of the theorist of the conspiracy, the masters of suspects, the irreducible unbelievers, the ones always screaming from the desks of the opposition. I’m shocked and afraid of not finding them among my Israeli friends. In a way, Israelis like the rest of the world are put in the condition of either to trust or not to trust their leadership. The emergency of war, unlike the others, requires secret: you cannot ask the IDF to tell you by which criterions they bomb houses in Gaza; you cannot ask them to tell you how many bombs they actually dropped. If they revealed their strategy to the public, they would make it predictable and ineffective. So in warfare the same citizens involved must not know what’s going on in order to protect them: they cannot judge their representatives. The IDF spokesman says five kids were killed while bombing a storage of rockets, and you have absolutely no way to verify it. Probably not even the pilot who threw the bomb can. They could have been the family of a Hamas general, killed in order to scare him. An Israeli cannot even hear this hypothesis without screaming in shame that this is absolutely out of discussion, impossible. Half of the world, the ones cheering for Palestine, keep saying this is exactly what the IDF do all the time. Two opposite narrative, and neither of them have any proof to bring. Because of this, emergency, and war in particular, is intrinsically contrary to democracy: it rules out the possibility of proving hypotheses. In war you obey, whether you are the soldier executing the order or you’re the citizen asked to believe that they’re doing their best to protect you. And you need to believe it, you want to believe it. The same spokesman asks you this, every evening in television: “We ask our citizens to trust the IDF and the government, and everything is going to be ok.”. That when put in this condition of uncertainty you believe your side, is quite obvious. And yet, a democracy must always leave open the possibility of a mistrust, of an irreducible suspect, specially when this suspect can stop or at least rise questions about the necessity of a bloodbath. Today in television a blond anchorwoman shut up a “pacifist” by yelling him “it’s not the time to manifest against the war, it’s time to be unite!”, paraphrasing what they continuously yell at me when I try to point out that each one of us has the right and even the duty, given what’s at stake, not to trust authority. Fortunately I don’t have a television.

I think Israel has deep scars, still bleeding. In the national narrative security comes together with anti-semitism, with the fear of the genocide and extinction. Whenever the label “security” is successfully applied to a policy, that policy immediately becomes off-limits, untouchable, no matter if  Israel is indeed the bad guy of the situation and the non-Jew is the victim, the one needing a security policy. The collective trauma of this nation leads straight to the identification of the political class of the Jewish State with the undiscussed protector of the Jews, no matter what it does. For an Israeli it is unconceivable that the army might work for an interest diverging from the public interest: each Israeli feels part of the army he served for years, he feels like he knows it deeply and can blindly trust it. Israelis love the Israeli army, and they will always be a priori on his side, because the army is the incarnation of the emergency State, the emergency Nation. As my roommate wisely said once, “Israel is a ghetto with guns”. But still a ghetto, constantly under attack. I wait for the day the Israelis will be free from this phobia.

By keeping in mind the history of the people of Israel I make sense of the democratic black-out I see around me, first of all in the minds of the people, and somehow I justify it. In the end, is still the most similar thing to a Western democracy that you can find in the Middle East.
For an Italian it’s hard. History taught Italians that whenever the magistrate has a prerogative, he will use it to his interest. Whenever you are in the position of either to trust the dictator or not to trust the dictator , you don’t trust him. Whenever there is a clash between private and public interest, the Italian must assume that the private interest will be chosen. So when an Italian sees a suicidal military campaign launched by an enclave of politicians, he first thinks how convenient is for the politician that the people will stay scared, united, confused. When he sees milliards of dollars being burnt bomb by bomb, jet by jet, he first thinks that war is too convenient to make peace. Only then, the Italian takes a long breath and sees the possibility of the genuine error or blind emotions. In the absence of definitive proofs, he starts hoping for the latter: better a stupid ideology than a dirty interest.

On the sublime rhetoric of the Big Match

Now that you see spectacular explosions and blood and death in Gaza it’s time for you to choose a side, defend it and delegitimate the other. No matter if you think Gaza in Mesopotamia and Israelis go to school by camel, like I thought before I came to live here. Self-defence vs struggle for freedom, terrorism vs occupation, Jews vs Arabs, West vs East, democracy vs theocracy, M-16 vs AK-47, jets vs rockets. Big slogans for big matches. In the break of World Cup games the news quickly appear on the huge screen, reporting the number of rockets Hamas sent during the first half of the game, and the number of airstrikes Israeli air forces conducted in response. They show you the highlights of the day and comment them, they report politicians’ declarations, they interview people involved and ask what do they expect to happen next: war becomes a big match, with its goals, coaches, tactics, great actions. Big contests reveal a lot about our friends personalities. Some people choose or change their side according to the score: when Brazil is loosing 5-0 one will hope for some mercy; one other will suddenly cheer for Germany and call for another goal, cause beyond everything he likes to win. Too many people take the latest violence escalation as a big match. Right now Gaza is loosing some 100-0 against Israel, and on your facebook you can easily count your pietist friends, posting pictures of bloody limbs and screaming mothers, and the machists, posting pictures of hollywoodian explosions, advanced technologies and futuristic jets crossing blue skies. The first are moved by compassion, the latter are galvanized by power.

I think this makes it all too easy. You can well adapt the World Cup’s folk psychology to the Israeli-Palestinian conflict, people do it all the time, but don’t pretend you’re making politics. You cannot take the Palestinian side just because they suffer more, and you cannot take the Israeli side just because their army always wins.
One observation for the pietist party: consider the intentions. What would Hamas do if it had the power the Israelis have right now? They would probably kill any Jew of Palestine, they would bomb any city of Israel until not even one building would stand, and would immediately declare the new Islamic Califfate in Jerusalem. What makes you think this is their first intention? Because they declare it in public, they write it on their constitutive act, they promote it in their propaganda, they promise it to their people and kill the oppositors to this intentions. They put their launching sites, ammunition storages and headquarters in schools and central buildings, using civilians as human shields. By this they show that their first interest is to kill Jews and not protect Arabs. Is it a noble intention? How should we take in account the intentions in choosing for whom to cheer? The answer goes beyond the 100-0 score.

And one to the machist party: consider the larger frame. Israel is defintely winning the battles on field, but there are other parameters to take in account. For example, since the birth of the State in 1948 every single boy has to give three years of his life to the military service, the girls two: the years in which we Europeans start studying, exploring the world, making the most positive experiences that will make our future. Generation after generation, 18 years old Israelis eat shitty food suffering the cold and the heat, punching and arresting random people with hatred and despair in their eyes and that only wait for the day of the revenge or, in most cases, simply work in an anonimous offices without earning a cent, where your boss gives you orders like a soldier. Cause you are a soldier. Since the occupation of Palestine in 1967 and the beginning of the colonization Israeli citizens saw their world support as the nation of the persecuted (in 1948 it was 0-6.000.000, for the pietists) become a worldwide hatred as brutal oppressors. The non-Israeli Jews of France, Germany, Poland, Ukraine and all the foreign countries where there are no IDF soldiers protecting them day and night with patrols, separation walls and Iron Domes, pay the consequences of the hate Israelis are daily seeding and watering since few decades, in virtue of the misterious equation Jew=Israeli. In light of this facts, what are Israeli citizens winning in this routine escalation with Gaza? Hopefully silence for few months, surely hatred and security problems for the next…20? 40 years? So before you take Israel as the Germany we saw against Brazil, you machist party should take in account the fear, the insicurity, the hatred, the psychological trauma and the moral dilemma, the huge financial weight and the years of life that Israelis have to pay in order to arrive ready to that semi-final. With such a training even Italy might have a chance to pass the qualifications. And now the question: is it worth? How important is to play and win this semi-final, when its price is so high? A lot of people already play soccer, in Somalia, Korea, Ukraine, Nigeria, Afghanistan, Pakistan. Why not let them play and try a way to take some rest? There was a time in which most Israelis were trying to go out of the field.

Interesting perspectives on what is going on start to emerge from the noise only when we take a good distance from pain and love, hatred and compassion, live reports and red alarms. You make politics with facts glued by logic, not by emotions. With some silence. I don’t expect lucid analyses to come from Gaza, cause the only silence they experience could be the last one before the boom, with no sirens, shelters, Iron Domes, but I do expect it from Israel. And instead around me I see an overwhelming amount of emotions, pubblished in any possible form, vomited on my already limited cognitive capacities. It all confuses my thinking, interferes with my principles, pollutes my conclusions. I started my personal war against the big match rhetoric: I try to open only links with no images or videos. I look for words, long sentences with subjects, complements, verbs, subordinate verbs, participles, consecutio temporum, interiections. Dots. Commas, and here comes another thought. For big emotions I already have the World Cup final. 

Israeliani, sveglia! – O dell’elogio della democrazia costituzionale

Tutti parlano di pace, nessuno di giustizia. Tutti parlano dell’occupazione in Palestina, nessuno della democrazia in Israele, come se le due cose non fossero connesse. Tutti parlano dei diritti violati dei palestinesi, nessuno di quelli degli israeliani. Perchè i sabra, gli intrepidi ebrei di Erez Israel che hanno costruito una civiltà a mani nude contro tutti, che si sono inventati un modo di stare insieme egualitario e comunitario, che hanno resuscitato una lingua così antica con la sola forza di volontà, che hanno sviluppato una fiorente economia dal deserto, perchè non si sono rivoltati? Perchè non hanno alzato la testa quando un manipolo di invasati ha deciso d’insediarsi nella terra di altri a loro spese, senza chiedere il permesso a nessuno, men che meno a loro? L’avranno pur fatto in nome di Dio, della Grande Israele, del Mito del Ritorno, della Sicurezza Nazionale, ma l’hanno pur sempre fatto a spese dei sabra. Con le loro tasse, con le loro (dis)pari opportunità, prendendosi il fiore dei loro anni e buttandolo in un’uniforme impolverata, dando al mondo un’ottima ragione per l’antisemitismo. Non l’hanno fatto in silenzio ma a suon di slogan, pestaggi ed esplosioni, senza un referendum, senza un dibattito parlamentare, senza un’alzata di mano. Come hanno fatto gli acuti ebrei collezionatori di premi Nobel a farsi fregare la sovranità da sotto il naso, con tutto quello che gli è costata? Come hanno potuto accettare con un’alzata di spalle la trasformazione dell’Esercito per la di Difesa d’Israele in Esercito per l’Attacco? Ignoranza o connivenza? Dov’era la loro democrazia quando i generali si sono presi la prerogativa di concedere ai primi coloni di restare, e il Parlamento taceva? La democrazia è arrivata dopo, a ratificare quella che era già una situazione di fatto: bande armate alla conquista del West, anzi, dell’East. Nel momento in cui il primo cittadino, e non soldato, israeliano si insediò sul suolo palestinese, portandosi appresso la sua bolla di diritti civili e politici burocraticamente garantiti nel cuore di un mondo sotto corte marziale, la conquista ebbe inizio. Populismo? Fanatismo? Alla fine dei conti, comunque, resta un bel buco democratico: non chiesero il voto di fiducia per convertire Israele in uno Stato conquistatore. Perchè si può restare in Palestina senza conquistarla, solo per controllarla: ma questo è lavoro da soldati, non da coloni, donne e bambini perlopiù vestiti in gonna lunga, ricciolini e kippah. I sabra ci si svegliarono dentro, in questo incubo dell’Occupazione. Un bel golpe militar-politico-intellettuale, ben disciolto in un mare di retorica sicurista-sionista. E i sabra si sono fatti abbindolare, colpiti nel loro punto debole. Dalle kippah dei coloni, dalle loro ziziot, dal loro rispettare lo Shabbat, dal loro salmodiare rivolti verso Gerusalemme, dal loro conquistare con caparbia il diritto a pregare su qualche pietra sacra: “in fondo, sono dei nostri”. Una grande famiglia? Allora un grande fratricidio. Chiedilo all’ebreo francese, tedesco, australiano, americano linciato a sangue dagli sfoghi anti-israeliani, mentre il colono resta intoccabile e protetto dietro il muro delle IDF. E’ davvero questo l’ebraismo? Svolgere antichi rituali vestendosi in modi bizzarri su delle vecchie rovine dalla dubbia identità, a qualsiasi costo? A costo dell’autodeterminazione di una nazione intera. E non parlo dei Palestinesi. E’ questa l’espressione dell’ebraismo, della Nazione degli Ebrei, degli anni ’70? Bande fanatiche che mettono in scacco una neonata democrazia. E’ giusto che oggi ne parlino, per quanto poco, al Parlamento, che ne discutano e che, alla fine, decidano di restare una nazione conquistatrice: l’uscita dei cittadini israeliani dalla Palestina deve essere una scelta democratica e non un secondo colpo di Stato, come fu invece la loro entrata.

I nostri esempi sono la debolezza dello Statuto Albertino, strangolato con una misera legge elettorale; la normativa sulle televisioni, spazzata via da due decreti salva-Berlusconi; e qui? Dov’è il “come dovrebbe essere” della democrazia israeliana? Dov’è l’ingranaggio che si è inceppato? Dove sono scritte le regole del gioco che non sono state rispettate? Dov’è la Costituzione? Cerco l’àncora di questa democrazia e non la trovo. E’ tutto in balia della marea. Un tempo i kibbutz, oggi i coloni. Domani? In questo oceano di libri sulla giustizia di Dio, dove trovo il libro della Giustizia degli uomini? Quali sono i limiti della legittimità? Fin dove il Sionismo spingerà i propri mezzi per ottenere i propri fini? “Parliamone”, sempre un “parliamone e tutto andrà bene”. Non succederanno tragedie, ti rispondono, perchè siamo un popolo saggio e misurato che non ha bisogno di nuovi Comandamenti: vai alla pagina “Hebron”, giusto per dirne una. Chi ha diritto alla cittadinanza? Parliamone. Chi deve di servire nell’esercito? Parliamone. Chi ha diritto al mantenimento a spese dello Stato? Parliamone. Chi può salire a pregare oggi? Parliamone. Chi può abitare su questa collina? Parliamone. A chi appartengono questi olivi? Parliamone. Democrazia a discrezione, dinamica, leggera, precaria, vuota. Democrazia di opinioni, non di leggi. Democrazia d’affaristi, non di cittadini, e che vinca chi ha il prezzo migliore. Democrazia senza impegno, con la scusa della sicurezza. Democrazia dello status quo, o della giungla delle tribù.

Non fatevi ingannare da quest’aria di casa, di normalità, di Europa e di America, qui tutto è negoziabile da un giorno all’altro: il vostro diritto allo studio, il vostro diritto di girare in macchina di sabato, il vostro diritto di sposarvi in comune, il vostro diritto di vestirvi con le maniche corte, il vostro diritto di comprare il pane lievitato. Per una pura contingenza la società israeliana si sovrappone parzialmente alla società occidentale. Per una pura contingenza Israele è uno Stato liberale, ma non c’è nulla a garantirlo tale. L’equilibrio tra le tribù domani potrebbe cambiare: che neppure i coloni dormano tranquilli.

Ma questi pensieri, per ora, non posso scriverli in ebraico.

Dif-ferire

La differenza tra gruppi sociali esiste ed è legittima, per quanto difficile da spiegare. La loro disuguaglianza davanti alla legge anche esiste ma, almeno dal mondo in cui venivo, non è legittima: non dovrebbe esserci, e là dove sussiste è intesa come accidente di un sistema sostanzialmente ugualitario. Il sistema israeliano, invece, ha la sua sostanza nella disuguaglianza. Nè al livello psicologico dei suoi cittadini, né al livello giuridico della sua Costituzione (che infatti non esiste), né a livello filosofico del concetto di Stato Ebraico è assunto il principio di uguaglianza degli individui davanti alla legge; piuttosto, è assunta la loro omogeneità rispetto al gruppo di appartenenza. Il militare è obbligatorio solo per gli ebrei; gli arabi hanno un passaporto diverso; i moduli d’iscrizione all’università comprendono il campo ‘religione’; sia a Yotvata che a Maagan Michael c’è un programma di studio-lavoro esclusivamente per etiopi; l’accesso alla Spianata delle Moschee è riservato ai musulmani per la maggior parte della settimana; uno studente americano ebreo ha gli studi pagati a differenza di uno studente americano non ebreo; ai posti di blocco di uscita dalla West Bank vengonocheckpoint sistematicamente fermati e perquisiti i giovani palestinesi, saltuariamente i giovani turisti, mai gli ebrei; i membri dei kibbutz sono tutti ebrei ashkenaziti [fatto clamoroso, a Maagan Michael è appena diventato membro un etiope, scatenando un inferno di critiche soprattutto dai parte dei colleghi etiopi che lo tacciano di tradimento]; dal villaggio arabo nostro vicino partono fuochi d’artificio ogni sera perchè così celebrano i matrimoni, due settimane fa una ‘nostra’ festa in spiaggia sono partiti due fuochi e immediatamente è arrivata la jeep della polizia; per un arabo che prenota un tavolo in un buon ristorante in centro non c’è posto, per un ebreo sì; solo gli ebrei possono possedere e portare armi da fuoco; gli autobus arabi lavorano anche di sabato, contrariamente alla legge d’Israele; nelle cittadine musulmane conservatrici è vietato vendere e bere alcol; la polizia s’incarica di bloccare le strade d’ingresso ai quartieri ortodossi ebrei di shabbat; a due ebrei è vietato il matrimonio civile; ai nuovi immigrati solo di padre o nonno ebreo è assegnata una zona a parte nel cimitero; i russi vendono carne di maiale senza venire multati; ai giovani arabi è vietato l’accesso alla Spianata delle Moschee; gli studenti delle yeshiva (scuole di Talmud) sono esonerati dall’esercito. Quel che se ne ricava è che ogni strada, ogni edificio, ogni abitazione, ogni individuo è potenzialmente soggetto ad una giurisdizione diversa (principio, questo, inaccettabile per il mondo post-rivoluzione francese) purchè il suo gruppo di appartenenza sia abbastanza consistente da poter essere riconosciuto nella sua specialità: come questo riconoscimento avvenga, è un universo di segni. Al bambino-soldato israeliano (19-20 anni) al posto di blocco basta uno sguardo alla macchina per sapere se sei turista (etichetta della macchina a noleggio) o residente, uno sguardo alle facce per sapere di quale continente sei, due parole per riconoscere se sei arabo israeliano o arabo palestinese, due domande per sapere se stai mentendo: è il loro lavoro, raccontano i miei amici ex-soldati, e in breve imparano a farlo bene; il vecchio con la barba bianca all’ingresso della Spianata ti dice che non puoi entrare ancora prima che provi a raccontargli che sei musulmano, e nel caso avessi davvero la faccia tosta ti chiederebbe di recitare il versetto della settimana, testimoni i due enormi soldati israeliani col mitra in mano; è buon costume che la polizia israeliana non interrompa i matrimoni arabi per multare chi ha sparato i fuochi; per evitare al malcapitato o al provocatore una pioggia di sassi sul parabrezza, le forze dell’ordine chiudono i quartieri ortodossi all’ingresso di shabbat come misura preventiva. Da buon italiano, cresciuto giocando sporco sul limite dell’implausibile-eppur-credibile per non pagare il biglietto del bus, mi salta agli occhi la ristretta, eppur sempre esistente, casistica dell’avere ragione pur contro ogni evidenza: ‘ho l’accento di Ramallah perchè mio padre lavora nell’ONU, e da Nazareth ci siamo trasferiti là per due anni quando io ne avevo uno’; ‘non so il versetto della settimana perchè mi sto giusto ora convertendo’; ‘abbiamo sparato due fuochi in spiaggia perchè la nostra amica greca si sposa, e in Grecia si fa così’; ‘sono buddista e non voglio macchine sotto casa mia perchè c’è altissima probabilità che schiaccino bestioline sacre come topi e scarafaggi’. Così si possono produrre un’infinità di scuse o motivazioni reali per sfumare, allungare, troncare, confondere l’appartenenza sociale, tutte legittime (nel mondo dell’uguaglianza) e tutte irrilevanti (nel mondo della disuguaglianza) di fronte all’imperativo di mantenere la pace sociale in questa polveriera di conflittualità: i casi eccezionali, le minoranze troppo minoritarie, le paranoie individuali restano puntualmente inascoltate, perchè non possiedono una massa critica da poter generare un problema. D’altra parte, poi, nessuno in questo Paese è disposto a omologarsi e a cedere anche solo un’unghia della propria identità (figuriamoci mentire deliberatamente!) per riceverne vantaggio: l’orgoglio dell’appartenenza tira avanti i programmi per etiopi non-si-sa-perchè-etiopi e la discriminazione al ristorante, e non dà tregua all’odio che ha sempre bisogno di una differenza a cui aggrapparsi.. Eppure basterebbe telefonare a nome di ‘Amos Levi’ piuttosto che ‘Mohammad Al-Maroui’, dice l’italiano per cui in fondo ‘è soltanto un nome, l’importante è che si mangi bene’. Per spiegare come girano le cose mi convinco che, in Israele, la disuguaglianza sia il vero diritto per cui ciascuno combatte, sempre pronto a sottolineare alla prima occasione cosa non-è. ‘Siamo tutti uguali’ è il peggior insulto al primato di fondatori dello Stato dei kibbutznikim, alla natività degli arabi, alla divina bontà dei cristiani, allo status di vittime tra le vittime dei profughi etiopi, alla nobiltà di sangue dei russi, al libertinismo dei telaviviani, alla elezione tra gli eletti degli haredim, al sincretismo dei drusi. Sempre tesi tra superbia e rassegnata incomprensione, la chuzpah, altezzosa sfacciataggine, è il carattere saliente degli abitanti d’Israele: ‘Le cose stanno così. Ma non sto a spiegarti perchè perchè tanto non mi capiresti’. Inevitabile che lo Stato di queste persone, di queste mentalità, di queste oggettive differenze tanto aspre e tanto vicine, si faccia garante della spartizione: l’europeissimo mito dell’integrazione non ha chances in un posto così. Il compromesso non può avere luogo nelle abitudini e nelle convinzioni degli individui, ma solo nel loro luogo di residenza: circondarsi di filo spinato e cancelli gialli, come nei kibbutz, o convenire su impalpabili confini da una strada all’altra, come tra Mea Shearim degli haredim e Mas ìáåù öðåò ,îàä ùòøéí -àåô÷ òåìîéJdiyya degli arabi, la soluzione del conflitto in Israele è sempre dare un po’ a te e un po’ a me, e che ognuno faccia quel che vuole all’interno del proprio recinto. Se da noi il problema è dove fissare il compromesso sulle regole uguali per tutti (crocifisso in ospedale sì, crocifisso in ospedale no; cellulare in classe sì, cellulare in classe no; ICI sui luoghi di culto sì, ICI sui luoghi di culto no; negozi aperti di domenica sì, negozi aperti di domenica no) qui il problema è dove fissare il compromesso territoriale: dove finisce il quartiere dei giovani e dove inizia quello delle famiglie che voglio silenzio di notte; dove finisce la collina dei ricchi e dove inizia quella dei poveri; dove finisce la città degli ebrei e dove inizia quella dei musulmani; dove finisce Israele e dove inizia Palestina. I cancelli, che si chiudono e si aprono a seconda di chi li bussa, sono per me insieme fascino e condanna di questo posto. 

101_0169

Alla nostra età

I BaMBaCHim (acronimo di Bnei Meshek Bezman Chofesh, figli di kibbutz in periodo di vacanza) sono ragazzi provenienti da altri kibbutz e moshav che lavorano a Maagan Michael per cicli di 10 mesi. Quasi un centinaio, sono prevalentemente impiegati nella fabbrica Plasson o nell’industria ittica, tutti freschi di esercito. A differenza di noi ulpanisti stipati in camerette da tre, vivono in singola in un quartiere tutto loro giù sulle vasche dei pesci lontano dal ‘centro’, sempre sotto un cielo di stelle disturbato solo dalla scarsa illuminazione di Jizr al-Zarqa, il poverissimo villaggio arabo qualche chilometro a sud del kibbutz. Tra ulpanisti e bambachim non c’è una gran frequentazione, un po’ per gli orari di lavoro non coincidenti un po’ per la distanza fisica delle nostre ‘basi’, ma soprattutto per l’abisso linguistico e culturale che separa i più. Mercoledì, giovedì e venerdì sera capita di vedere la frangia dei pontieri lanciare saluti e small talk a qualcuno di noi dai tavoli del pub (di fatto localizzato nel cuore del quartiere ulpan), ma restano contatti superficiali e perlopiù finalizzati a tenere aperti canali preferenziali verso le ulpaniste. Cacciatori di teste, i bambachim fin dal primo giorno sondano il terreno chiedendoci che aria tira, se c’è qualcuna che parla bene ebraico o che vuole andare a un fuoco in spiaggia da loro, ma da quel che ho visto agli israeliani manca qualsiasi forma di eleganza o savoir faire, e come risultato più che collezionare scalpi di svedesi e colombiane collezionano picche. Da parte nostra, vista la mostruosa percentuale di maschi tra i bambachim, tra cui non si contano più di dieci ragazze, c’è poco interesse e una oggettiva difficoltà relazionale che allontana e spaventa: se tra i giovani americani, spagnoli, austriaci come tra gli italiani è scontata una dose d’ipocritica formalità per rompere il ghiaccio, presso gli israeliani non esiste nulla di tutto ciò. I ‘prego’ per far sedere l’ospite sul divano più comodo, l’offrirgli da bere, il rivolgergli domande per integrarlo nel gruppo, l’accondiscendere alle sue richieste non fanno parte del rituale d’accoglienza, che al contrario prevede uno sforzo da parte nel nuovo arrivato per mostrare la propria dignità e giustificare così la propria presenza come membro costitutivo, e non supplementare, del consesso: tra ragazzi israeliani ho sempre visto l’ospite interrompere, prendere la parola, obiettare…farsi valere. Figuratevi come reagisce la studentessa di Chicago, perdipiù ancora bloccata sul no-parlou-ibraico-benne e le ‘r’ arrotolate piuttosto che grattate…

Col fatto di avere alle spalle una gavetta di relazioni interpersonali israeliane di tre mesi a Yotvata, uno slang ebraico essenziale per la sopravvivenza tra battute e insulti, e un amico, il rosso cappellone Omri, in comune con un bambach, al mio arrivo a febbraio avevo fin dai primi giorni legato bene con qualcuno di loro, tra un serata al pub, un pomeriggio in spiaggia o una partita a calcio. Da quel che ho visto, i bambachim uniscono il funzionalismo a-estetico israeliano allo svago, generando un’atmosfera di selvaggio relax: i divani sono lacerati e i cuscini spaiati, ma sono piazzati nei posti giusti e spazzolati di tanto in tanto; le pizze e gli stuzzichini si mangiano senza piatto ma ciascuno spiluccando dallo stesso vassoio, ma ci sono i tovaglioli; il quartiere ha cavi penzolanti da tutte le parti, condizionatori a vista e biciclette buttate agli angoli d’ingresso, ma funziona tutto alla perfezione; il da bere è messo in tavola in scatole di cartone e il cin cin è fatto in bicchieri di plastica, ma se ne fa uno via l’altro. Il comfort c’è, e di altro livello, ma non è contemplata la sua confezione; è una totale assenza di stile: in ebraico si dice ‘musnach’. Le camere, invece, quelle sì se le arredano bene: una sorta di collezionismo, ciascuno appende, appoggia, appiccica i cimeli di nottate, feste, serate (o mattinate) di tranquillo chiacchierare bere fumare. Lavorano duro in fabbrica, in gruppi di sei-sette, spesso di notte, e guadagnano decentemente. Come a Yotvata, il gruppo di lavoro assegnato non cambia, e finisce col diventare una seconda pelle; è una costante israeliana. Ricordo una delle prime settimane, sarà stato fine febbraio, chiacchierando appollaiati sulle capanne di legno in spiaggia all’ora del tramonto, Fishman (così lo chiamano tutti e ancora non ho scoperto il suo vero nome) mi prova a spiegare cosa sono gli amici dell’esercito: ‘Non li scegli, semplicemente ti capitano. E te li tieni per tre anni, non ci sono cazzi. Quando capisci che non puoi cambiarli, allora inizi ad amare anche quello che di loro non ti piace…e poi ti mancano. Con loro condividi tutto, le brande scomode il cibo schifoso il freddo il caldo lo zaino da 30 chili, si supera tutto insieme. Sono più che fratelli.’ I quattro tappi di Goldstar inchiodati agli angoli del mobiletto di camera sua, mi ha raccontato ieri sera, sono il suo e quelli di tre buoni amici dell’esercito, che lo vennero a trovare il 5 gennaio: ‘Eravamo là sulla capanna a penzoloni, avevamo fumato un po’ e stavamo bevendo e chiacchierando stam, così, quando è arrivato un diluvio, ma di quelli potenti! Bam, una caterva d’acqua da un cielo nero fino all’orizzonte.’ Si ferma un attimo: ‘Oh, nessuno di noi si è mosso. Niente, tutti e quattro immobili insieme sotto la pioggia, in silenzio, dopo mesi che non ci vedevamo.’ Stravaccato sul letto [regola d’oro per sapere di chi è la casa quando si è ospite di amici, mi hanno svelato, è ‘vedere chi sta più comodo’, una vera perla!] apre una foto sul maxischermo sul mobile: la spiaggia di Maagan Michael, nuvole sparse, un enorme arcobaleno e quattro bottiglie di birra incrociate sulla sabbia, il tutto fotoshoppato a mo’ di disegno a pastello. ‘Questa l’ho fatta dopo il diluvio. Abbiamo giurato di vederci ogni 5 gennaio sul quel trespolo, per sempre’. Poi apre il cassetto più basso del comodino, e mi mostra con un sorriso una bottiglia di Goldstar vuota, come ne vanno via anonime migliaia al mese.

Finito l’esercito a 21 anni, a 22 o giù di lì i bambachim escono da quasi un anno di lavoro e vacanza a Maagan Michael con un discreto gruzzolo, pronti per un 4-6-8 mesi di viaggio per il mondo: Sud America e Indocina sono i continenti più gettonati per via del costo contenuto e lo sballo garantito, ma non manca chi si trova una qualche agenzia di volontariato o attività varie ed eventuali negli Stati Uniti, Canada, Australia. Quasi nessuno si lancia sull’Europa, roba da signori. L’anno sabbatico, dopo un anno passato a guadagnarselo, è un must dell’israeliano medio: dicono che dopo tre anni di esercito, in cui ti dicono ogni istante cosa devi fare e cosa non puoi fare, vuoi solo andare a zonzo dove davvero ti va di andare, tatuarti drogarti e farti stupire da quel che ti capita. Fishman sostiene che ormai la maggioranza dei nostri coetanei, tornati dal viaggio, si rimettono a lavorare un altro anno per poter ripartire. Sa con precisione quanto puoi guadagnare in Israele e con quale sistemazione, e quanto spenderai in viaggio e con quale sistemazione; ha fatto i suoi calcoli, i risparmi gli basteranno per quattro mesi di Sud America: quando li finirà tornerà. Perchè ritornano. Fishman la chiama ‘la corsa ai 30′, i 30 anni, età entro cui bisogna sistemarsi: studiare, trovare un buon lavoro, una buona israeliana e fare tanti bambini. Rimango spiazzato, non è esattamente il sogno che si aspetta da una generazione che si concede di fisso due anni di gozzovigliamenti per il mondo: piuttosto tatuatori, imprenditori di varia natura, scrittori, politici, musicisti, diplomatici. Invece Fishman mi assicura che in Israele non c’è ragazzo che non pensi ad essere padre con una sicurezza economica per tirare su famiglia, perchè questa è la gioia della vita e il suo scopo fondamentale. In effetti, così è per tutti i coetanei israeliani che conosco. E’ scioccato dal fatto che ci sono persone, in Italia e nel resto del mondo, che non la pensino così, che hanno scelto di vivere senza bambini per fare qualcos’altro: ‘Ma allora per chi stiamo a questo mondo? Di chi ci prendiamo cura? Ti assicuro, in questo Stato solo chi ha qualche problema rimane da solo, perchè nessuno vuole prenderselo. Nessuno sceglie volontariamente di restare solo’. Non abbiamo molto da dirci, solo da stupirci della reciproca alienità. L’impressione che ne ricevo, da qui come dall’ottimismo generale, la creatività, l’umiltà nel prestarsi a lavori di manovalanza, la consapevolezza della precarietà della vita, l’anti-ecologismo, il nazionalismo, è di un’Israele attuale come l’Italia del dopoguerra, quanto a mentalità, quando fare bambini era un’ovvietà.

L’impressione che danno gli israeliani, così gretti e realisti sulla priorità assoluta di realizzare i bisogni prima dei sogni, stride sempre con i dati che abbiamo su Israele, il secondo Paese più scolarizzato al mondo (e sicuramente uno tra i meno secolarizzati), il più sviluppato per imprenditoria giovanile, il più tecnologico nell’invenzione e l’impiego di sistemi energetici alternativi, uno tra i più variegati quanto a stili di vita. Quale magia avvenga nel passaggio dall’impostazione dell’esistenza individuale, così tradizionalista, all’organizzazione della coesistenza collettiva, così creativa, è un’altra cosa che mi ripropongo di scoprire.

Il sistema degli uomini straordinari

Ci sono molte ragioni per cui non vivrei in un kibbutz, neppure uno tanto ricco come Maagan Michael, tutte connesse alla ristrettezza di spazi: vedere le stesse persone tutti i giorni in sala da pranzo, e viceversa essere visto da loro; sentire i racconti di ciò che questo ha detto e quello ha fatto, senza però aver mai scambiato una parola né con questo né con quello; avere contatto visivo quotidiano con tutte le possibilità di carriera che il kibbutz offre e percepire lo spazio della propria iniziativa individuale stretto entro i rigidi paletti delle decisioni comunitarie. La subordinazione alle burocrazia comunitaria per l’ottenimento di lavoro e casa, tutto sommato, passa in secondo piano (si tratta sempre di lavori piacevoli e case più che decenti), rispetto alla costrizione a stare così tanto insieme, così tanto vicini e per così tanto tempo. Nessun paesino di campagna, nessuna setta religiosa ha paragonabile influenza del collettivo sull’individuale come ne ha il kibbutz, e non è una questione economica. Prendiamo il caso del divorzio: quando una coppia di membri del kibbutz divorzia ad ognuno viene assegnata una casa capace di ospitare i bambini, che a distanza di massimo dieci minuti a piedi possono stare con la mamma o col papà, e mangiare con uno o con l’altro in mensa a piacere. Le spese di mantenimento, come per tutti i bambini, sono a carico del kibbutz. Il comunismo del ricco kibbutz Maagan Michael (come anche Yotvata) offre al divorziato una sistemazione economica e logistica eccellente, inesistente ‘fuori’. Quel che chiede in cambio, però, è continuare a lavorare fianco a fianco dell’ex nei campi o nella fabbrica finchè si liberi un altro posto di lavoro e la richiesta di trasferimento venga approvata, vederlo ‘uscire’ (come si può uscire qua dove tutto è dentro? La nozione di appuntamento è molto confusa, qui nel kibbutz) con un altro kibbutznik che conosci da quando sei bambino (perchè tutti si conoscono da quando sono bambini, tutti hanno giocato nel moadon con gli ulpanisti, tutti sono stati in barca insieme nella lezione di vela, tutti hanno fatto le gite comunitarie insieme, tutti hanno ballato insieme alle grandi occasioni), e col tempo veder sbiadire quel briciolo d’intimità che si era rosicata negli anni finchè anche l’ex si riduca a personaggio, comparsa o sfondo della trama di racconti della sala da pranzo. Quando la sottomissione alla comunità è così conveniente come nel ricco kibbutz Maagan Michael, è chiaro che il vero prezzo da pagare è l’assenza di privacy. Molti sostengono che sia un prezzo irrisorio, visto lo stile di vita che se ne guadagna, ma io credo che non abbiano osservato abbastanza. Ci sono facce meno note, facce che sgusciano via appena possibile, che non siedono e non discutono alla caffetteria, facce che non salutano e non hanno niente da raccontare, da commentare, da puntualizzare, da rinfacciare. Ho avuto modo di conoscerne personalmente qualcuna di queste facce, insofferenti alle cavillose questioni e agli infiniti pettegolezzi del kibbutz e arrabbiati, logorati dalla lotta per l’intimità: sono quelli che cercano di starsene in pace per conto proprio, con la propria famiglia e il proprio giardino, in un luogo in cui i giardini sono solo pubblici e per molti anni non è esistito il concetto di famiglia. In qualche modo, cercano di non pagare il prezzo dovuto. Il ripiegamento sul ‘proprio’ e la sua tutela è un salto discreto, talvolta addirittura una lucida scelta di rottura col sistema: Merav, a Yotvata, me lo aveva insegnato con la sua ascetica alienazione dal costante brusio dell’universo kibbutz. Yadid, sempre al bancone dei gelati di Yotvata, aveva a sua saputa sintetizzato tutto in una massima: ‘Guarda come si siedono in sala da pranzo: se rivolti all’assemblea dei commensali, per vedere e controllare chi si siede con chi e a quale tavolo, o se di spalle, mangiando a testa bassa’. Da quel giorno iniziai a farci caso: io mangio sempre rivolto al salone.

Senza una buona dose di ficcanasismo, il kibbutz è morto: dove finisce la vita privata e dove inizia la vita pubblica, dove finisce il pettegolezzo e dove inizia la politica, in un posto dove i servizi più essenziali, dal cibo alla casa, sottostanno a criteri ugualitari e collettivi?

Quando giunse il giorno in cui alla maggioranza dei kibbutznik non piaceva il cibo della mensa, avvenne la più significativa rivoluzione economica di Maagan Michael.

Il biennale iter di selezione del candidato kibbutznik valuta soprattutto la personalità, i modi, il linguaggio, i gusti del candidato: il rifiuto è puntualmente legato a una qualche brutta storia da sala da pranzo, e non ad una mancanza sul luogo di lavoro.

A Plasson, la fabbrica del kibbutz, lavorano attualmente 1400 persone, la maggior parte non membri del kibbutz. Come in ogni azienda, c’è bisogno di chi dia gli ordini e di chi li esegua: il punto è, allora, chi sei tu kibbutznik, par inter pares, per dare ordini a me pure kibbutzink? Nessuno si piega, e la situazione degenera: disobbedienza, fraintendimenti, discussioni, petizioni di principio sull’uguaglianza di tutti i membri. Col tempo, gran parte dei dirigenti sono stati assunti da fuori il kibbutz, sorta di podestà a cui tutti i kibbutznikim, ugualmente altezzosamente padroni della fabbrica, obbediscono pur senza piegarsi.

Il segretariato del kibbutz è diviso in commissioni, l’esecutivo delle decisioni collettive prese a maggioranza. Prendere decisioni, in un ambiente tanto angusto, vuol dire sempre fare un torto a qualcuno, qualcuno con cui bene o male si è cresciuti insieme. Qualcuno che magari si è soliti invitare a cena il sabato sera, i cui figli vengono a casa tua il pomeriggio, qualcuno la cui nipote è tua genera. Vista l’assenza di candidature volontarie, negli anni è stata introdotta una parziale rotazione degli incarichi, di modo che tutti prima o poi si debbano sporcare le mani; ma la questione resta irrisolta. Al fondo, comunque, è chiaro a tutti che proprio chi è pronto a sporcarsi le mani è il vero kibbutznik, quello che crede sia giusto e bello vivere così, nonostante la fatica, e paga il prezzo fino in fondo esponendosi di petto al vespaio. Da quel che sento dire in giro, e già avevo sentito a Yotvata, è una razza in via d’estinzione: il ripiegamento sul ‘proprio’ imperversa.

Qui ci sono firme, firme che ritornano e raccolgono le diverse correnti in cui anche più menefreghisti, alla fine, si riconoscono o meno: su petizioni, avvisi, comunicati, manifesti, eventi, sono le firme degli attivisti del kibbutz. Una settimana fa in sala da pranzo era allestito il banco delle urne, si votava per la restrizione o meno della metratura delle nuove abitazioni, da 160 a 140 metri quadri: tema spinoso, vista la mancanza di spazio fisico che strangola il kibbutz. Un fascicolo di 4 o 5 pagine, firmato da un tal kibbutznik, argomentava la petizione, con toni vagamente retorici di richiamo al bene della comunità e alla sua storia, ricordano da dove si era partiti e di come ci si è abituati bene con gli anni. Hudi, il mio capo allo zoo, si ferma a votare mentre usciamo dopo la pausa colazione: non legge neanche il fascicolo, segna la sua scelta SI-NO alle varie domande del questionario e lo infila nell’urna.

A suon di proposte e petizioni frutto dell’impegno civico di singoli, il kibbutz cambia. L’altra faccia degli spazi stretti, infatti, è l’autodeterminazione della comunità: quel che è sottratto a livello individuale è restituito con interessi a livello collettivo. Regolamentazione edilizia, investimenti etici, sistema pensionistico, tassazione, circolazione del traffico e giù giù fino al colore dei lampioni, praticamente nulla sfugge al diretto controllo dell’assemblea dei membri e dei suoi organi rappresentativi. Noi abituati a vivere ‘fuori’, da soli nel grande oceano di Stati, banche e mercati, non possiamo nulla contro i suoi grandi problemi; o almeno, così crediamo: ho lasciato l’Italia in balia dello spread, misteriosa entità che avrebbe deciso il nostro futuro senza che nessuno sappia spiegarci cosa sia e chi l’ha voluta. Il kibbutz, invece, rinchiude in una bolla di 6 km di diametro e 2000 anime la realtà sociale e i meccanismi che la muovono, offrendo l’occasione di studiarli da vicino e gli strumenti politici per modificarli.

Fino a pochi anni fa Maagan Michael aveva una produzione intensiva di banane: immensi campi coperti da sottili ‘zanzariere’ biancastre d’inverno e ora aperti per l’estate, con i frutti impacchettati in sacchetti di plastica blu affinchè maturino in fretta e gli uccelli non li rovinino. I bananeti richiedono una grande manodopera e una gran quantità d’acqua, e il kibbutz sopperiva assoldando lavoratori esterni per quello che è uno dei lavori, tra tutti, più faticosi e meno qualificati. Con gli anni si è alternata manodopera etiope, araba, sudanese e infine thailandese, a seconda di chi fossero i più miserabili sulla piazza: era quello che oggi si chiama lavoro precario, alla giornata senza garanzia e senza diritti. Le discussioni salirono nel kibbutz, qualche firma richiamando il principio autarchico di riferimento per cui la comunità stessa deve sopperire ai propri bisogni senza ricorrere ad esterni che lavorino per il kibbutz senza godere in qualche misura dei suoi servizi, e qualche altra rimandando al più generale diritto dei lavoratori a garanzie e dignità. Shifra, nella lezione del primo maggio, ci racconta che infine passò a maggioranza l’abbandono dei campi di banane per l’investimento sugli avocadi, di più facile coltura con macchinari da lavoro. Così, conclude orgogliosa, Maagan Michael eliminò dal proprio sistema il precariato con un’elegante soluzione: i thailandesi stipati in baracche a pochi kilometri dal kibbutz e pagati alla giornata per lavorare in una nuvola di zanzare sotto il sole bollente vennero integrati nel kibbutz come studenti di agricoltura, beneficiando di un sussidio ministeriale, e alloggiati in un quartiere tutto loro che resta qui a pochi metri dall’ulpan, lavorando nei super tecnologici filari di avocado per cicli semestrali accreditati presso il ministero. Hanno accesso ai servizi come tutti noi abitanti del kibbutz, vivono in camere singole con aria condizionata e, ci confessa Shifra, se la passano meglio di noi ulpanisti. Certo, si obietterà, è stata una scelta garantita dalla fiorente situazione economica del kibbutz, che può addirittura permettersi di fare il signore concedendo ai propri lavoratori diritti extra: vero, ma resta il fatto che questa scelta l’hanno fatta, quando potevano tranquillamente continuare con lo sfruttamento.

Non ho seguito come sia andata a finire, ma lo stesso vale per le concessioni edilizie di cui sopra: si vota in un giorno per il SI o il NO, e dal giorno dopo la metratura consentita è ridotta o aumentata del 10, 15 o 20%. ‘Fuori’, bisogna scrivere la petizione, raccogliere migliaia di firme, mandarle all’ufficio a Roma con tutti i bollini giusti sennò viene tutto annullato, sollecitare la pratica, sperare che venga vagliata da una qualche commissione parlamentare, approvata e che quindi torni indietro nel percorso di attuazione dalle regioni alle province ai comuni e, infine, ai palazzinari. Gli italiani lo hanno fatto con la legge popolare di abolizione dei privilegi parlamentari, per dire il caso di punta, e il fascicolo giace intonso in qualche cassetto in qualche ufficio di una qualche maggioranza parlamentare, che complice la legge elettorale nessuno ha scelto. Non è prevista una ulteriore procedura per attuare quella che è già una legge dello Stato italiano, stando alla Costituzione.

Il minuscolo kibbutz, asfissiante nel suo calpestare la vita privata e trascinarla nell’agorà sotto gli occhi di tutti, è d’altra parte di facile analisi e immediata manipolazione, e questo investe i suoi membri politici di grande responsabilità etica: ciò che raccontano, fanno, scrivono, votano cambia la condizione di vita di tutti, dal cibo che mangiamo al numero dei wind surf nel club velico. Nonostante gli atteggiamenti borghesi di superficie e gli strenui sforzi di molti nell’emanciparsi dal Grande Fratello, la struttura politica di Maagan Michael resta radicalmente diversa (non saprei come altro definirla), perpetrando contro la loro volontà, e spesso a loro insaputa, la leggenda di questi uomini straordinari. 

Mappa di Maagan Michael

Del farne una questione di Stato

Durante la Pasqua ebraica vengono al pettine alcuni dei nodi fondamentali dell’identità d’Israele, tirati a galla dalla super kasherut richiesta dall’occasione: nella Bibbia è scritto, tra le tante cose tra cui che Dio indurì per dieci volte il cuore del Faraone affinchè non liberasse gli ebrei e potesse così manifestarsi la Sua potenza nelle dieci piaghe fino allo sterminio dei primogeniti d’Egitto, che gli schiavi ebrei nella notte della loro fuga non ebbero tempo di far lievitare il pane. Quasi tremila anni dopo, per una settimana ti tolgono letteralmente il pane di bocca: non si trova nei supermercati, non si trova nei ristoranti, non si trova nella mensa del kibbutz. A sostituirlo si ripiega sul pane azzimo, la matza, più insipido del pane toscano e meno fragrante del cracker; di far scarpetta non se ne parla. Insomma, per me italiano una tragedia.
Il primo nodo che viene fuori è l’assoluta non-simbolicità del gesto. E’ fondamentale garantire all’ortodosso che da nessuna parte si trovi lievito, neanche per sbaglio: non nella verdura, non nell’acqua, non nell’olio, non nella carne. L’intera distribuzione alimentare d’Israele è sostituita, per pochi giorni, da prodotti kosher per Pasqua, certificati dal rabbinato di turno. Sugli scaffali non si trova un barattolo o una confezione senza questo nuovo marchio di superkasherut, uniche eccezioni sono negozi e supermercati arabi dove ci rechiamo a racimolare qualche pitah, tipo piadina ma con meno sale. A cena da amici per il seder Pesach (lettura della storia della fuga d’Egitto accompagnata da cibi rituali) si parla di questo: tirano fuori cifre astronomiche per le certificazioni di kasherut di Pasqua, discutono sulla necessità o meno di sottostarvi da parte delle grandi catene di distribuzione, azzardano teorie complottistiche sugli eventuali interessi che la politica trarrebbe dal business della kasherut. Regna la disillusione: a quel versetto della Bibbia, come a tutti gli altri precetti alimentari, si aggrappa oggi un giro d’affari milionario. Qualora il rabbino revochi la propria certificazione, la compagnia perde migliaia di clienti dall’oggi al domani: perfino la Coca-Cola, ai tempi, dovette rivelare la propria ricetta magica per accedere alla fetta di mercato dei rabbini, così come Nutella e Heineken. Benchè non esista il Rabbino Assoluto equivalente del Papa per il Cattolicesimo, i rabbinati di tal calibro da influenzare l’economia si contano sulle dita di una mano. Quanto alla loro ortodossia nell’applicazione del precetto sia incentivata dal lucro, dipende dal grado di maliziosità nel giudizio.

Questo per quanto riguarda l’osservanza religiosa da parte dei credenti e il suo effetto sui servizi erogati da privati; c’è poi una seconda religione, quella degli appartenenti: gli ebrei atei, eppur praticanti. Il seder viene celebrato in quasi tutte le famiglie, così come altre ritualità annuali, anche da quelle dichiaratamente atee, un po’ come da noi le chiese si riempiono magicamente la notte di Natale e si svuotano, altrettanto magicamente, la settimana dopo. L’autenticità della credenza è forse dettata dalla cura nell’organizzazione del seder, ma non necessariamente: forse per mancanza di alternative, la ritualità religiosa è infine diventata per l’ebraismo sigillo di appartenenza civica. Alla nascita dello Stato d’Israele, che ha voluto catalizzare nella propria cittadinanza questo balzano senso civico, la mancanza di alternative si è concretizzata nel cosiddetto status quo: cosa, se non la religione, può rendere lo Stato Ebraico ebraico de facto? Ben Gurion, leader storico, istituzionalizzò l’appartenenza senza credenza elevando alcuni precetti religiosi fondamentali a leggi dello Stato: la chiusura dei servizi pubblici di sabato, l’esonero degli studiosi della Bibbia dalla leva militare e il loro finanziamento pubblico, il rispetto della kasherut ‘di Stato’: per tornare alla nostra Pasqua, quindi, per l’occasione lo Stato d’Israele vende tutto il proprio pane e simili (birra inclusa in quanto lievitata) ai non ebrei, musulmani o cristiani che siano, al prezzo simbolico di uno shekel, per poi ricomprare tutto allo stesso prezzo a festività terminata. L’infantilità del trucco imbarazza gli israeliani stessi, ma d’altra parte agli escamotages bisogna rivolgersi onde evitare la simbolizzazione del precetto e dunque la sua decaduta: se l’arte della teologia cristiana è l’astrazione verso il concetto e quindi interrogarsi su come un Dio onnipotente e buono si abbassi a indurire il cuore di un re provocando deliberatamente dolore e morte, l’arte del Talmud è la concretizzazione verso la pratica e quindi la ricerca dell’intenzione del comando affinchè sia applicabile; i cristiani non hanno regole, gli ebrei ne hanno troppe. Analogamente, quindi, sul suolo israeliano è vietato allevare maiali, animale impuro secondo la Torah, ma viene allevato su apposite palafitte certificate dai rabbini come metafisicamente sopraelevate e quindi esterne al suolo d’Israele. Unico punto d’attrito è la legge sulla cittadinanza nello Stato Ebraico: secondo la legge del Ritorno, simmetrica alla legge nazista, chiunque di padre o madre, nonna o nonno ebrei ha diritto alla cittadinanza, secondo i rabbini invece solo il figlio di madre ebrea.

Al di là della confessionalità de facto, dalla copertura del reparto pane sotto Pasqua alla relativa difficoltà nel reperire frutti di mare o carne di maiale, si somma la confessionalità de iure di uno Stato che dall’alto di una signora democrazia e di un primo piano tra gli occidentali, ancora si piega a superstizioni medievali. Gli israeliani, a volte gli stessi religiosi, percepiscono la tensione, ma non la focalizzano; sono confusi e lacerati: da una parte vorrebbero liberare lo Stato e loro stessi dal vincolo confessionale, dall’altra non hanno trovato altro modo per manifestare il loro ebraismo che non passi per la religione: nel seder Pesach, c’è poco da fare, si invoca Dio e si celebra il suo miracolo, ma d’altra parte così è stata scritta la storia di questo popolo. Almeno fino ai nostri giorni.

Oggi è il Giorno della Shoah. Questa sera, alle 20.00, nel kibbutz ci sarà una commemorazione: il tema dell’anno è la Shoah in Italia. Tutti saranno vestiti di bianco, ci saranno candele, proiezione di foto e lettura di storie; stamattina in sala da pranzo sono comparse fotografie in bianco e nero sui muri e un tavolo di libri in consultazione. Domani mattina, alle 10.00, una sirena suonera per due minuti continui, e tutta Israele, o se non altro l’Israele ebraica, si fermerà in piedi in silenzio, le macchine accosteranno sulla strada e perfino l’aeroporto si fermerà. In televisione, dalle 20.00 di stasera e per 24 ore, andranno in onda solo programmi dedicati, anche per bambini. Giovedì scorso al moadon, durale la conversazione dell 14.30, gli educatori hanno ricordato ai bambini che si avvicina il Giorno dell’Indipendenza e che per chi vuole c’è la possibilità di partecipare ad una coerografia; tra gli interventi, qualcuno dice di sapere che il Giorno dell’Indipendenza cade dopo il giorno della Shoah. Visibilmente spiazzati, gli educatori confermano e invitano a restare sul tema, ci sarà un’altra occasione per parlare della Shoah. Ma è troppo tardi: Tom, a gattoni davanti al nostro divano, spiega che c’era Hitler che voleva uccidere tutti gli ebrei e conquistò molte terre e con i suoi collaboratori ne uccise milioni; Or, se non ricordo male, alza la mano per dire che la nonna di sua mamma è morta a Dachau. Parlano dondolandosi e roteando lo sguardo, a bassa voce e scegliendo bene le parole, come sempre: per i bambini di 6 anni del kibbutz è una storia come un’altra, la raccontano come qualche mese fa raccontavano la storia di Ester nella festività di Purim, dondolandosi e roteando lo sguardo. Oggi si chiama Hitler e non Aman, cambia solo un nome e qualche numero, per loro.

Mi chiedo che ne sarà della storia della Shoah tra duecento o mille anni, se ci sarà un seder Shoah con cibo rituale per ricordare quel che si mangiava a Dachau e quando s’infilerà Dio in mezzo a questa storia di uomini; o, se ce già, quando verrà istituzionalizzato; quando, andati perduti i documenti, verranno rimpiazzati da favole come l’apertura del Mar Rosso; quando lo Stato venderà per un solo giorno tutte le scarpe ai non ebrei, perchè è scritto che nei campi di sterminio andavano a piedi nudi d’inverno. Diventerà anche la Shoah pezzo della sacra vicenda tra Dio e il suo popolo? Diventerà anche la parete di Dachau, costruita da mani naziste, sede di un Dio che legge i bigliettini che ci infilano i fedeli? E se tutto questo succederà, come succederà? Io spero di no, spero che la moderna conservazione della verità storica aiuti il popolo ebraico a svincolarsi dalla magia e che tra mille anni dei cittadini normali possano festeggiare il loro Giorno dell’Indipendenza senza celebrare un miracolo di un Dio a cui non credono.