Minoranze, Aristotele e Mosè

La prima settimana è ufficialmente passata. Sto scrivendo da una panchina sul bordo di una delle vasche più grandi, tra i canneti e gli aironi appostati in attesa di qualche pesce imprudente; a ritmare la pace di questo venerdì mattina, in cui non lavoriamo né studiamo, il colpo a salve scaccia-uccelli puntuale ogni 2 minuti, dall’altro lato della vasca; sarà mezzo chilometro almeno. Sono stato infine messo in Dalet, la classe più alta che il kibbutz offre, con un’altra quindicina di studenti tra i 17 e i 25 anni: almeno sei sudamericani tra Argentina, Uruguay, Messico e Cile, tre Ucraini che più slavi non si può, una francese, una greca, tre australiani, un’americana di nascita israeliana, una tedesca. Da lunedì entriamo in classe alle 7 e un quarto col nostro bel raccoglitore fornito dall’ulpan, e stiracchiandoci ciascuno con le sue fisse iniziamo la lezione: i sudamericani si passano di banco in banco un bel mate bollente, c’è chi preferisce il caffè lungo dell’ufficio e chi invece va avanti ad acqua. Io mi accontento di un minimale caffè espresso della spettacolare macchinetta del nonno, che tutti mi invidiano e che nessuno può toccare, sorseggiato in piedi sullo stipite della camera godendomi l’alba sulle pendici del monte Carmelo. In classe, per ora, non si è fatto gran chè da un punto di vista tecnico: si è parlato molto e scritto poco, e solo due giorni fa abbiamo ripreso la struttura dei verbi per binianim, il concetto di radice, i tempi verbali e il sistema di vocalizzazione. A dispetto dell’ottimo livello di conversazione di due o tre (i mezzi israeliani che parlano ebraico in famiglia) e della familiarità con il lessico di base di molti che sono già stati in Israele o hanno studiato in scuole ebraiche, in generale il livello di conoscenza teorica della lingua è basso; paradossalmente, quelli che hanno le idee più chiare siamo io e Anael, la francese, entrambi novelli: dopo la scuola elementare ebraica in cui ha imparato le basi ha ripreso l’ulpan da poco meno di due anni; io ho imparato l’alfabeto esattamente un anno fa, nella mia camera in Corso di Porta Nuova 24. Le lacune dei miei compagni vanno dallo spelling alla coniugazione dei tempi verbali alla declinazione della stessa radice per diversi binianim, oltre che la ben più grave mancanza di gusto per la lingua e la sua logica. Tutte mancanze che verranno presto riparate, ma che mi convincono di una radicale differenza di forma mentis tra lo studente di lingua adulto e consapevole, che impara lo schema su un prototipo ed estende la sua conoscenza della lingua per casistica analoga ed eccezioni, e il bambino inconsapevole che assorbe la lingua per imitazione ed eventualmente, se interessato e acuto, in un secondo momento arriva a cogliere la regola per induzione dalla molteplicità degli esempi. La naturalezza di questo secondo parlante è invidiabile, ma tutto sommato sono contento di aver sempre studiato e non acquisito per osmosi le mie seconde lingue, anche se poi dimenticate.

Sono l’unico non ebreo; a dir la verità, in tutto l’ulpan. Di principio non ho nulla di cui sentirmi a disagio, anzi, sono l’unico che paga il corso a quota intera senza borse di studio dall’Agenzia Ebraica, il che al più mi dà maggior diritto di frequentare l’ulpan, sono tra i migliori in ebraico e ho il lavoro di maggior responsabilità, come educatore dei bambini di prima elementare; da un punto di vista di relazioni sociali, non c’è alcun problema: anche chi sa che non sono ebreo tende a dimenticarselo e talvolta mi tocca addirittura ricordarglielo, e non noto nessun pattern di comportamento particolare nei miei confronti; in diverse occasioni, piuttosto, ho ricevuto complimenti per la scelta di studiare in Israele nonostante la non appartenenza all’ebraismo. Quel che davvero mi turba, invece, sono le lezioni. L’ulpan, come già avevo intuito a Gerusalemme dove però, essendo la maggioranza degli studenti non ebrei, l’equilibrio era ben diverso, è un programma prima di tutto d’integrazione e ‘assorbimento’, come si dice qui, dei nuovi arrivi: israeliani che tornano o Olim Hadashim (nuovi immigrati); solo in un secondo momento è una scuola di lingua. I programmi ministeriali delle diverse classi passano in rassegna tutti i momenti salienti della millenaria storia ebraica di cui i futuri israeliani, su cui è tagliato il corso, dovranno infine sentirsi parte a pieno titolo quanto i sabra (letteralemente ‘fico d’india’, così si indicano gli israeliani nati e cresciuti in Israele). Si va dall’edificazione del secondo tempio alla letteratura biblica sul mondo che verrà, l’archeologia dei luoghi sacri e i modi di dire yddish, il significato delle feste rituali e la rinascita dell’ebraico moderno, l’universo kibbutz e la comunità haredi, in un ben bilanciato equilibrio tra storia, leggenda e religione che dovrebbe essere l’anima dell’ebraismo contemporaneo. Per me è tutto molto interessante, in particolare la storia recente e gli aneddoti divertenti, ma al primo posto c’è sicuramente la lingua semitica e la sua struttura. Per poterla studiare qui, però, mi tocca passare scomodi momenti di isolamento tra la citazione di una canzoncina-preghiera per bambini alla spiegazione di una tal ritualità d’iniziazione che non ho fatto al riferimento a racconti biblici che io so solo per sentito dire. Il peggiore di questi momenti è stato martedì, il secondo giorno di lezione, quando a proposito delle radici nella lingua ebraica (unità trilittera portatrice di un’area semantica) Shifra, la prof, introduce il tema delle radici genealogiche, attraverso l’espediente del nome proprio. Inizia il giro e a turno ciascuno spiega l’etimologia del proprio nome e la provenienza dei propri avi: si viaggia dalla Turchia alla Polonia, dallo Yemen alla Germania, dalla Spagna alla Russia in genere a seconda delle persecuzioni di turno, mentre Shifra segna alla lavagna l’albero genealogico da Abramo in giù per mostrare le parentele tra i nomi; isomma, proprio roba da ebrei! Al mio turno non posso che dire che tutta la mia famiglia è italiana, che il mio cognome compare già nelle cronache della Roma repubblicana e che non ho nessun ascendente ebraico. Shifra strabuzza gli occhi: ‘Cosa??’. Ripeto. ‘Cioè, nessun ebreo in famiglia, tutti cristiani?’, mi viene da ridere, e puntualizzo che sono ateo: da noi si può. Ancora sotto shock fa proseguire il giro, tra qualche battuta di quelli che lo sapevano già. La tragicomicità della scena emerge ad ogni volta che ci penso, ora innervosendomi per l’israelianissima mancanza di tatto di Shifra, ora comprendendo il suo stupore. Al termine della lezione, comunque, Shifra ha avuto premura di rassicurarmi che la sua reazione era di genuino stupore e in nessun modo di scandalo o disapprovazione: anzi, mi confessa, la inorgogliosisce molto trovare in classe studenti non ebrei interessati alla sua lingua e alla sua Storia.

E’ la prima volta che mi trovo solo, proprio solo, in mezzo agli ebrei, nonostante il lungo tempo già trascorso qui. Lo scorso semestre qui a Maagan Michael, almeno, erano in quattro! La diversità gioca strani scherzi, devo stare attento. Mi sono già accorto con inquietudine, fin dalle prime esperienze spinose, di un meccanismo di difesa che tendo a innescare per cui auto-censuro la mia identità e alterità per non dare nell’occhio, di fatto ponendomi come diverso quando in realtà potrei farne a meno: se non dico la mia sulla conquista romana del Tempio quando la prof chiede alla classe, o se dico qualcosa, nessuno dei miei compagni avrebbe cura di interpretarla alla luce del mio essere più ‘romano’ che ‘zelota’: sono passati 2000 anni! Eppure un certo imbarazzo spunta fuori ad ogni riferimento esplicito all’identità ebraica, e senza rendermene conto entro in modalità ‘punta dei piedi’ cercando, se non altro, di diventare invisibile e recare il minor disturbo possibile ‘in casa d’altri’.Tutto parte dall’essere in minoranza e dunque dal sentirsi minacciato, a cui reagisco con discriminazione preventiva: meglio stare zitto, tanto anche se portassi il mio punto di vista nessuno lo capirebbe. Devo stare attento, queste paranoie identitarie tolgono l’appetito.

Paradossalmente, mi trovo diverso tra i diversi per eccellenza. Stando qui con loro, studiando con loro e parlando con loro, però, non posso che farmi venire qualche dubbio sulla natura di questa loro Diversità: in cosa consiste? Cosa rende un ebreo tale? Quale magica proprietà possiede Massimo, il più simile a me in quanto italiano, in virtù della quale non paga questo stesso corso che io pago a prezzo intero? Tirchio, lo sono anch’io; l’ebraico lo parlo di gran lunga meglio io; la storia la sanno in molti; la religione, siamo quasi tutti atei. Quanto alla definizione di Dio, se pure vogliamo metterla sul piano di fede, siamo sempre lì: a detta dell’ulpanista medio è unico, eterno, onnipotente, buono, come direbbe qualsiasi cristiano e musulmano. Quel che cambia, al più, è l’ambito di applicazione del precetto religioso: l’universalismo cristiano vuole un brav’uomo, il particolarismo ebraico un buon ebreo. Ma la distinzione, forse, vale solo sui libri: per quel che ho visto, la mizva (buona azione) è doverosa tanto verso l’ebreo quanto verso di me. Un po’ meno lo è verso l’arabo, l’etiope, il povero. Per certi vizi tutto il mondo è paese. A questo si aggiunge un buon numero di ebrei per conversione di un genitore, di ebrei per sangue ma non per educazione, di ebrei per solo un quarto (nonno o nonna), o i rari casi (qui non ce n’è) di conversione religiosa in prima persona, che consiste in una tonnellata di libri da studiare e di precetti da imparare, cioè una vastissima gamma di ebraicità dal quasi nulla al tutto dei purosangue religiosi osservanti. Se, come pare, l’identità di questo popolo non è dettata da un particolare attributo (abito, lingua, fede, sangue) ma è sostanziale, invisibile, ma la conversione consiste nell’acquisizione di tantissimi attributi di genere (i convertiti devono rispettare molte più regole degli ebrei di nascita) come se questo bastasse a cambiarne la sostanza, allora bisogna ripassare Aristotele. Per i cristiani il battesimo è una trasformazione sostanziale per opera dello spirito santo attraverso il gesto a ‘X’ del prete, ed è appunto invisibile: forse per questo non si nota alcuna differenza tra un cristiano e un non cristiano. Per lo Stato Ebraico, invece, nonostante il mito dell’appartenenza sostanziale e dell’identità invisibile, è fondamentale investire nella formazione, nella costruzione dell’ebreo in tutti i suoi attributi: l’Olim Hadash non va bene così com’è solo in quanto ebreo de iure ma deve essere modellato (o, concediamo, completato) fino ad introiettare l’universo culturale di quello che alla fine è l’israeliano, ulteriore specificazione di genere. E non direi nemmeno che l’israeliano coincide col sionista, perchè molti dei miei compagni, tra cui il mio coinquilino Massimo, hanno fatto l’Aliah (immigrazione ebraica) sull’onda degli incentivi economici e di una prospettiva di vacanza al caldo: per loro il Movimento Sionista ha un’eco di ClubMed, di ‘gita di classe ad interim’, come si diceva ieri sera con un’amica, senza l’ombra di grandi sentimenti nazionalisti. Il volontariato ebraico in Israele, i viaggi pagati dall’Agenzia Ebraica, l’ulpan, l’esercito, i programmi di accoglienza come soldato o lavoratore senza famiglia in kibbutz o moshav, gli incentivi allo studio, i programmi di lavoro post esercito, tutto concorre a fare una bella differenza tra l’ebreo di Buenos Aires e l’ex argentino ora israeliano. Ci va di mezzo anche una più generale considerazione geopolitica. I discorsi di Shifra, come tutta l’atmosfera ulpan, sul ritorno alle radici mi suonano kitsch e sottilmente ideologici: il mio compagno di banco ha pochissimo a che vedere con Abramo e Mosè, così come i compagni di banco di Iris, a Francoforte, hanno pochissimo a che vedere con Hitler e io ho pochissimo a che vedere con Mussolini. La retorica del Bentornato, quando in realtà vedo tanti bei Benvenuti, non tirerà mai fuori Israele dal pantano politico in cui si è cacciato: qui tutti hanno il diritto di tornare, basta guardare il periodo storico giusto. Le ragioni profonde dello Stato Ebraico, piuttosto, le cercherei in un presente davvero pericoloso per chi si sente e si professa ebreo, dalle bombe carta alle scuole elementari in Francia ai cori nei nostri stadi ai linciaggi in Svezia. Non si parla di attentati e rivendicazioni contro Israele, ma di vero antigiudaismo ‘all’antica’ contro l’ebreo deicida e cospirazionista, anche questo vizio di lunga data: lo status di Israele come asilo di profughi, per quanto triste, mi sembra più consistente dell’artificiale, per quanto affascinante, retorica della discendenza e quindi del diritto all’eredità, in primo luogo della terra. Senza nulla togliere al sentimento di appartenenza allo stesso popolo, che è qualcosa di eccezionale e ingiudicabile, constato che l’unico vero denominatore comune dei miei compagni di classe, da Santiago del Cile a Seattle a Parigi, sono le ritualità d’iniziazione e la scuola elementare ebraica con le canzoncine e le storie di Abramo e Isacco in fumetti: per il resto hanno conosciuto comunità ebraiche diverse in città diverse con lingue diverse e abitudini diverse, opinioni politiche diverse,  musica diversa e letteratura diversa, situazione economica e professione diversa. Quasi nessuno mangia kosher, né qua né in famiglia. L’ulpan e l’intero programma di assorbimento si fondano sul sentimento di appartenenza degli ebrei di tutto il mondo, ma in cosa consista questa appartenenza neanche loro lo sanno: mentre rabbini e studenti in università di tutto il mondo studiano la questione, l’israelizzazione è un buon collante.

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