Il kibbutz di domani

La prima settimana di lavoro al doposcuola dei bambini (prima elementare) è stata una scoperta. O meglio, una ri-scoperta. Mi ero dimenticato dei denti da latte, del giocare a scambiarsi i nomi, del pensare ad alta voce col pretesto di raccontare a qualcuno. A mezzogiorno, dopo lezione, preparo i venti posti a tavola con vassoio, tazza di plastica mezza piena d’acqua (o mezza vuota?), posate, e le portate del cibo, nei tavoli riservati della sala da pranzo. La sala, situata in cima alla collina sui cui è edificato il kibbutz, si apre in una paradisiaca vista sul mar Mediterraneo, dietro la selva tropicale che sommerge case e persone giù giù fino alle vasche dei pesci e alla spiaggia, dove invece regnano incontrastati i vuoti del cielo e gli uccelli; il self service consiste di tre sezioni di cibo caldo, prevalentemente carne, con cuochi a disposizione per carne alla griglia, frittate o particolari panini, e diversi angoli per insalate, pasta e riso, pane e dolci, caffè, yogurt e latticini, frutta e insalate. Al termine due casse a cui paghiamo, con le nostre carte fornite dal programma ulpan, un prezzo irrisorio per la qualità del ristorante. I ‘miei’ bambini arrivano all’una e mezza, ciò significa che ho una buona ora per mangiare e gozzovigliare tra i tavoli o tornare a casa per un caffè dopo aver apparecchiato. Il pranzo è sicuramente il momento più divertente: per prima cosa si mettono in fila per prendere il piatto e scegliere il cibo, nell’attesa giocando, punzecchiandosi o parlottando tra loro; Yonatan, ipercinetico dagli occhi azzurri, è sempre il primo della fila; già il momento della scelta la dice lunga sulla personalità di questi piccoli uomini che non hanno ancora imparato ad omologare i loro modi: c’è Uri, determinato e concentrato, che esprime le proprie richieste in modo conciso (chiaramente anche cir-) e completo, c’è Libi che, complice l’occhio sbilenco, con la sua inesauribile energia si arrampica sul carrello per vedere cosa c’è e puntualmente prendere un po’ di tutto, c’è Iasmina, occhioni da cerbiatto e vocina da scoiattolo, che non chiede mai per favore e non dice mai grazie, c’è Tom, che sussurra a occhi bassi torcendosi le mani. Con mio grande stupore tutti vogliono, oltre al cibo solido, una tazza di brodo caldo, generalmente con pastina o polpettine di carne. A tavola iniziano i racconti, chi sulla mattina a scuola chi sulla sera prima a casa, chi dando per scontato che io conosca tutte le maestre e tutti i compagni di classe e chi si perde nel proprio racconto, agitando il cucchiaio guardando al soffitto. Per i primi due giorni c’è stato il gioco dei nomi, in cui me la sono cavata solo col trucco di leggere l’etichetta dei posti a tavola, finchè non mi hanno scoperto. Noto che non litigano mai, chiedono permesso e si prestano le cose, giocano e gridano ma obbediscono quando gli si chiede di mangiare o di stare seduti composti. Con il gruppetto delle chiacchierone ho fatto un accordo: sarei rimasto al loro tavolo, come loro chiedevano, solo se avessero mangiato 4 bocconi per ogni racconto; stava funzionando, finchè non sono stato chiamato ad un altro tavolo. Sono bastati cinque minuti a tradire la mia parola, e al mio ritorno erano tutte indispettite; Mika, una che vede e capisce tutto, mi ha tenuto il broncio fino a fine pranzo quando, compreso che devo servire il bis agli altri bambini e controllare gli altri tavoli, mi ha regalato uno dei suoi due fiori. Ora sto più attento alle mie promesse, perchè coi bambini non c’è il ‘così, per dire’.

Il nostro moadon.
Il nostro moadon.

Quando ciascuno finisce di mangiare butta via i propri avanzi nella spazzatura e impila ordinatamente il proprio vassoio, barcollando sotto il suo peso. Gli altri educatori li portano al moadon, la nostra sala giochi, dove io li raggiungo dopo aver sistemato le stoviglie sul rullo trasportatore della lavapiatti e il cibo avanzato in cucina. Il moadon è a due minuti a piedi in discesa, sul versante a mare, nel quartiere dei moadon, ciascuno per ogni classe: campi da gioco di vario tipo, cespugli, scalette, divani, dondoli, tutto sembra studiato per far giocare dei bambini. Mi è bastata una settimana, invece, per capire che sono i bambini studiati per giocare con tutto. Oltre ai veri e propri giochi, dalla pallacanestro al tennis, c’è chi disegna e chi costruisce la ruota della fortuna, chi scrive alla lavagna e chi si rotola sul tappeto, chi cucina la torta sotto la guida di Anat e chi guarda la televisione. Io sono diventato il giratore di corda ufficiale per il salta-la-corda, essendo loro ancora troppo deboli per girare in tondo senza perdere l’equilibrio. In genere non molto da fare, oltre ad imparare parole nuove e far finta di capire tutto quello che mi dicono: giocano prevalentemente da soli senza litigare, rispettando le regole del moadon (niente corsa dentro, niente pennarelli fuori, chiedere il permesso per attraversare la ‘strada’, il vialetto largo tre metri tra la veranda e i campi da gioco, attraversato da macchinine elettriche o biciclette, arrancanti in salita). Roni, altra educatrice, mi dice che è questo l’obiettivo.

La liberazione della colomba viaggiatrice, dopo che le abbiamo legato alla zampa un biglietto dalla 'kitah aleph'.
La liberazione della colomba viaggiatrice, dopo che le abbiamo legato alla zampa un biglietto dalla ‘kitah aleph’.

Oltre al moadon ci sono giorni di attività settimanali, cioè visita allo zoo di domenica, giochi organizzati il martedì e barca a vela il giovedì. Questa settimana purtroppo la barca a vela è saltata causa mal tempo, ma di martedì abbiamo fatto un giro in cerca di uccelli, dopo una lezione di Hudi sulle specie che abitano nel kibbutz. Hudi, trentenne dalla voce pacata innamorato degli animali, ho scoperto essere il mio capo al piccolo zoo, dove lavoro nelle settimane in cui non sono coi bambini. Questo relativamente piccolo giardino contiene gabbie di coloratissimi pappagallini, polli di ogni foggia e colore, colmbe, conigli, cincillà, porcellini d’india, una coppia di lemuri, conigli, recinti con capre, asini e delle specie di piccoli camosci del deserto. I bambini, però, mi spiega Hodi che preferiscono le teche con i due pitoni e i topi di vario tipo, o ancor più gli insetti: amano poter interagire con gli animali, non solo guardarli, per questo da quando è diventato responsabile ha venduto o scambiato gli animali esotici, come la scimmia che soffriva di solitudine, per far posto a specie locali che stanno bene col clima e l’ambiente e sono quindi più trattabili. Tra queste c’è una cinghiala senza una zampa che, recuperata ferita sul Carmelo, vive da regina dello stagno tra le papere e le oche.

Mi piace lavorare qui, sia coi bambini che allo zoo, all’aria aperta e sempre in qualche modo prendendomi cura di altri. I bambini ricevono un’educazione unica (non riesco a immaginare un’altra situazione se non il kibbutz dove esplorare e inventare senza pericoli, condividendo gran parte della giornata con coetanei, a contatto con la natura in un clima caldo a febbraio) e i risultati si vedono: vivono pacifici e non ho ancora assistito a un pianto, un bisticcio; nell’unica mezzora in cui è concesso guardare la tele solo in genere 4 o 5 si siedono sul divano. Ma non è sempre stato così. Shifra, la prof, ci ha raccontato delle origini del kibbutz, della sua amministrazione e anche dell’educazione dei bambini, nodo cruciale dello stile di vita kibbutz: fino al 1982 a Maagan Michael i bambini crescevano nella ‘stanza dei bambini’, vale a dire dormendo in un dormitorio comune, mangiando nella mensa dei bambini, giocando insieme, studiando insieme, visitando i genitori due ore al giorno, dopo cena. Lei è cresciuta così, e si ricorda i pianti ogni sera nel lasciare la mamma per tornare a dormire con l’educatrice dei bambini, che per loro era più del Grande Fratello. Alcuni si sono persi per strada, racconta, crescendo come orfani pur vivendo a due passi dai propri genitori, altri come lei hanno sofferto, altri ancora hanno amato quest’educazione; quasi tutti sono cresciuti sani e forti. Shifra è arrabbiata; sostiene che l’errore sia stato far di necessità ideologia: negli anni ’50 Maagan Michael era una piccola comunità di contadini in mezzo a una palude di dune e zanzare, bisognava lavorare sodo per trovare acqua potabile, irrigare dov’era secco e asciugare dov’era acquitrinoso. Servivano lavoratori, non genitori: le coppie vivevano in piccole casette con una stanza e una doccia, senza bagni nè cucina, entrambi comuni; si lavorava parecchie ore al giorno, ci si vestiva nella lavanderia comune e non c’era tempo per i bambini. Questi crescevano insieme nelle stanze comuni, là dove si era riusciti a disinfestare da serpenti, topi e zanzare, perchè non c’era modo di conciliare la famiglia con le esigenze della comunità. Per sopportare questo grave torto contro natura, lei sostiene, si costruì un progetto educativo sulla sfortunata contingenza, un pensiero, una fede, al punto che si credette davvero che fosse cosa buona e giusta crescere così. Il distacco, il rispetto per l’adulto e l’obbedienza sono rimasti radicati in queste generazioni, e tuttora ci sono vecchi che si permettono di rimproverare bambini, ormai ‘altrui’ checchè loro ne pensino, in sala da pranzo. Mi ha stupito ascoltare la sua versione dei fatti e la sua rabbia di bambina, io che nonostante i mesi continuo a figurarmi il kibbutz come abitato da superuomini, e mi chiedo cosa penseranno i ‘miei’ bambini, tra qualche decina di anni, della loro infanzia a Maagan Michael…quando c’era quell’ulpanista di nome Lorenzo che ci faceva saltare la corda.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...