Nel cuore della jungla

Il nostro primo sabato pomeriggio.
Il nostro primo sabato pomeriggio.

Il primo impatto con Maagan Michael, dopo una traversata di quasi otto ore dal profondo sud d’Israele attraverso autobus e stazioni più o meno note, è stato tropicale: il diluvio a singhiozzi risparmia i miei cinque minuti a piedi dalla fermata sulla superstrada al curvone dello svincolo, dove un ben kibbutz misericordioso mi raccatta con tutte le mie valigie. Il fitto verde tutt’attorno, la tettoia di foglie di palme dell’ufficio Ulpan, il crepuscolo, gli uccelli silenziosi appollaiati al riparo dei rami, il profumo di bagnato che impregna le narici, gli altri studenti appoggiati agli stipiti immobilizzati dallo scroscio fuori che scrutano l’ultimo arrivato: tutto insieme, e tanto, dà un sapore di amazzonia in confronto alla secchezza dei vuoti di Yotvata su cui la mia concentrazione aleggia malinconica. Immerso in un’agrodolce nostalgia il colloquio con Iaron mi scivola addosso come le pratiche di check-in e i primi incontri: non ricordo niente, non erano importanti. I primi incontri non lo sono mai. Per gioco e per scommessa cerco di tenere a mente le mie aspettative, il paesaggio virtuale di Maagan Michael che mi ero costruito nelle settimane e nel viaggio in bus, lo focalizzo mentre mi sistemo in camera introducendomi a Michael, il coinquilino australiano, e a Massimo, l’italiano che giace esanime a letto, steso da un dolore allo stomaco. So già che nel giro di poco tempo la realtà rimpiazzerà per sempre la mia fantasia, sovrascrivendo il Maagan Michael vissuto su quello pensato, ma non so quanto poco: cerco di procrastinare. Amir, uno dei responsabili, mi chiama ogni tot per sapere come sta Massimo e se vuole chiamare il dottore: sono il suo traduttore, essendo lui a livello zero sia d’inglese che d’ebraico. Non sente le gambe, le fitte allo stomaco gli impediscono di parlare: chiamiamo il dottore. Ometto di almeno 70 anni, arriva dopo un’oretta in mezzo al diluvio, si scrolla le spalle e si avvicina deciso al capezzale. Non saluta, tasta qua e là chiedendo dove fa male, poi tira fuori una grossa pillola rosa sentenziando: ‘E’ ulcera. Prendi questa, ti farà la bocca secca. Se domani ti fa ancora male, vai in ospedale’. Senza aggiungere altro nel suo accento russo, si volta e fa per uscire. Già che ci sono gli faccio vedere il mio alluce chiedendo consiglio sull’unghia incarnita: mi dice cortesemente come si dice unghia in ebraico (ovviamente dimentico all’istante) e aggiunge con semplicità, senza fermare il suo lento incedere di nuovo verso il diluvio: ‘ti serve un chirurgo’. Massimo ha 25 anni, di Roma, ebreo, ha appena fatto l’Aliah, ha fatto lo psicopedagogico e poi è andato a lavorare nella ditta di papà, che certifica lo stato delle forniture di estintori. E’ un italiano vero, quelli che il calcio e le fettuccine di nonna, ed è ansioso. Nei due giorni a seguire gli farò da traduttore e baby-sitter in ospedale, rassicurandolo che tutto andrà bene e confermandogli che tutto è andato bene, quando il medico gli dice che dagli esami non risulta alcuna anomalia: tutto bene, sano come un pesce. Il giorno dopo il sole ci sorprende tutti: Massimo è guarito, e non accenna nè ai dolori nè alle 5 ore d’ospedale del giorno prima.

La spiaggia  potrebbe essere tirata fuori da una cartolina della Thailandia o giù di lì. Sabato una cinquantina di noi studenti gozzoviglia sulla sabbia appena battuta dalle onde lunghe e la pioggia. Calcio, giocoleria, chitarre e bonghi, inauguriamo così il nostro Ulpan.

Prime impressioni sul gruppone: poco ebraico e tanto sballo.

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