Lettera dal fronte

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Oggi è sabato, in particolare nel mio quartiere. Il quartiere inizia dalla terza traversa di via Pines, che va giù in discesa da Kikar HaDavidka, lato a valle. Il lato a monte, dove abitiamo noi, è sul lato della linea per niente immaginaria chea divide il mondo secolare dal mondo haredi, sempre che una linea possa avere un lato. A me piace pensare che lo scolo dell’acqua, perfettamente centrale in via Yom Tov Elgazi, sia stato tacitamente assunto come confine nell’ancestrale spartizione del mondo tra timorati di Dio e blasfemi, che qui a Gerusalemme pare tirare molto.

Gli haredim, letteralmente “i timorati”, sono una macrocategoria dell’ortodossia ebraica, che raggruppa al suo interno innumerevoli comunità unite attorno a un rabbino. Si differenziano per rituali, lingua (yddish, ebraico, inglese, francese, polacco), etnia, posizione politica, regola di vita, minuziosi dettagli della divisa. All’occhio profano, però, sono tutti vestiti in giacca e pantalone nero, camicia bianca e cappello nero a tese larghe da cui spuntano lunghi ricciolini, vivono tutti insieme in un mondo impenetrabile ed imperscrutabile, sono poveri, mantenuti dallo Stato, fanno tutti 12 bambini come le tribù d’Israele e non danno diritti alle donne. E puzzano, d’estate sull’autobus. Tutto sommato, a nessuno di noi blasfemi interessa sfatare questi miti, conoscere, disambiguare, giudicare. Ci è più comodo pregiudicare, come d’altronde è comodo a loro.

Sul lato a monte di Yom Tov Elgazi, siamo gli ultimi secolari prima del baratro, noi e un altro vecchio che si dice giri senza kippah, così vecchio che abitava qua da prima che il quartiere diventasse haredi. Ma io non l’ho mai visto. Attente sentinelle affacciate su un mondo di proibizioni e doveri, santità e impurità, divino e terreno, non siamo accettati ma discretamente tollerati, quasi ignorati. Una casa di atei e, peggio, abitata da un non ebreo, resiste nella tempesta delle mizvot. E’ il numero sette, ma non c’è scritto. Lo deduciamo dal trovarci dopo l’enorme “5” in vernice blu scrostata sulla porta accanto. Quando ci entrai per la prima volta m’innamorai del salone ex-strada pubblica, del muro in blocchi di pietra bianca a vista, del tetto in plexiglass trasparente, del mosaico a motivo floreale in centro alla stanza, della pompa dell’acqua del Mandato Britannico in Palestina che si erge trionfale di fianco al tavolo da pranzo, dei ciuffi d’erba che spuntano rigogliosi dal muro della sala. Non conoscendo i famigerati haredim come li conoscono gli israeliani, non ne ero spaventato, solo incuriosito. Ricordo che i coinquilini si premurarono di rassicurarmi, di stare tranquillo che gli uomini neri con la barba bianca non fanno male a nessuno, basta rispettarli. Entrai in casa, con la mia valigia verde e il mio zaino rosso, una domenica sera. Quasi una settimana dopo entrò Shabbat, ora posso dire il primo della mia vita. Erano quasi le 16.00. Di ritorno dallo shuk ormai in chiusura tra colate di acqua nerastra e sapone, lanci di cartoni vuoti e cumuli di verdure marce, grida e pattuglie degli uomini neri in barba bianca che incitano a tirare giù le serrande prima dello shabbes, nel quartiere attorno a me la tensione era palpabile: poche donne (ancora meno del solito), uomini sguscianti a passo svelto tra gli angoli bui e sporchi di queste favelas in muratura, chi con carrelli stracolmi di spesa, chi con la carrozzina dei bambini, chi unito a gruppetti di tre o quattro già coi libri sotto l’ascella. Tutti a testa bassa, tutti di fretta, tutti mormoranti. I primi scialle blu e bianchi iniziano a comparire.

Stavo sistemando la roba in frigo quando risuonò la sirena: grave e potente, assordante attraverso il leggero soffitto in plexiglass. Impossibile dire da dove. Un corno elettronico di un minuto esatto, a sostituire il tradizionale e poco funzionale shofar a fiato: quando si tratta di religione, non c’è da vergognarsi della tecnologia. Entra Shabbat. In ogni casa le luci sono già accese prima dell’Ingresso, perchè fino all’Uscita è vietato accendere fuochi, non usufruirne; in ogni casa, il cibo è già pronto dalla mattina e larghe piastre a basso consumo sono già calde, e lo resteranno fino all’Uscita; la spesa è già in frigo, nelle loro case, oppure giace abbandonata dove lo Shabbat la colse, perchè di sabato è vietato lavorare. E’ perfino vietato portare cose fuori e dentro casa, oltre i vestiti e il libro delle preghiere. Per questo tutti corrono, per questo tutti gridano, per questo tutto dev’essere pronto per l’Ingresso, settimana dopo settimana da millenni. Il venerdì prima dell’Ingresso è un giorno doppio in cui si lavora, si cucina, si pulisce anche per il dì di festa successivo, interamente dedicato a quell’Altro.

Uscii col buio ormai fitto, alle prime tre stelle che segnano l’Ingresso se n’erano già aggiunte migliaia. E a Gerusalemme, in via Yom Tov Elgazi, si stagliano luminose nel cielo nella semioscurità del quartiere haredi. Alla metà della salita di Pines, mi trovai a circumnavigare lo sbarramento della strada carrabile, perchè dall’Ingresso è vietato l’ingresso: fino a prova contraria, la macchina accende un fuoco ad ogni iniezione del pistone, non è nè un vestito nè un libro delle preghiere, e guidare è una forma di lavoro. La staccionata in ferro blu, trasversale su entrambe le carreggiate e fissata con un lucchetto, recita in bianco “Polizia d’Israele”, ma non è stato un poliziotto a disporla. Attorno a me gli uomini si affrettano ancora, ma l’ansia è sparita: vestiti a festa, raggruppati a frotte per età, forma del cappello e, mi pare, lunghezza della barba, seguono traiettorie precise parlottando e ridacchiando: si dirigono a una delle quattro sinagoghe che circondano il nostro isolato. Ora camminano tutti a testa alta, sembrano quasi felici. Dalle finestre della sinagoga più grande, almeno quattro piani, emana un vociare eccitato e continuo, e nere sagome di cappelli a tese larghe si stagliano sulle luci gialle dell’interno.

Fuori dal quartiere è pure sabato, ma un po’ meno. Non ci sono macchine in giro e poche persone, ma d’altronde neanche a Milano di domenica. La città dei secolari si riunisce in alcuni locali del centro e in strada siamo tanti, come se niente fosse. Qualche traversa più in là, nella Gerusalemme araba, è una normale sera di un giorno feriale. Tra le viuzze di Nachlaot, al di là dello shuk, la partita è ancora aperta e s’incappa in continue zone grigie: angolo per angolo, panchina per panchina, è più o meno Shabbat senza confini precisi, e la situazione è in continuo cambiamento a seconda della demografia. Gli studenti secolari, che negli ultimi anni hanno guadagnato campo, sono alle prese con l’osso duro dei vecchi padroni di casa che affittano solo agli osservanti: per chi rispetta kasherut e il sabato, l’affitto è più basso. I miei amici che abitano lì sanno dove è vietato accendere una sigaretta e dove invece è permesso, e sono pronti a rispondere a tono ad eventuali soprusi: c’è sempre qualche osservante zelante che ci prova. A Nachlaot non c’è uno scolo dell’acqua per tutti.

Quella sera mi addormentai sul divano in sala, sotto il plexiglass trasparente. A svegliarmi furono i canti forsennati provenienti dalla sinagoga più grande, che svetta da dietro l’isolato nei suoi quattro piani. Anche per me era dì di festa, e avrei voluto continuare a dormire. Avrei voluto lamentarmi con l’amministratore di condominio. Sarei uscito a chiedere di abbassare i toni. Avrei fatto molte cose, se mi fossi trovato in un luogo in cui regna la legge, e non lo status quo. In Israele le unità a cui si applica la legge non sono gli individui, ma le comunità e il territorio che riescono a conquistare e difendere. Non ci sono armi nè spari, almeno al di qua del Muro, ma figli, manifesti, contratti d’affitto. In particolare a Gerusalemme, comunità delle comunità: qui vige la legge di Gerusalemme, più che quella d’Israele. Per una pura contingenza, nella comunità dei secolari la legge è uguale per tutti gli individui, come in Italia: per loro ci sono diritti e doveri, tasse e multe, per loro c’è la polizia. Per le altre comunità ci sono i rabbini, gli imam e i capoclan e le loro rispettive gerarchie. Io abito sul limitare della comunità degli haredim, che continua senza interruzioni fino alle foreste di pini da una parte e la Linea Verde dell’armistizio del ’48 dall’altra, ora arteria che divide e unisce le due Gerusalemme, Est e Ovest. Mezza città di uomini neri con barba bianca, piccole donne imbruttite dalla paura d’indurre in tentazione e bambini rumorosi, a frotte in mezzo allo sfacelo, ovunque. Giocano e sono felici, come tutti i bambini.

Quando la religione è comportamento la purezza d’intenzioni non basta, serve purezza dell’ambiente, a prova di mizvot: basta una trasgressione o la sua sola presenza nel campo visivo o uditivo, a dannare tutto il quartiere. Per questo Shabbat entra per tutti, anche per noi che siamo al di qua dello scolo dell’acqua. Shabbat entra in casa nostra già prima della sirena, quando iniziamo ad abbassare il volume della musica al di sotto della soglia di tollerabilità, sancita dallo “Shhhht!!” senza volto sempre in agguato dai piani di sopra, oltre il soffitto in plexiglass; quando faccio premura di mettere il telefono in tasca per attraversare i cinquanta metri di via Pines fino allo sbarramento, la terra di nessuno in cui è comunque meglio non provocare; quando evito di sbattere i tappeti e rimando le pulizie all’Uscita; quando interrompo i miei trapanamenti e martellamenti nel mezzo dell’opera, lasciando l’armadio montato a metà e i miei vestiti per terra; quando chiediamo alle ragazze che vengono a trovarci di vestirsi più modeste del loro solito, bastano colori scuri e uno scialle; quando consiglio a un amico di parcheggiare in Davidka, se non vuole rimanere bloccato dentro la barricata.

E’ così che, ingenuamente, mi sono trovato in un baleno a rispettare il sabato, da ateo non ebreo. I miei coinquilini la trovano una buona abitudine, forse l’unica che hanno conservato scappando dalle loro famiglie osservanti. Si sono dati una regola secolare, ma ugualmente intransigente: vietato fare di sabato lavori il cui fine è temporalmente localizzato dopo il sabato. Da giorno dedicato a quell’Altro, se lo sono preso come giorno per loro stessi. Quindi cucinano, ma solo se hanno fame; leggono, ma perchè ne hanno voglia; usano il telefono, ma non per organizzare appuntamenti futuri; accendono e spengono le luci, ma non fanno partire la lavatrice; ritirano i panni stesi, ma solo quelli che vestono immediatamente.

Come mi spiegarono i coinquilini al mio arrivo, non vogliamo iniziare una guerra che non possiamo vincere. Oltre l’ingiunzione di sfratto del tribunale ci sono altri modi per cacciare la gente di casa: molestie, insulti, in certi casi le pietre. Così, negli anni, i secolari cedettero il passo agli uomini neri, di strada in strada fino al lato a valle di Yom Tov Elgazi, lasciandoci in prima linea. E, per ora, vogliamo restarci. Così funziona nel regno dello status quo, il braccio di ferro tra la motivazione a restare e il suo prezzo senza una legge a stabilire cosa è libertà e cosa è sopruso, ciascuna comunità per sè e Dio, uno a scelta, per tutte.

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