Eccezionale amministrazione

Cannone degli anni settanta. Ancora puntato verso la Giordania, i bambini ci passano davanti tutti i giorni per andare a scuola, situata sulla collina che domina il kibbutz. La guerra, qui, è parte della vita e non delle biblioteche.

Ieri è scoppiata l’ennesima crisi con Gaza. All’infittirsi dei razzi dal di là del muro, atterrati qua e là tra il deserto e le cittadine israeliane nel raggio ddi qualche decina di kilometri, Israele ha infine risposto con una serie di chirurgici bombardamenti aerei, tanto minacciati dal governo nei giorni precedenti: tra le macerie ci restano il capo dei capi del braccio armato di Hamas, collaboratori e qualche civile. Il Cairo dei Fratelli Musulmani alza la voce contro l’occupazione imperialista sionista e ritira il proprio ambasciatore a Tel Aviv, gli altri leader arabi seguono a ruota; l’America ribadisce il diritto di difesa d’Israele dagli attacchi terroristici su civili; l’ONU implora una immediata quanto implausibile calmata generale; il primo ministro israeliano Netanyahu annuncia che è solo l’inizio e che nessun attentato alla sicurezza del Paese verrà tollerato. Insomma, tutto da copione.

Detta così, sembra l’esordio di un romanzo militare, con gli israeliani che spolverano i bunker e gli arabi che impugnano il corano in una mano e il kalashnikov nell’altra. Invece qui nel kibbutz, come suppongo nel resto del Paese, tutto procede coi soliti ritmi: beviamo il caffè infreddoliti e appena arrossati dalle prime luci dell’alba, accendiamo le macchine, peliamo patate, i lavoratori dei datteri si presentano a colazione già sporchi, David (‘compagnerito’) spinge i carrelli col cappellino girato all’indietro, Eitan, il folle cuoco yemenita, attacca musiche ebraiche orientaleggianti a palla e mi saluta gridando in spagnolo: non ha ancora afferrato che l’italiano è un’altra lingua. I bambini si arrampicano sul nastro trasportatore per appoggiare piatti e vassoi sporchi e timidamente mi salutano, chi in ebraico, chi in inglese, chi in spagnolo, chi in italiano a seconda dei parenti all’estero che hanno, dal di là della macchina: Andy e Iavir,dodici anni, sono eccitati, oggi alle 5.30 hanno un incontro di pallamano contro quelli del nord, una città in Galilea che non mi ricordo. Ci tengono che vada a vederli, come avevo promesso, ma ho appuntamenti su skype. A togliermi dall’imbarazzo arriva la notizia, da uno dei piú grandicelli che ho conosciuto ieri all’allenamento a cui soni andato, che forse la partita è annullata per via delle ‘pzazot’, bombe. Preso alla sprovvista dalla naturalezza della comunicazione, rispondo un irreverente ‘ah, ok’ e torno ai piatti. Rimuginando sulla natura degli israeliani, duri e inarrestabili, orgogliosi e temprati da millenni di sfighe, mi faccio suggestionare dall’idea che nè un lutto nè una qualche forma di dignitosa protesta contro la violenza possono giustificare l’annullamento di una partita e la conseguente delusione di decine di bambini cresciuti nel mito dell’invincibilità del loro Paese, ma solo ragioni di sicurezza reali o millantate, unico allarmismo ammesso a fini di propaganda. A parte questo, la giornata prosegue il suo corso ed ora ci troviamo a pranzo ciascuno coi propri colleghi e i propri discorsi; purtroppo non riesco a captare l’argomento della tavola dei cuochi qua di fianco, che comunque sembrano più concentrati sul criticare l’eccesso di maionese dell’insalata piuttosto che commentare i missili da Gaza. Eppure tutti sanno, ovviamente. C’è stata qualche sostituzione ai datteri: stanotte alcuni riservisti sono stati richiamati al fronte.

È esplosa qualche bomba, è morto qualche uomo, si è scatenata qualche lite tra politici, ma, in fondo, che fare? Piangere la sciagura imminente battendosi il capo? Forse è meglio tornare al lavoro.

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