In viaggio per Maagan Michael. Di nuovo appoggiato al finestrino dell’autobus scorre veloce questo deserto che ho finito per trovare familiare: i paesaggi, le valli, i colori, i centri abitati…gli autogrill dove facciamo i soliti dieci minuti di pausa. So cosa aspettarmi. Al Miznon ho lavorato fino all’ultimo, perchè quando Paula mi ha chiesto se volevo giorni di vacanza prima della partenza ho istintivamente detto di no, facendo i miei soliti complimenti, senza trovare la prontezza di pensare che mi sarebbe stato comodo un giorno per dormire e fare mente locale sul prossimo passo. Quindi anche ieri, il mio ultimo giorno, ho cartavetrato e laccato tavoli del negozio nel retrobottega, all’aperto senza maglietta in un caldissimo sole d’inverno. Shai mi chiama per un toast verso le quattro, entro nel chocobar e trovo un tavolino imbandito con ‘tarallucci’ locali e un Merlot di Galilea, il migliore del Miznon; ad aspettarmi i colleghi con cui mi sono trovato a lavorare, e Merav con un pacchetto rosso in mano: un cappellino, un cioccolato svizzero e tre bicchierini della Holy Land. Preso alla sprovvista, al cin cin (in italiano, perchè Shai è appena tornato da un tour Rimini-Napoli per comprare le nuove forniture di ingredienti del gelato) non ho avuto la lucidità di commuovermi. Shai mi ringrazia a nome di tutti, dice che un volontario che parla ebraico vale doppio; rispondo che anche lavora doppio, spedito a seconda dell’evenienza tra ristorante e gelateria. Facciamo fuori la bottiglia in fretta, con un episodio simpatico in cui Shai scopre che non sono ebreo e fa la mossa di togliere vino e cibo dal tavolo. Si ride, si attacca una discussione su se siano meglio le mamme ebree o le mamme italiane: gli dico che se mai avesse fatto una cena in casa italiana, anche lui sarebbe rimasto a casa fino a 35 anni. La stima reciproca tra me e Merav è suggellata da un sincero in bocca al lupo e da una promessa di tornare a Yotvata. Le ultime parole di molti, al momento dell’addio, sono ‘questa è casa tua’. Torno fuori a finire i tavoli, pennellando con precisione per lasciare un bel segno in questo Miznon da cui tanto ho ricevuto. [Nota antropologica: è appena salita sull’autobus una soldatessa con lunghi rasta arricchiati in un crocchio. Porta la spallina da ufficiale e un grosso mitra. Uno strano miscuglio di simboli]
Finito il lavoro mi faccio una lunga doccia, l’ultima, avendo cura mettere in fila gli shampi…così, in segno di riconoscenza. Penso alla festa che ci sarà nel bunker internet, come sempre quando uno di noi parte, e mi vesto nella camera vuota un po’ sovrappensiero. Mi viene a chiamare Karlin e quando esco al suo seguito non capisco subito cosa ci fanno tutte quelle candeline in fila sul muretto delle scale, poi parte il boato di grida e applausi e il rombo del subwoofer. Nella classica situazione serale, tutti seduti sui materassi del Bunker of Imagination, stavolta è un lavoro coi fiocchi: vassoi di tartine, torta di mele di Max, tavolino schacchi adibito a open bar (open nel senso all’aperto), e perfino un guacamole dei sudamericani: pure loro si sono dati da fare! Ci sono tutti, compreso Omri, Nimrod, Shaili e Alfonsino, Moshe passa a salutare e col suo stile da gangster si toglie la canotta e me la lancia: regalo dal cuore, capara. E’ un teschio coi rasta raccolti sotto una bandana jamaicana, ovviamente con la foglia di maria in fronte: ben lo descrive, questo piccolo etiope dagli occhi vispi e la gestualità da uomo d’onore. Ci sono regali, un braccialetto azzurro, il mare, da parte di Liu, che ha lavorato tre mesi su un peschereccio di acciughe in Korea, e uno marrone, la terra, di Juan che viene dagli altipiani dell’Ecuador: ‘Mettili alla caviglia, a custodire i tuoi passi. Andiamo avanti, ma teniamo le radici: sono queste che ci tengono in vita’. E sta piangendo come un bambino, come sto piangendo io adesso di fianco a un soldato addormentato. Omri deve andare a trovare amici nella base militare qua di fronte, mi saluta e mi abbraccia dopo avermi lasciato un pacchetto: leggi sul logo, mi dice. ‘Anch’io ho fatto sosta a Yotvata’, in ebraico, e c’è dentro tutto. Poi mi risaluta e mi riabbraccia, poi è il mio turno e avanti così per una buona mezzora, intervallata da brindisi e balli. Infine, va. I koreani mi lasciano tre piccoli portachiavi, due con figurine in abito da matrimonio tradizionale, una con la Porta Sud di Seoul; Bomi un ventaglio bianco con scritto ‘Lorenzo’ in koreano antico: è bellissimo, e lei sa quanto mi piace la forma della loro scrittura. Ho visto tanti addii a volontari, ma mai come questo…poi penso che forse solo perchè il mio. [Altra nota contestuale: i bagni dell’autogrill sono nel buio più totale per via del diluvio che si sta abbattendo sul Negev (proprio oggi che viaggio per tutta Israele tra cambi bus e stazioni?). Brancoliamo a tastoni, in una selva di soldati con l’uniforme e il fucile che li ingombra quando pisciano]
Noi bambini sperduti, questi bambini sperduti, insieme per l’ultima volta. Parto lasciando il mio posto pulito, senza tracce, pronto per accogliere un altro nuovo arrivo, in un riciclo continuo di freschezza, una primavera continua. Non c’è tempo per sedimentare una memoria collettiva, un’identità di classe; noi volontari siamo la Big Apple del kibbutz, in perenne cambiamento: per questo, forse, non ha senso lottare contro Cino e Alona ma solo ricevere, senza pretese, quel che l’Isola che Non C’è può dare. Per una volta, quaggiù, possiamo essere uomini senza storia, senza passato nè futuro. Lasciare un posto così dà la vertigine, è un assaggio del vuoto. Non ho potuto fare a meno di fotografare le scritte di chi fu in camera mia, ormai già di altri: i nostri Sepolcri su cui nessuno mai verrà a piangere ma al più a ridere bere scopare; qua impariamo a morire, dolcemente.
Rileggo il primo post che scrissi al contatto con Yotvata (Del comun denominatore, cioè la metafisica), e provo a rispondere. Al di là delle percezioni e dei significati individuali che ciascuno di noi produce, ho trovato un substrato comune, la stessa lavagna su cui tutti appiccichiamo la nostra esperienza. Per primo, ci sono le cose: il sole caldo di mezzodì, il gelato appena fatto, la giungla di uccellini sempre cinguettanti, la consistenza collosa dei datteri, il profumo di mucca che ci arriva la sera. Di questo grado zero dell’interpretazione possiamo parlare, o addirittura solo ammiccare, e sembra che ci capiamo, dunque non vedo alcuna buona ragione per lo scettico se non gusto per la sofisticheria.
Secondo, l’organizzazione sociale: ci sono i generosi come gli avari, i simpatici come gli stronzi, i felici come i malinconici; c’è una vasta collezione di umanità, qui a Yotvata, con una gran varietà di gusto per la vita, in una gradazione potenzialmente continua dal dolce idealismo all’amara prigionia, ma prima di tutto esiste la società, un ente omogeneo dotato di attributi e volontà propria: tutti, proprio tutti, lavorano otto ore al giorno per 1000 shekel al mese (fonte: Alona, quindi da verificare); tutti fanno turni in sala da pranzo, tutti ritirano i vestiti puliti di martedì, tutti ricevono in base agli stessi criteri, tutti parte di un unico organismo, checchè ne dicano i cinici tra loro. Questo, con una miriade di altre norme, è il substrato della comunità, la certezza da cui prendono il largo tutte le incerte relazioni umane. Concedo allo scettico di contestare, ma lo sfido a sopravivere questa convivenza senza fidarsi del patto reciproco che lega i kibbutznikim: senza realismo sulla società non c’è alcun socialismo reale.
Terzo, le emozioni. In un posto così ci si conosce bene e in fretta, e malgrado l’inconoscibilità delle impressioni e dei pensieri altrui, di cosa ha portato Mika e Han qua o di cosa trattiene Shaili qua, di che effetto faccia il tramonto su Ruhl che viene dalla grigia Olanda o su Eldad che è nato quaggiù, resta un’uguale capacità di repulsione o attrazione verso le ‘cose’ di cui sopra. La dialettica + e – ci possiede tutti, che per motivi diversi e in tempi diversi siamo sempre, alla fine, felici o infelici, con tutte le sfumature che diciamo essere i sentimenti. L’affezione al mondo esiste.
Quel che ho scoperto, invece, è la fallacia della razionalità, del pensiero procedurale o, in ultima analisi, del linguaggio, di cui tanto mi sono sempre fidato. Parlare non chiarisce mai le cose una volta per tutte e per tutti, ma le complica: per chi è già dentro il linguaggio di riferimento c’è un grande vantaggio dalla verbalizzazione, in quanto formato tascabile di qualsiasi aspetto della realtà, ma per chi è fuori (ed è sempre la stragrande maggioranza dell’umanità), si aggiunge il delicato stadio dell’interpretazione, della traduzione ad un altro ordine del prima e del poi, del soggetto e del predicato, dell’attivo e del passivo, del femminile e del maschile, del plurale e del singolare, e di tante altre categorie sintattiche che non posso nemmeno immaginare. Il grave limite del linguaggio naturale (quello in cui pensiamo o almeno crediamo di pensare), lasciando perdere le grammatiche universali e i linguaggi pianificati, è la sua località, il suo essere d’aiuto nella comprensione solo ai pochi che lo parlano, cioè a chi già si capisce, quanto a verbalità. A Yotvata ho imparato dai gesti, dalle risate, dalle smorfie, dai colori, dai silenzi. I silenzi, vuoto dei significati preconfezionati in letterine e fonemi, sono stati la nostra merce di scambio.
E per arrivare proprio a questa conclusione, ironia della sorte, per tutto questo tempo non ho fatto che scrivere, cioè mettere in fila queste letterine dalla cui trama sguscia via la realtà della mia vita a Yotvata, la sua quotidianità e il suo sapore, lasciandomi in mano solo un mucchietto di sintetici significati tascabili. Scrivere però mi fa tanto bene, perchè da questo apparentemente insensato mettere in fila segnetti neri emerge quel significato che gli odori e i colori, da soli, non hanno; che la stessa vita, per quanto piacevole anche se solo vissuta e non pensata, non ha. Quanto voi lettori riusciate a cogliere e mettere in tasca di questo significato dipende dalla mia bravura nel scegliere le letterine, ma resta il fatto che non capirete mai quanto io mi capisco, non vi commuoverete mai come io mi commuovo quando rileggo i miei pezzi, e resterete sempre dei turisti. Scrivo per me, per godermi il viaggio e rivivere gli highlights a partita finita, a casa al calduccio.
Quel che ho davvero per la prima volta capito, qui a Yotvata, è la complessità e il miscuglio, l’assenza in natura del bianco e del nero e dunque l’importanza dei grigi, ciascuno il suo: cosa è reale della nostra esperienza? Nè tutto, né niente: ma qualcosa sì. Quanto ci capiamo l’un l’altro? Nè del tutto, né per niente: un po’. Ma non saprei dire, del mio Yotvata, cosa ho vissuto e cosa invece ho sognato, e va proprio bene così.