L’Epilogo

In viaggio per Maagan Michael. Di nuovo appoggiato al finestrino dell’autobus scorre veloce questo deserto che ho finito per trovare familiare: i paesaggi, le valli, i colori, i centri abitati…gli autogrill dove facciamo i soliti dieci minuti di pausa. So cosa aspettarmi. Al Miznon ho lavorato fino all’ultimo, perchè quando Paula mi ha chiesto se volevo giorni di vacanza prima della partenza ho istintivamente detto di no, facendo i miei soliti complimenti, senza trovare la prontezza di pensare che mi sarebbe stato comodo un giorno per dormire e fare mente locale sul prossimo passo. Quindi anche ieri, il mio ultimo giorno, ho cartavetrato e laccato tavoli del negozio nel retrobottega, all’aperto senza maglietta in un caldissimo sole d’inverno. Shai mi chiama per un toast verso le quattro, entro nel chocobar e trovo un tavolino imbandito con ‘tarallucci’ locali e un Merlot di Galilea, il migliore del Miznon; ad aspettarmi i colleghi con cui mi sono trovato a lavorare, e Merav con un pacchetto rosso in mano: un cappellino, un cioccolato svizzero e tre bicchierini della Holy Land. Preso alla sprovvista, al cin cin (in italiano, perchè Shai è appena tornato da un tour Rimini-Napoli per comprare le nuove forniture di ingredienti del gelato) non ho avuto la lucidità di commuovermi. Shai mi ringrazia a nome di tutti, dice che un volontario che parla ebraico vale doppio; rispondo che anche lavora doppio, spedito a seconda dell’evenienza tra ristorante e gelateria. Facciamo fuori la bottiglia in fretta, con un episodio simpatico in cui Shai scopre che non sono ebreo e fa la mossa di togliere vino e cibo dal tavolo. Si ride, si attacca una discussione su se siano meglio le mamme ebree o le mamme italiane: gli dico che se mai avesse fatto una cena in casa italiana, anche lui sarebbe rimasto a casa fino a 35 anni. La stima reciproca tra me e Merav è suggellata da un sincero in bocca al lupo e da una promessa di tornare a Yotvata. Le ultime parole di molti, al momento dell’addio, sono ‘questa è casa tua’. Torno fuori a finire i tavoli, pennellando con precisione per lasciare un bel segno in questo Miznon da cui tanto ho ricevuto. [Nota antropologica: è appena salita sull’autobus una soldatessa con lunghi rasta arricchiati in un crocchio. Porta la spallina da ufficiale e un grosso mitra. Uno strano miscuglio di simboli]

Finito il lavoro mi faccio una lunga doccia, l’ultima, avendo cura mettere in fila gli shampi…così, in segno di riconoscenza. Penso alla festa che ci sarà nel bunker internet, come sempre quando uno di noi parte, e mi vesto nella camera vuota un po’ sovrappensiero. Mi viene a chiamare Karlin e quando esco al suo seguito non capisco subito cosa ci fanno tutte quelle candeline in fila sul muretto delle scale, poi parte il boato di grida e applausi e il rombo del subwoofer. Nella classica situazione serale, tutti seduti sui materassi del Bunker of Imagination, stavolta è un lavoro coi fiocchi: vassoi di tartine, torta di mele di Max, tavolino schacchi adibito a open bar (open nel senso all’aperto), e perfino un guacamole dei sudamericani: pure loro si sono dati da fare! Ci sono tutti, compreso Omri, Nimrod, Shaili e Alfonsino, Moshe passa a salutare e col suo stile da gangster si toglie la canotta e me la lancia: regalo dal cuore, capara. E’ un teschio coi rasta raccolti sotto una bandana jamaicana, ovviamente con la foglia di maria in fronte: ben lo descrive, questo piccolo etiope dagli occhi vispi e la gestualità da uomo d’onore. Ci sono regali, un braccialetto azzurro, il mare, da parte di Liu, che ha lavorato tre mesi su un peschereccio di acciughe in Korea, e uno marrone, la terra, di Juan che viene dagli altipiani dell’Ecuador: ‘Mettili alla caviglia, a custodire i tuoi passi. Andiamo avanti, ma teniamo le radici: sono queste che ci tengono in vita’. E sta piangendo come un bambino, come sto piangendo io adesso di fianco a un soldato addormentato. Omri deve andare a trovare amici nella base militare qua di fronte, mi saluta e mi abbraccia dopo avermi lasciato un pacchetto: leggi sul logo, mi dice. ‘Anch’io ho fatto sosta a Yotvata’, in ebraico, e c’è dentro tutto. Poi mi risaluta e mi riabbraccia, poi è il mio turno e avanti così per una buona mezzora, intervallata da brindisi e balli. Infine, va. I koreani mi lasciano tre piccoli portachiavi, due con figurine in abito da matrimonio tradizionale, una con la Porta Sud di Seoul; Bomi un ventaglio bianco con scritto ‘Lorenzo’ in koreano antico: è bellissimo, e lei sa quanto mi piace la forma della loro scrittura. Ho visto tanti addii a volontari, ma mai come questo…poi penso che forse solo perchè il mio. [Altra nota contestuale: i bagni dell’autogrill sono nel buio più totale per via del diluvio che si sta abbattendo sul Negev (proprio oggi che viaggio per tutta Israele tra cambi bus e stazioni?). Brancoliamo a tastoni, in una selva di soldati con l’uniforme e il fucile che li ingombra quando pisciano]

Noi bambini sperduti, questi bambini sperduti, insieme per l’ultima volta. Parto lasciando il mio posto pulito, senza tracce, pronto per accogliere un altro nuovo arrivo, in un riciclo continuo di freschezza, una primavera continua. Non c’è tempo per sedimentare una memoria collettiva, un’identità di classe; noi volontari siamo la Big Apple del kibbutz, in perenne cambiamento: per questo, forse, non ha senso lottare contro Cino e Alona ma solo ricevere, senza pretese, quel che l’Isola che Non C’è può dare. Per una volta, quaggiù, possiamo essere uomini senza storia, senza passato nè futuro. Lasciare un posto così dà la vertigine, è un assaggio del vuoto. Non ho potuto fare a meno di fotografare le scritte di chi fu in camera mia, ormai già di altri: i nostri Sepolcri su cui nessuno mai verrà a piangere ma al più a ridere bere scopare; qua impariamo a morire, dolcemente.

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Rileggo il primo post che scrissi al contatto con Yotvata (Del comun denominatore, cioè la metafisica), e provo a rispondere. Al di là delle percezioni e dei significati individuali che ciascuno di noi produce, ho trovato un substrato comune, la stessa lavagna su cui tutti appiccichiamo la nostra esperienza. Per primo, ci sono le cose: il sole caldo di mezzodì, il gelato appena fatto, la giungla di uccellini sempre cinguettanti, la consistenza collosa dei datteri, il profumo di mucca che ci arriva la sera. Di questo grado zero dell’interpretazione possiamo parlare, o addirittura solo ammiccare, e sembra che ci capiamo, dunque non vedo alcuna buona ragione per lo scettico se non gusto per la sofisticheria.

Secondo, l’organizzazione sociale: ci sono i generosi come gli avari, i simpatici come gli stronzi, i felici come i malinconici; c’è una vasta collezione di umanità, qui a Yotvata, con una gran varietà di gusto per la vita, in una gradazione potenzialmente continua dal dolce idealismo all’amara prigionia, ma prima di tutto esiste la società, un ente omogeneo dotato di attributi e volontà propria: tutti, proprio tutti, lavorano otto ore al giorno per 1000 shekel al mese (fonte: Alona, quindi da verificare); tutti fanno turni in sala da pranzo, tutti ritirano i vestiti puliti di martedì, tutti ricevono in base agli stessi criteri, tutti parte di un unico organismo, checchè ne dicano i cinici tra loro. Questo, con una miriade di altre norme, è il substrato della comunità, la certezza da cui prendono il largo tutte le incerte relazioni umane. Concedo allo scettico di contestare, ma lo sfido a sopravivere questa convivenza senza fidarsi del patto reciproco che lega i kibbutznikim: senza realismo sulla società non c’è alcun socialismo reale.

Terzo, le emozioni. In un posto così ci si conosce bene e in fretta, e malgrado l’inconoscibilità delle impressioni e dei pensieri altrui, di cosa ha portato Mika e Han qua o di cosa trattiene Shaili qua, di che effetto faccia il tramonto su Ruhl che viene dalla grigia Olanda o su Eldad che è nato quaggiù, resta un’uguale capacità di repulsione o attrazione verso le ‘cose’ di cui sopra. La dialettica + e – ci possiede tutti, che per motivi diversi e in tempi diversi siamo sempre, alla fine, felici o infelici, con tutte le sfumature che diciamo essere i sentimenti. L’affezione al mondo esiste.

Quel che ho scoperto, invece, è la fallacia della razionalità, del pensiero procedurale o, in ultima analisi, del linguaggio, di cui tanto mi sono sempre fidato. Parlare non chiarisce mai le cose una volta per tutte e per tutti, ma le complica: per chi è già dentro il linguaggio di riferimento c’è un grande vantaggio dalla verbalizzazione, in quanto formato tascabile di qualsiasi aspetto della realtà, ma per chi è fuori (ed è sempre la stragrande maggioranza dell’umanità), si aggiunge il delicato stadio dell’interpretazione, della traduzione ad un altro ordine del prima e del poi, del soggetto e del predicato, dell’attivo e del passivo, del femminile e del maschile, del plurale e del singolare, e di tante altre categorie sintattiche che non posso nemmeno immaginare. Il grave limite del linguaggio naturale (quello in cui pensiamo o almeno crediamo di pensare), lasciando perdere le grammatiche universali e i linguaggi pianificati, è la sua località, il suo essere d’aiuto nella comprensione solo ai pochi che lo parlano, cioè a chi già si capisce, quanto a verbalità. A Yotvata ho imparato dai gesti, dalle risate, dalle smorfie, dai colori, dai silenzi. I silenzi, vuoto dei significati preconfezionati in letterine e fonemi, sono stati la nostra merce di scambio.

E per arrivare proprio a questa conclusione, ironia della sorte, per tutto questo tempo non ho fatto che scrivere, cioè mettere in fila queste letterine dalla cui trama sguscia via la realtà della mia vita a Yotvata, la sua quotidianità e il suo sapore, lasciandomi in mano solo un mucchietto di sintetici significati tascabili. Scrivere però mi fa tanto bene, perchè da questo apparentemente insensato mettere in fila segnetti neri emerge quel significato che gli odori e i colori, da soli, non hanno; che la stessa vita, per quanto piacevole anche se solo vissuta e non pensata, non ha. Quanto voi lettori riusciate a cogliere e mettere in tasca di questo significato dipende dalla mia bravura nel scegliere le letterine, ma resta il fatto che non capirete mai quanto io mi capisco, non vi commuoverete mai come io mi commuovo quando rileggo i miei pezzi, e resterete sempre dei turisti. Scrivo per me, per godermi il viaggio e rivivere gli highlights a partita finita, a casa al calduccio.

Quel che ho davvero per la prima volta capito, qui a Yotvata, è la complessità e il miscuglio, l’assenza in natura del bianco e del nero e dunque l’importanza dei grigi, ciascuno il suo: cosa è reale della nostra esperienza? Nè tutto, né niente: ma qualcosa sì. Quanto ci capiamo l’un l’altro? Nè del tutto, né per niente: un po’. Ma non saprei dire, del mio Yotvata, cosa ho vissuto e cosa invece ho sognato, e va proprio bene così.

Le vergogne di un italiano

Il clima elettorale, con il voto di fresco alle spalle, non mi ha risparmiato qualche sparsa conversazione di politica e, di conseguenza, qualche domanda sulla situazione italiana. In genere si apre con una incredula battuta sulle ragazzine di Berlusconi: ‘Ma è vero che se la fa con le minorenni? Ah ah, bunga bunga!’, a cui in genere rispondo con un sorriso tirato. Spesso chiedono di economia, di come mai siamo in crisi e di come si vive, quante ore di lavoro si fanno e quando si va in pensione, di quanto costa un caffè e a che età i ragazzi escono di casa. Ormai da tempo ho smesso di provare gusto nel raccontare delle nostre sciagure, con quella tinta catartica di chi accusando ritrova la propria dignità, e in diverse occasioni ho preferito lasciar cadere l’argomento ripiegando sul facile stereotipo di un Bel Paese di grandi monumenti, buon cibo, bei vestiti. Poi, ieri, ho capito che il bunga bunga è parte integrante del nostro stereotipo attuale, è ciò che da fuori dicono e pensano di noi con la pizza e al mandolino.

Dell’Italia di oggi ci sono cose difficili da raccontare, cose che fa vergogna confessare. Noi che da una parte vantiamo la storia romana, l’invenzione del diritto, il dolce stil novo, Leonardo e Marconi, come ce la caviamo a raccontare cos’è il Parlamento, oggi, quando ci chiedono come funziona? E’ davvero penoso dover spiegare a Netta che abbiamo quasi 1000 parlamentari, contro i 140 israeliani, che votano in branchi chiamati ‘gruppi’ guidati da un maschio alfa che pensa per loro, che è abitudine votare per i colleghi assenti (i ‘pianisti’), che le sedute sono pressochè deserte e i pochi presenti leggono il giornale, chiacchierano e, i più spudorati, dormono, e che per questo servizio civico guadagnano un’oscenità di soldi; che sono nominati dal logo che i cittadini votano, e non eletti direttamente, ma che non hanno obbligo di mandato sul logo, cioè possono cambiare il partito che li ha nominati il giorno dopo le elezioni; che hanno un prezzo (tra i 35 e i 25 mila euro per la Camera) e che ad ogni crisi di governo riapre il mercato, che se intervistati non sanno interpretare un testo di legge né tanto meno spiegare come funziona il Parlamento bicamerale in cui siedono; che hanno una valanga di privilegi, dal parrucchiere all’immunità parlamentare per cui il procedimento delle indagini su uno di loro viene messo al voto dell’assemblea; che c’è tra loro chi scrive leggi con valore retroattivo a cui il giorno dopo si appellerà in tribunale per difendere l’imputato da cui riceve lo stipendio, imputato che è anche il proprio leader politico. Che li chiamiamo ‘onorevoli’, come nel medioevo ‘sua maestà’.

Poi c’è il governo, con la metastasi di decreti legge per questioni di assoluta non-emergenza di salute pubblica, ma piuttosto di esigenze private dal blocco delle intercettazioni come prova nel processo al salvataggio di televisioni e imprese illegali; il ricatto del voto di fiducia sotto i 2 anni di mandato parlamentare (data in cui scatta il vitalizio altrettanto osceno) con cui passano veri e propri suicidi civici ed economici come scudi fiscali nell’anonimato a tassazione irrisoria e condoni edilizi fino al 20 % (il 20%, un quinto delle dimensioni legali della casa!). Dette ad alta voce a chi non le sa, queste cose sono gravi. Qui in Medio Oriente la mamma di Nadav di lavoro controlla foto aeree di Tel Aviv scattate ogni settimana e manda multe a chiunque faccia abusi edilizi, dal garage al gazebo; qui in una nazione nata ieri esiste solo il voto di sfiducia, proposto dall’opposizione come veto al governo; qui in uno Stato pressochè confessionale (roba che in Europa abbiamo superato nel ‘700) i ragazzi al militare, come tutta la gerarchia marziale, non hanno diritto di voto e di partecipazione a manifestazioni politiche in quanto, per l’obbedienza e fedeltà loro richiesta ai superiori, non sono nello status di cittadini liberi; qui nel Paese da sempre in guerra con gli arabi confinanti e in guerriglia con quelli interni c’è un partito degli arabi israeliani (2 milioni di cittadini) che contestano in Parlamento la stessa legittimità ad esistere dell’Israele attuale.

C’è l’informazione, capitolo buio della nostra democrazia, su cui non so da che parte cominciare e mi mordo la lingua quando sento denunciare con rabbia, qui in Medio Oriente, lo scandalo di un giornale di proprietà di un magnate simpatizzante per il presidente Netanyahu che viene distribuito gratis, giocando sporco sulla concorrenza e quindi sulla libertà d’informazione. Da dove dovrei cominciare, io che sono cresciuto con sei canali televisivi di cui tre di Sua proprietà e gli altri tre i cui dirigenti erano di Sua nomina? Dai due decreti di Craxi salva-berlusconi, dalla pax televisiva, dalla legge Gasparri, dall’editto bulgaro o dalla legge bavaglio? Dall’inesistenza di fatto di una commissione antitrust, dal primo porno su Canale 5, dall’ipertrofia di spot pubblicitari o sull’attuale Porta a Porta? Dalla prima dirigenza di Forza Italia consistente nel consiglio d’amministrazione di Publitalia ’80, o dalla più generale verità metafisica dell’identità tra il servizio nazionale d’informazione e la volontà di un unico gruppo d’interessi con a capo sempre il solito frontman, nel settore da quasi 40 anni? Spesso non comincio nemmeno, visto il ginepraio d’intrighi che ha portato a questa situazione, e mi rintano in un luttoso silenzio. Che gli israeliani non sappiano, che non giudichino: è dura, per me europeo, prendere lezioni di democrazia da quelli che dovrebbero essere i pivelli della civilità, quella civilità che abbiamo costruito noi ad Atene, Roma e Parigi. Noi che conosciamo Ulisse, appunto.

Per fortuna gli israeliani sono abbastanza concentrati sui loro problemi da non mettere il naso fuori, da non chiedermi oltre, da non incrinare il loro stereotipo di un’Europa elegante, ricca, ideale, giusta, facile, di cui l’Italia farebbe parte. Ma a me, dentro, viene da piangere. Come tutti questi grandiosi accorgimenti, tesi a creare la democrazia perfetta, siano stati sistematicamente circuiti nella loro intenzione per bassi scopi di piccoli uomini, al punto che non sappiamo come uscirne, questo resta per me un mistero. Non c’ero quando queste cattive abitudini sono iniziate, ci sono nato dentro.

Ancor più male, però, mi fa tenere dentro le meravigliose ragioni giuridiche di quelle che sono diventate le nostre patologie di sistema, non potendo spiegare in cinque minuti quale intelligenza fina, smussata in ogni angolo da secoli di politica e morti al cui confronto la situazione israelo-palestinese è davvero un bimbo in fasce, ha infine prodotto la libertà dal mandato politico, per concedere al rappresentante di cambiare idea adeguandosi ai fatti, il bicameralismo perfetto, a garanzia di un controllo reciproco sull’antica traccia dei consoli, il decreto legge del governo, per far fronte all’emergenza con quella rapidità di cui la discussione parlamentare è carente, il vastissimo numero di parlamentari, affinchè i punti di vista sulla politica vengano aumentati e lo spettro del totalitarismo scacciato per sempre, l’elettorato passivo senza restrizioni, affinchè chiunque possa mettere al servizio della cittadinanza le proprie idee nonostante le proprie azioni e sia tutelata l’indipendenza tra i poteri dello Stato, l’immunità parlamentare, di nuovo a garanzia della effettiva tripartizione del potere. Sono princìpi di civiltà immortali, sono la vera religione del nostro tempo, ciò che ci salva dall’essere bestie comandanti o comandate. Ma come spiegarlo oltre lo spesso strato di merda che ricopre la nostra politica? Con quale faccia un italiano può pretendere credibilità in merito, oggi?

Colpi di coda

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Gita fuori porta con tre o quattro volontari

Il rapporto coi nostri responsabili, Alona e Cino, è stato da subito e costantemente teso; anche da prima del mio arrivo, testimoniano i volontari veterani. Ad una fondamentale malafede si aggiunge un’insuperabile incomunicabilità: non capiscono i nostri bisogni e i nostri interessi, ancor prima che decidere se soddisfarli o meno. Chiediamo una cucina per preparare una cena internazionale e Alona ci propone una pizza da Eilat; chiediamo una gita nel deserto per tutti i volontari e lei ci offre al suo posto due giorni di vacanza scaglionati; chiediamo spiegazioni e lei ci dà ordini.

In casi specifici come il mio cambio di lavoro, incidenti sul lavoro di colleghi, giorni di ferie concordati con i nostri boss, è sempre emersa la sua volontà di tenerci all’oscuro della verità e quanto piú possibile distanti dal contatto diretto con gli altri kibbitznikim: lei deve sempre intermediare, interpretare, intrallazzare. Come mi ha mostrato un indecente episodio di due settimane fa, il motivo è tanto semplice quanto scabroso: noi siamo la piú bassa forza lavoro del kibbutz, e Alona non vuole spartirla. Nello scacchiere politico lei puó contrattare la nostra manodopera al servizio degli altri membri del kibbutz, sotto la formalità dei giorni di ferie concessi o non concessi e l’informalità dei ‘favori’ che chiede a noi per conto di altri, ma solo finchè la sua presenza risulti necessaria o almeno giustificata da un pretesto: nella fattispecie, la lingua.

Non appena ho realizzato la logica del gioco ho anche capito che posso sottrarmici: parlare la lingua dei kibbutznikim, senza scendere sul campo accidentato dell’inglese, vuol dire saltare il gradino gerarchico della traduzione linguistico-politica di Alona. Ho messo alla prova la tesi in diverse occasioni, puntualmente telefonando o domandando di persona senza passare dal centralino, e gli effetti sono sorprendenti. Primo, la quantità di problemi si è dimezzata, per il semplice fatto che adesso in ogni questione la soluzione deve incontrare solo gli interessi miei e dell’interlocutore, senza aggiungere quelli di Alona. E dal momento che, in quanto volontario di passaggio, non ho alcun peso politico, non ci sono motivi traversi per cui qualcuno non dovrebbe venirmi incontro. Secondo, Alona se n’è accorta. Messa di fronte alla frittata fatta, senza possibilità di contestazione visto il benstare degli interessati, ha cambiato approccio. L’ostilità è diventata cortesia, l’ordine richiesta, il rimprovero consiglio. Paradossalmente, proprio io che ho avuto accesi diverbi con lei su diverse questioni sia di fatto che di principio, mi trovo ora a ricevere un timoroso occhio di riguardo da parte sua. Resta un problema oggettivo, cioè la sua inettitudine nel combinare qualcosa (per sistemare il mio visto ho alla fine preferito contattare direttamente l’agenzia dei volontari e il mio prossimo kibbutz e metterli in contatto tra loro, e l’unico passaggio di consegne intermediato da Alona, che si è inserita nella trattativa dopo aver trovato il mio passaporto sulla scrivania della posta senza che l’avessi informata, non è arrivato a termine).

L’ultimo azzardo è la richiesta di ferie per il prossimo venerdì senza il suo permesso, ma chiedendo direttamente al mio responsabile. Se riesco ad arrivare a giovedì sera e a partire per il mio weekend al nord senza che il complotto venga scoperto, il rientro al cospetto di Alona non mi spaventa granchè: essendo questo il mio sesto e ultimo giorno di ferie su nove che mi spettano, essendo stato approvato dal mio gruppo di lavoro ed essendo la mia qualità di lavoro e relazione con i colleghi alta, non ci sono motivi reali di contestazione da parte sua. La gravità consiste nel deliberato vizio formale per scavalcare la sua autorità e toglierle voce in capitolo. L’unica arma di ritorsione che le resta è l’espulsione che peró, oltre ad essere del tutto fuori luogo, non mi danneggia piú di tanto dal momento che la mia partenza da Yotvata è fissata comunque per il 31 gennaio. Il vecchio trucco di papà, per cui puoi contestare i proff solo con otto in pagella, va bene per ogni stagione.

Quanto al perchè di questa ostilità nei nostri confronti, ci sono molteplici spiegazioni a detta di molteplici bne’ kibbutz nostri amici: primo, nessuno vuole lavorare con Alona e il ruolo di responsabile volontari è posizione unica, senza colleghi. Secondo, non saprebbero dove metterla altrimenti. Terzo, nessun altro vuole prendere l’incarico, anche se su questo punto abbiamo fonti discordanti: ci giunge voce che Shai, del Miznon, avrebbe voluto il posto ma non gli è stato concesso. In generale, comunque, regna una profonda diffidenza verso di noi: il lavoratore e soprattutto il ben kibbutz troppo vicino ai volontari ha un chè di sospetto e superficiale, di poco raccomandabile, e ai minori di 18 anni è vietato addentrarsi nel nostro distretto. Col fatto di capire l’ebraico ho ottenuto uno status a parte, arrivando addirittura a parlare direttamente della situazione con i colleghi al Miznon: la diffidenza nasce da brutte storie del passato, anni di esperienze di volontari sempre ubriachi, pessimi lavoratori e pericolosi per le fanciulle del kibbutz. Non è il caso del nostro gruppo, ma il retaggio è rimasto. Quel che constato, però, è la totale assenza di sforzi per integrarci nella vita del kibbutz, per comprenderlo e apprezzarlo: non una conferenza, un incontro settimanale, una gita, una partecipazione a eventi comunitari. In uno stato di apartheid è facile distrarsi con la vodka. Le rare volte in cui è iniziata una conversazione sull’universo kibbutz tra noi volontari (l’ultima ieri con i koreani e la nuova sud africana Tera), l’interesse si è subito acceso su come si possa vivere così, su come è iniziato il movimento dei kibbutz, sulla loro non religiosità ma appartenenza ebraica, sull’uguglianza se formale o reale, su cosa significhi condividere e se loro lo stanno facendo davvero; ho raccontato le storie che ho raccolto in questi mesi, andando a cercare in ebraico quegli interlocutori che, con un minimo sforzo e una massima gratificazione, sarebbero potuti venire a parlare da noi in inglese, e mi hanno chiesto i dettagli perchè vogliono saperne di più.

E’ un peccato che non investano energie sulla nostra integrazione, e sto pensando di farlo notare con una lettera alla direzione perchè, credo, non se ne rendono neanche conto: hanno uno stereotipo del volontario bruto e animalesco, di certo gonfiato dalla drammatica teatralità di Alona, e non riescono a mettere il naso fuori. Se il kibbutz non riuscirà a fidarsi dei volontari, li condannerà per sempre a rimenere quel pericoloso cheap work che effettivamente sono adesso e perderà l’occasione di fare, con un piccolo investimento, un grande regalo.

Classiche assenze

Ieri sera, durante la proiezione su mia proposta di Mediterraneo di Salvatores, ho scoperto che i miei coetanei israeliani non conoscono Ulisse, le sue avventure coi ciclopi e i suoi dieci anni sulla sperduta isola di Calipso, che letteralmente lo ‘ruba’ alla Storia proprio come i soldati di Abbatantuono, nel film, sono esclusi dal mondo dalle circonzanze. Qui non sanno delle sirene e dell’astuzia di Ulisse per riuscire a sopravvivere al loro canto, non sanno dei proci e del trucco della tela di Penelope, non hanno pianto per la morte d’emozione del cane Argo, che riconosce il padrone nonostante il travestimento divino. Non sanno degli aèdi e dei simposi greci, di come nessuno sa spiegarci se è una storia diventata racconto o un racconto diventato storia, la nostra storia.

Sono sconvolto. Dove sono finito? Non poter condividere Ulisse è come rinnegare una parte di me, della mia infanzia e delle storie con cui mi sono addormentato per anni, delle versioni di greco e di un intero universo che è davvero, per me, Mediterraneo. D’altra parte, proprio questi vuoti sono ció che regalano i viaggi e per cui continuiamo a partire, arrivando fin là dove non si possono dare per scontato alcuni tra i nostri retaggi piú profondi. E anzi, ricorsivamente, proprio di questi buchi è costituita la rete delle avventure di Ulisse, il viaggiatore per eccellenza.

Della priorità sintattica sul fattore fonetico e semantico nell’automatizzazione di processi di traduzione

Uno degli errori che non riesco a correggere del mio ebraico è confondere puntualmente la seconda persona maschile da quella femminile, che hanno due uscite diverse. Singolarmente, mi confondo solo sul singolare ‘tu’ e non sul plurale ‘voi’. Col passare dei giorni non posso che cercare di spiegarmi l’asimmetria: a parità di distanza fonetica (ad esempio lecha – lach per il singolare e lachem lachen per il plurale) non corrisponde una parità di confusione. Col plurale me la cavo bene.

L’unica differenza che riesco a trovare è sintattica: a parità di salto fonetico e semantico, la seconda persona singolare maschile e femminile si scrivono uguale (‘לך’, il salto fonetico è affidato alla vocalizzazione, che peró in ebraico non è annotata nella scrittura), mentre la seconda plurale differisce sempre dal maschile al femminile per almeno una lettera, cioè una consonante (‘לכם’ e ‘לכן’, nell’esempio).

La conclusione che ne traggo è che la memorizzazione dei vocaboli (ho notato che senza vedere come la parola è scritta e vocalizzata con i puntini mi è molto più difficile memorizzarla) e l’automatizzazione del processo di declinazione per casi-persone è, almeno per me, piú dipendente dalla scrittura (cioè la ‘fotografia’ del linguaggio) di quanto m’aspettassi. È come se nel processo di traduzione dal ‘pensiero’ (se pura non-verbalità o già in italiano, non lo so) s’intromettesse sempre un’immagine mentale della parola scritta e solo successivamente intervenisse la formulazione fonetica: i casi di omografia provocano perciò un ritardo dovuto all’ulteriore necessario processo di disambiguazione semantica, cioè a seconda del significato della frase (‘tu’ uomo o ‘tu’ donna), secondo un criterio che non è contenuto nel solo grafema.

E allora, chiudendo gli occhi cercando di cacciare via le letterine dell’alfabeto che si agglomerano e scompongono in una danza senza sosta, mi chiedo chissà com’è per un cieco imparare una lingua da zero.

Di tutto un po’

Ho finalmente capito cosa sono i boati in lontananza che sentiamo ogni giorno, non appena cala un silenzio. Sono bombe dai campi di addestramento dell’esercito, sparpagliati un po’ ovunque qui nel deserto.

La civetta bianca gira ogni sera, terrificante e silenziosa, sopra le nostre case e quelle dei lavoratori, poi si rituffa tra i ciuffi delle palme. L’abbiamo chiamata Edvige, e adesso starà dormendo nonostante il sole abbagliante.

Due giorni fa in pausa pranzo Dor ha spiegato a me e Yadid come ha iniziato a ‘fortificarsi’, cioè a diventare più religioso. Si è svegliato una mattina qui a Yotvata e ha sentito che doveva comportarsi diversamente, organizzando la sua vita secondo piccole ritualità, nonostante la sua credenza in un unico dio fosse già salda prima. Ha trovato un religioso del kibbutz che gli fa da guida, e di tanto in tanto visita amici a Mea Shearim, il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme. Yadid, che invece crede nel politeismo dei valori umani e che nella vita vuole fare l’attore di teatro, ha solo aggiunto: ‘non diventare fanatico’, e non era una battuta.

Ieri è arrivato un drappello di turisti italiani al Miznon. Come sempre resto un po’ deluso dalla loro indifferenza verso l’italianità mia e del gusto del gelato: partiti con MSC due giorni fa da Genova o Bari per un giro organizzato a Petra e al Mar Morto, non percepiscono l’eccezionalità della situazione. Non sanno che, in quasi cinque mesi di permanenza (per quanto interrotta) ho conosciuto solo due italiani trasferiti qui e non sanno che il gelato al di fuori dell’Italia è generalemente una pappetta dolciastra. Non per niente qui a Yotvata una coppetta due gusti – neanche cono! – due gusti è 5 dollari.

Sabato sera sono andato a un concerto di Beri Saharov, qua all’auditorium di fronte al Miznon. Chitarra elettrica, chitarra acustica, percussioni, seconda voce e una marea di effetti elettronici dal tastierista nell’angolo, intasato di raffreddore. In tutta la sala, suppongo, gli unici non israeliani eravamo io e Karleen. Musica eccezionalmente bella, per il mio rozzo orecchio, tecnico luci santo subito e folla in visibilio. All’inizio tutti seduti sugli spalti, comodi come al cinema; dopo già due brani e due spettacolari passaggi tra un tamburo e un timpano, magistralmente rimaneggiati col sintetizzatore, molti già scalpitavano; poi arrivano le hit, che tutti cantano e che noi due vorremmo poter cantare; infine la seconda voce, omone di due metri per almeno 120 chili, si alza in piedi in un assolo arabeggiante (chissà se gli israeliani sanno che da noi si dice così) facendo segno alla platea di fare altrettanto: è il degenero. Alcune file si svuotano in un minuto per andare a confluire sulle scalinate verso il palco, dove c’è spazio per ballare; da davanti alcuni si scatenano in piedi restando in fila, noi da dietro li imitiamo subito; i pochi reticenti si costringono ad alzarsi, per riuscire a vedere qualcosa oltre la selva di teste ondeggianti. C’è mezzo kibbutz e più di due generazioni: si va dai ragazzini del liceo a noi ventenni suonati ai nostri genitori, tutti trascinati da questo caldo mix di pop, etnico, elettronica e classica. Il mio problema è che non trovo torrent in ebraico, per scaricare musica israeliana sul computer, ma Nadav sistemerà tutto la prossima volta che passo per Tel Aviv. In una capatina sotto il palco vedo Guy, Lior, Ariel e scorgo altri adulti del Miznon: nel kibbutz condividiamo davvero tutto, mi viene da pensare.

En passant, Shaili mi spiega le cattive nuove sulle elezioni, con due possibili coalizioni entrambe poco promettenti. Scopro inoltre che in quanto ben kibbutz ha diritto a una ‘liquidazione’ per quando finirà questo anno di limbo, cioè di lavoro non propriamente come figlio di Yotvata ma neanche come kibutznik: si tratta di qualche migliaio di euro, ‘un investimento del kibbutz’. Perchè, tornerai? Chiedo. No, non intende tornare, ma dovunque sarà e qualunque cosa farà rimarrà un figlio di Yotvata. Non so se si tratti di onore o clientelarismo, ma la storia ha già sfornato parecchi scrittori, artisti, politici, scienziati bne’ kibbutz, che hanno contribuito col loro esempio a costituire il modello kibbutznik. Modello decisamente in calo sul mercato, che tuttavia gli incentivi di Yotvata contribuiscono a sostenere o, magari, rilanciare.

La metratura delle case assegnate dal kibbutz dipende dal numero di bambini del kibbutznik. In caso di divorzio, il kibbutz fornisce una casa per ciascun coniuge.

Moshe hakatan, il piccolo, è partito dopo sette anni di lavoro al Miznon. Dopo una composta festa d’addio con tutto lo staff, il kibbutz ha ospitato due giorni di festeggiamenti ininterrotti della comunità etiope della zona: musica, fumo e barbecue senza sosta, per due giorni e una notte.

Shai, il resposabile del personale al Miznon, parte a breve per l’Italia: a Rimini c’è un’esposizione dei fornitori di ingredienti per gelato, e a lui tocca l’arduo lavoro di scegliere per conto del kibbutz. Dopo qualche giorno i romagna, si recherà a Napoli perchè ha sentito che è un posto ‘speciale’. Gli ho raccontato le mie esperienze in città e in costa amalfitana, e infine mi è toccato raccomandargli di tenere il portafoglio nella tasca interna della giacca. Mi chiede consigli e parole standard per la sopravvivenza, e mi sto facendo carico della sua preparazione al Bel Paese. Devo dire, ho un po’ di ansia: cosa ne penserà?

In mancanza di clienti (i cosiddetti da Yadid ‘smartphone days’), leggo su internet della situazione politica italiana. Ieri sera, prima di una partita a pallavolo, ho provato a riassumere a Shaili. Gli ho spiegato chi sono i parlamentari: come sono eletti (nominati), che non hanno il vincolo di mandato, delle compravendite pubbliche degli onorevoli, cioè documentate in tempo reale dai giornali, di qualche scandalo sui finanziamenti pubblici, sulle condanne per mafia nel Pdl, dell’immunità parlamentare che blocca i procedimenti a loro carico, delle disinvolte e pluridecennali carriere politiche da estrema sinistra a estrema destra, degli stipendi da marajà, di come funzionano i voti per gruppi parlamentari e la stesura di leggi per commissioni. Capisce che non è Berlusconi l’unico problema della politica italiana, ma tutto sommato non rimane stupito, solo disgustato: i meccanismi di corruzione, economica o morale, sono presenti ovunque, declinati a seconda delle leggi dello Stato. Ci sono anche in Israele. Mi coglie in contropiede, invece, il suo stupore per due ‘dettagli’, avrei detto: primo, il fatto che le proteste popolari non sortiscono effetti. In Israele, mi dice, quando un discreto numero di persone si riunisce per contestare o pretendere qualcosa dalle istituzioni, queste reagiscono: raramente, ma è capitato, sono rimaste impassibili sulle proprie decisioni senza concedere niente. ‘Ma come, in Italia non succede niente in risposta?’ No, mi tocca ammettere, né ribadiscono la propria posizione né fanno un passo indietro: qualcuno commenta in qualche salotto di qualche tivù, e poi ritorna l’indifferente silenzio. ‘E voi italiani?’ Ci penso un po’…’dimentichiamo, cos’altro puoi fare altrimenti?’. Quasi mi ero dimenticato delle petizioni per diminuire gli stipendi ai parlamentari, delle raccolte firme per annullare le province, delle oceaniche manifestazioni per la legge bavaglio, lo scudo fiscale, la dignità delle donne, le cicliche giornate nazionali per le dimissioni di Berlusconi. Secondo, mi chiede chi è Grillo: ‘cioè, non è un partito né strutturalmente né economicamente, perchè non riceve il finanziamento pubblico. E come si mantiene?’ Non ha spese di giornali di partito né propaganda, perchè si muove sul blog, rispondo, più finanziamenti di privati che però non so chi siano. ‘E lui è leader politico…ma non candidato?’ No, è proprietario del logo del movimento e lo revoca a chi non è allineato con la sua politica, ma non è in campo. ‘E non vanno in televisione.’ No, per ora hanno rifiutato confronti televisivi. ‘E hanno successo’ Sì, hanno fatto il botto in Sicilia e hanno comuni sparpagliati un po’ ovunque. Le elezioni anticipate a febbraio e una valanga di cavilli burocratici sono stati introdotti per impedire, tra le altre nuove formazioni, anche a questa di partecipare alle nazionali e facilitare la procedura ai partiti già esistenti. Mentre rispondo vedo la sorpresa accendersi sul suo volto, e in un secondo momento mi accorgo di essere io stesso stupito: in tutti i miei anni di studio, non saprei istituire nessuna analogia storica col movimento cinque stelle. L’unica che mi viene, al momento, è Savonarola, apocalittico profeta di una cospirazione contro l’ordine costituito, ma questa, per Shaili, è tutta un’altra Storia.

Adatta-menti

Col tempo, mi è sempre più difficile scrivere; mi è difficile focalizzare cosa  merita di essere raccontato e cosa invece rientra nella routine di qualsiasi vita, e non in quella di un volontario a Yotvata; passata la scarica adrenalinica della novità, mi è difficile rendermi conto di quando sta succedendo qualcosa di significativo, o semplicemente quando sta succedendo qualcosa, giornalisticamente parlando; ormai a cavallo di questo mondo da tre mesi, mi è difficile discernere la normalità dall’insolito, dal diverso, dall’alterità.

Paesaggi: da protagonisti che erano sono diventati ora sfondo della commedia. Tramonti, sassi, kanyon, falchi, shitafon, immense distese silenziose, stelle sono l’ambiente di Yotvata, molto semplicemente.

Lingua: oltre la cortina fonetica e segnica si sviluppa un intreccio delle stesse relazioni umane, emozioni, intenzioni di cui è affetto anche il mondo a ‘casa’, e così suppongo in ogni contesto umano. Per quanto interessante e irriducibile, il linguaggio è anche qui solo uno strumento per le nostre vite, per intenderci su qualcosa d’altro che è il vero sale della nostra esistenza: può essere un complimento, una battuta, un ordine. Ho conferma che succede qualcosa oltre quello che ci raccontiamo in ebraico o in inglese: le mie memorie quaggiù sono in italiano.

Società: l’assenza di lucchetti, l’uguaglianza reale, la routine del lavoro, l’assenza di carriera non mi sembrano più roba da superuomini. Sono anche questi parte di una normalità ereditata dal tempo e dall’esercizio, gesti e valori introiettati da uomini che a loro volta, come me, si sono adattati.

Da una parte mi assale una noia per l’umanità: davvero riusciamo a smettere di stupirci? e in così poco tempo e di cose così meravigliose? davvero siamo tutti, in fondo, uguali? è davvero così facile adattarsi gli uni agli altri nonostante i nostri millenni di storia e le migliaia di kilometri di distanza? Dall’altra, riconoscere la mia integrazione quaggiù è uno dei pensieri più edificanti che mi possa sovvenire: esiste davvero una compatibilità di fondo tra esseri umani, più forte di qualsiasi struttura individuale storica o biologica e qualsiasi condizione atmosferica, che permette loro di sopravvivere gli uni agli altri attraverso l’adattamento. Adattamento che quindi da una parte, è vero, mi fa passare inosservato un fatto tanto bello come l’improvvisata gita di classe dei bambini dell’elementari a Dimona per vedere per la prima volta la neve di settimana scorsa (due chiazze smunte qua e là, ma tanto basta), dall’altra mi fa lasciare il computer incustodito in bunker internet per qualche ora, insieme a quello di Juan Carlos, o usare disinvoltamente vestiti da lavoro del kibbutz, senza percepire lo spazio per il furto.

Quel che allora voglio portarmi dietro da questo posto, dovunque mi troverò a ricominciare una vita nel futuro, è l’importanza del contesto umano: le possibilità e i limiti delle nostre azioni, la forma del nostro comportamento, la nostra percezione di giusto e sbagliato non sono sotto il nostro pieno controllo. L’esempio del mondo ci plasma nell’intimo, rendendo letteralmente impossibili alcuni comportamenti e pensieri: ci mette una tara. In Italia la tara è non spaccare le vetrine con una mazza da golf, non rubare dalla cassetta delle elemosine, pagare il conto al ristorante; la zona d’ombra, cioè là dove non c’è abbastanza coercizione sul comportamento ma nemmeno abbastanza motivazione all’autodisciplina, è rubare caramelle all’Autogrill nella gita di classe o non pagare il biglietto del bus (cosa che, invece, pare rientrare a pieno titolo tra le ‘tare’ dei tedeschi). Esattamente come a Yotvata, anche in Italia ci sono comportamenti tecnicamente possibili ma che praticamente mai vengono attuati, e come a Yotvata non è questione di punzione: nessuno vede se rubo dalla cassetta delle elemosine in chiesa, come nessuno vede se rubo un telefono da una camera di Yotvata. E’ solo un diverso grado, una diversa tara, un diverso contesto. Posso allora dormire contento, con la certezza storica (sperimentata in prima persona) che non possiamo rimanere indifferenti all’ambiente: a questo punto, basta creare quello giusto.

Contro ogni ragionevole dubbio

Pensare è agire – Emerson

Fin dai miei primi contatti con Israele e il Medio Oriente in genere, fin dalle mie prime abbozzate conversazioni in ebraico con Eviatar, in un lontanissimo luglio genovese, ho accolto con volenterosa immedesimazione ed intellettuale rispetto un ritornello, sempre quello: ‘Un’altra guerra è inevitabile, prima o poi arriverà.’ Prima, appunto, per bocca di uno studente di architettura all’università di Genova trasferito da Raanana, vicino Tel Aviv, poi Nadav, studente di musica a Tel Aviv centro, poi Alon, suo amico d’infanzia; a Gerusalemme, da uno dei nostri responsabili al campus di cui non ricordo il nome, anch’esso studente. Qui è stato il turno di Omri, un altro Nadav, Ilana, appena arruolata nei meccanici dell’aeronautica, Nimrod, richiamato come riservista nella crisi di Gaza di novembre. Tutti la stessa rassegnata indifferenza, lautamente giustificata. Infine ieri, sotto una bellissima nottata di vento freddo, sono sbottato. La malcapitata è Netta, sorpresa dalla mia eccessiva per quanto misurata reazione: ‘Ma la volete smettere? Se voi ragazzi della mia età siete i primi a non crederci, ein tikvah – non c’è speranza’. Presa in contropiede, è rimasta in silenzio qualche secondo prima di concedere: atah zodek, hai ragione. A dir la verità, io stesso sono rimasto spiazzato dalla mia uscita: non era pre-meditata. Una rabbia, un fastidio, un’insofferenza che, sono certo, covavano da chissà quanto tempo, sono infine esplosi d’impeto con incontrollata durezza. Ora che ho tempo di pensarci a freddo, la trovo interessante. In primo luogo rintraccio l’influenza di La guerra che non si può vincere di Grossman, appena letto, raccolta di disperati appelli di pace scritti nel corso degli anni Novanta e della seconda Intifada: libro a effetto rapido! In secondo luogo, il disgusto per le maniere del vecchio di Eilat: nel suo colorito linguaggio non ha forse espresso lo stesso macabro ritornello di Eviatar e Omri, solo politicamente ‘sporcato’ da malcelata speranza in questa ulteriore fatidica resa dei conti? A quanto pare, oltre la cosciente cortina di pacata razionalità, uno scenario di vita diverso, migliore, si è fatto strada di soppiatto dentro la mia testolina: ci può, o secondo Grossman ci deve, essere un futuro alternativo smarcato dal cattivo esempio del passato.

E’ vero, la realtà politica con la vittoria della destra alle porte riporta subito coi piedi per terra e il ragionamento per induzione gioca a sfavore del pacifismo (il prognostico di Eviatar a luglio è stato confermato dai missili di novembre), tuttavia il click che è scattato nella mia impulsiva risposta a Netta mi costringe ad arrovellarmici un po’ di più. Può forse materializzarsi dal nulla una cosa tanto delicata come una tregua, una pace, una convivenza, senza che nessuno l’abbia mai sognata, idealizzata, progettata prima? Il nesso causale tra progetto di pace e pace reale mi sembra più stringente della sconsolata analogia ‘così era, così sarà’: concludo che il primo ragionevole passo verso una pace è credere che sia possibile raggiungerla, contro ogni, e dico ogni, ragionevole dubbio. Tendiamo a desiderare e adoperarci solo per ciò che riteniamo possibile, dimenticando che è possibile solo ciò che desideriamo e per cui ci adoperiamo già da ora. La rabbia è quindi vedere i miei amici rassegnati all’inevitabilità di un’altra guerra senza considerare che così facendo stanno avverando la funesta profezia, di cui peraltro loro stessi saranno le vittime. Se anche uno solo lo vuole, la guerra è evitabile, nel più forte senso filosofico. Credere il contrario è un errore, non un’opinione.

E’ giusto avere aspettative e imparare dalla storia, e di fatto è così che ragioniamo normalmente da quando scegliamo di metterci in macchina all’alba per evitare l’ora di punta a quando aspettiamo a comprare l’IPhone usato su ebay da qualcuno che lo rivenderà presto; è quindi ragionevole pensare che le cose continueranno così anche nel vortice di attentati e missili quaggiù. Ma quanto è onorevole? Il ‘presente’ da cui partiamo per i nostri catastrofici prognostici è in realtà un passato recente fatto di articoli di giornale, servizi televisivi dal fronte e foto di corpi mutilati; ciò che conosciamo in tempo reale è solo il nostro proprio stato interno, e solo su questo possiamo intervenire direttamente: avere le migliori intenzioni, questo è il miglior ritocco che possiamo fare al presente, gettando l’unica solida base per un futuro senza bambini spappolati. Un qualsiasi computer può eseguire il calcolo dei rischi sulla base dei dati già in nostro possesso, e lo sa fare meglio di noi. Noi esseri umani, specialmente con una vita davanti, abbiamo il dovere e non solo il diritto di desiderare e adoperarci per ciò che vogliamo essere il futuro, e non per sentimentale retorica: per il semplice fatto che siamo profondamente ignoranti, che non sappiamo niente del mondo e degli altri e, dunque, è legittimo oltre che storicamente necessario scommettere su di loro ribaltando il pregiudizio.

M’incazzo perchè appiattire i diversi scenari futuri su un valore di probabilità vuol dire accettare la morte, la guerra, l’ingiustizia come fenomeni normali da mettere in conto, al pari di un’autostrada piena e un telefono nuovo. Senza riconoscere i motivi eccezionali per cui vale la pena rischiare tutto contro ogni ragionevole dubbio, non siamo una comunità di pensanti ma una compagnia d’assicurazione.

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Affinchè restino cose che non si possono dire

L’ebraico migliora. Il mio lessico si allarga strisciando come un polpo, con tentacoli in ogni direzione dalle parolacce ai nomi dei cibi ai verbi di emozioni e stati interni; gli automatismi aumentano in numero e velocità, inizio anch’io a mangiarmi le parole. Eppure, non basta. Dopo una settimana di vacanza in italiano con italiani in cui ho ritrovato quella simbiosi tra pensiero e parola di cui non sapresti dire quale dei due è condizione dell’altro, in cui ti sembra di farti parlare dal linguaggio e in cui comunicare verbalmente è la cosa più naturale, e non la più artificiosa, dopo tutto questo mi prende lo scoramento. Temo che quest’unità tra segno e significato non si concretizzerà mai più un’altra volta, perchè di mamma ce n’è una sola, anche nelle lingue; temo che quel limbo d’intraducibilità che sto sbocconcellando ogni giorno con perizia e metodo non verrà mai esaurito, ma solo limato al limite. Penso ai bilingui che conosco, agli Uri, le Thelma, le Sylvie, i Mark e gli Ygal, e mi chiedo se confermeranno o smentiranno i miei timori. Ho sempre creduto che imparare, lingue incluse, fosse un’aggiunta e mai una sottrazione. Oggi mi viene il dubbio che il segreto del bilinguismo sia dimenticare a tal punto la propria lingua da non vedere più il salto, da non sentire più alcuna differenza tra come ci siamo addomesticati a parlare e come parleremmo allo stato brado, da non vagare più dispersi nel limbo dell’intraducibile ma richiudersi nel grande mercato delle parole, in cui ciascuna ha un prezzo e una tara; forse solo una volta perso il termine di paragone ci troveremo davvero nel migliore dei linguaggi possibili, per mancanza di concorrenti.

Libretto per bambini che ho trovato nella sabbia.
Libretto per bambini che ho trovato nella sabbia.

Come un polpo, mi vedo il bilingue mimetizzarsi con successo tra fonemi, sintassi e semantica di un fondale che non gli appartiene, chiuso dentro il colore di una pelle che non gli appartiene, dimentico di quanto ha strisciato e che dovrà sempre strisciare tra nuovi modi di dire di nonni madrelingua che non ha avuto e citazioni da programmi per bambini che non ha visto; che colore ha un polpo, davvero? Bisogna mettere il polpo su un fondale di polpi. Come un leone dello zoo che ha dimenticato a cacciare, il bilingue si abituerà a tal punto a questa cattività da prenderla per selvatichezza, quella selvatichezza che ha scambiato con la piena cittadinanza in due zoo diversi. Orfano del proprio linguaggio, chi potrà spiegare a Truman che il suo cielo è in realtà di cartone?

Il lato oscuro

Il locale è piccolo ma ben tenuto, fa carne alla griglia in pitah o baguette e insalate. Fuori la vita di Eilat scorre nonostante l’inverno. Si fa avanti lui per primo, capello tinto dalla lunga ricrescita bianca raccolto in una coda, tarchiato, barba sfatta, senza aspettare che finiamo di leggere il menu. Cosa ci fanno due italiani nel suo locale? Aspettiamo il visto dall’ambasciata egiziana per entrare nel Sinai. Non gli piacciono gli italiani, dopo che a Brindisi negli anni ’80 gli è stato rifiutato un caffè in quanto israeliano. Ce lo dice così, senza complimenti, in ebraico, e io traduco a Lara. La tele è accesa su quello che suppongo essere il peggio trash israeliano, un Buona Domenica solo con gargarismi vocali mediorientalissimi e studio televisivo alla buona: già questo, elemento significativo, col senno del poi. Domande di rito sul come mai parlo ebraico, tipico fraintendimento sul mio essere ebreo, fino ad un punto di svolta dell’intreccio quando, non ricordo perchè, nomino la parola ‘palestinesi’. Ma ze filistinim? Cosa sono i palestinesi?, chiede a muso duro. Bne’ adam, uomini, rispondo un po’ a disagio. Si stende in una risata, o piuttosto un ghigno diabolico: ‘C’è la Giordania, l’Egitto, il Libano, ma cos’è la Palestina? Dimmi, dov’è sulla mappa? Quano mai c’è stata?’. Non ci sarà la Palestina, ma restano 5 milioni di palestinesi da spiegare, azzardo. Di nuovo shignazza, ‘te li do io 5 milioni di arabi – mi mette la mano sulla spalla – tachshiv ieled, ascolta bambino, non parlare di roba che non conosci’. Mi porta la pitah e traduco sommariamente a Lara lo scambio. Si siede a tavola con un amico-collega, parlano di soldi. Noi ci mettiamo a studiare la mappa per il monte Sinai. Stavolta sono io a riprendere il discorso, gli chiedo da dove viene. Da qui, Israele, nato a Tel Aviv, direi a occhio e croce nei primi anni ’50. ‘E come sei capitato a Eilat?’. Nei primi anni ’70 si è trasferito in una minuscola Sharm El Shaikh, dopo la conquista israeliana della penisola nella guerra dei Sei Giorni. ‘Il posto più bello del mondo, gan Eden.’ Scompare nelle cucine e torna con un quadretto ingiallito: qualche foto, lui che fa sci d’acqua con gli stessi capelli lunghi, solo castani, sullo sfondo le solite spettacolari montagne rosse. Niente villaggi turistici, niente europei russi turchi, solo qualche beduino e tanti israeliani in cerca di un isola di pace lontana dal mondo in guerra, spiega. Insomma, un sessantottino delle sabbie. ‘Poi nell’82 abbiamo ceduto l’intero Sinai all’Egitto in cambio di pace, ed eccomi qua’. In effetti, adesso con l’Egitto è pace, puntualizzo. ‘Pace hazain sheli – pace ‘il mio cazzo’, letteralmente – terrorismo, armi a Gaza, tutti morti di fame. Ma tu lo sai, bambino, Israele è la nazione più potente del mondo. Vogliono la guerra? Batachat! – ‘In culo!’ – li abbiamo sempre scopati in culo, gli arabi.’ Gli arabi? Un po’ generico, ribatto, come dire ‘gli europei’, senza distinguere tra nazisti, inglesi e partigiani nella seconda guerra mondiale. Giordania, Egitto, Siria hanno avuto ruoli ben diversi nel conflitto israelo-palestinese. ‘Ancora – rivolto all’amico – continua con sta storia dei palestinesi? Chi sono? Dove stanno? Io non li vedo.’ E torna quell’inquetante risata da invasato. Lo interrompo: ‘Sono stato a Ramallah, Betlemme, Hebron, Jenin, adesso anche a Gerico; dopo il muro ci sono città, strade, negozi, case…uomini. Tu ci sei stato? Tu sai di cosa stai parlando?’ ‘Io? Io non ho motivo di andarci, non ci voglio andare. E se ci vado, bambino, tistakel – guarda.’ Gira nuovamente dietro l’angolo della cucina e, tornato brandendo una bella pistola con impugnatura in legno sghignazza: ‘Ci vado con questa!’. La mette via e torna in sala; noi, raggelati, ci rimettiamo a guardare la mappa. In Israele vedi ogni giorno M-16 d’assalto, fucili da cecchino impolverati e ogni altro tipo di arma automatica in mano a ragazzini più piccoli di me. Non si è mai sentito di episodi di stragi folli come nei licei americani, piuttosto di qualche strage politica come quella a Hebron o sulla Spianata delle Moschee.Tuttavia niente mi ha più spaventato di quella relativamente piccola arma in mano a un vecchio con la pancia da birra. Finiamo di mangiare e ci intratteniamo ancora un po’, aspettando l’orario di apertura dell’ambasciata. Il vecchio cambia canale, finalmente, e mette su Nat-Geo Wild: un coccodrillo sta sbranando una gazzella. Entra nel locale un altro sulla sessantina, abbronzato e ben vestito. Sento il nostro uomo raccontare dell’italiano che lavora Yotvata e parla ebraico. ‘E, senti un po’, parla dei palestinesi’, dice ad alta voce girato verso di me. L’altro non si sbraga in risate sadiche, piuttosto mi guarda negli occhi e fa: ‘Voi in Europa non avete idea, non conoscete gli arabi. Ne avete, certo, ma sono immigrati: non hanno uno Stato e una terra alle spalle, sono ospiti. Non possono chiedere quello che vogliono. Ma aspetta un po’, fanno figli come conigli: altri dieci anni e vi schiacceranno.’ Interviene l’altro a rincarare la dose: ‘Bambino, tu parli ma sai cos’è un’autobomba? Non fai quello che vogliono: booom! Venti quindicenni sul marciapiede. Non aprite la moschea? Boom, un altro ristorante per aria. Hanno arsenali in tutta Europa, pronti per voi appena non farete quello che vogliono. Ancora dieci anni, e anche tu, non la tua amica, dovrai mettere il burka!’ Sghignazza. ‘A me basta non vederli, che spariscano, fuori dal mio Paese. Hanno dove andare: Giordania, Siria, Libano: sono arabi? Che si prendano loro gli arabi! Gli ebrei li hanno già cacciati già tutti, loro, dopo il ’48. E sai cosa vogliono adesso? Li senti cosa dicono? Egitto: ottanta milioni di pezzenti, la metà non sanno leggere; in televisione i politici parlano ancora di eliminare la minaccia sionista fino all’ultimo uomo. E se non qui, dove vado? In mare? Batachat! Vengano a prenderci, li facciamo il culo di nuovo.’ Riprende il signore ben vestito, in quello che sembra il gioco del poliziotto buono e poliziotto cattivo: ‘Dovete aprire gli occhi, in Europa. Tutto parte con la democrazia: liberi di fare tutto, anche di abolire la democrazia. Guarda in Egitto: finita la dittatura chi hanno eletto? I più radicali tra i musulmani. Gaza: Hamas è salito con l’appoggio popolare, solo dopo ha iniziato gli omicidi politici. Aprite gli occhi! In America lo sanno: prova a dire qualcosa contro la nazione, in America; prova ad andare contro la democrazia: ti sbattono fuori! Ti fanno giurare sulla Costituzione, quando arrivi in America, è una democrazia con dei confini.’ Ma quando parlate di arabi, chiedo, intendete musulmani e cristiani insieme? ‘No no, i cristiani vanno bene. E ti dico, i religiosi sono sempre il peggio, anche noi abbiamo dei pazzi, ma sono i musulmani il vero problema’, risponde pronto il padrone del locale, mentre l’altro tentenna. ‘La prossima guerra mondiale è cristiani contro musulmani, te lo dico io.’

E’ il mio primo incontro coi fascisti israeliani. Ci sono ovunque, in ogni nazione, ma gli ebrei lasciano sempre pensare: dopo milleni di persecuzione, la prima cosa che questo vecchio riesce a dirmi è che non gli piacciono gli italiani, proprio come in Europa non ci piacevano gli ebrei, e per di più perchè gli italiani sono razzisti! E’ un triplice paradosso della generalizzazione, quello del discriminato che discrimina coloro che discriminano. Ci penso spesso, alle parole di quei due ristoratori. Il loro ritratto del mondo arabo è quello del modello Hamas, dell’odio politico ormai incancrenito fino a diventare crociata religiosa; confronto le loro visioni cospirazioniste-apocalittiche con le dichiarazioni dei leader arabi: ‘La guerra di Gerusalemme non è giusta per 5 milioni di palestinesi, ma santa per un miliardo e mezzo di musulmani’; mi scorrono davanti le icone dei guerriglieri votati alla distruzione di Israele coperti in volto da una kefiah, sui muri di Ramallah di fianco alle foto di Arafat vittorioso con il kalashnikov in mano; penso a Gilat Shalit, soldato israeliano liberato al prezzo di 477 guerriglieri di Hamas, quando dall’altra parte c’è chi manda l’ennesimo kamikaze a farsi saltare in aria. Mi addormento ammettendo a me stesso, con buona pace del mio umanismo, che è un conflitto tra civiltà, tra due diversi sistemi di valori. Noi siamo inevitabilmente dalla parte israeliana perchè gli israeliani sono in fondo figli (per quanto rinnegati) nostri, dell’Europa, dell’Illuminismo. Il punto è che quel vecchio di Eilat, con la sua pistola e le sue ricette risolutive tagliate giù con l’accetta, mi somiglia proprio a uno di quegli ‘arabi’ non meglio spiecificati che tanto odia. Ignoranza, spavalderia, stupidità, paura, i soliti ingredienti che fanno il fascista e che pare faranno stravincere il Likud di Netanyahu alle prossime elezioni.

Di Israele mi ha subito affascinato la sensazione di essere in prima linea, di poter osservare da vicino, con la lente d’ingrandimento, problemi che su più ampia scala, un discreto ritardo e qualche piccolo inquinamento, giungeranno fino a noi. Prima o poi ci sarà un partito arabo che proporrà le istanze degli arabi; perchè è giusto così, in democrazia. Tutto il mondo occidentale studia l’arcipelago arabo dalla torre dell’università di Gerusalemme, non dal Cairo o Dubai. Qua siamo in una piattaforma, perdipiù climatizzata, nel bel mezzo della stessa tempesta di cui in Europa arrivano le onde lunghe dell’immigrazione, di gente che vuole vivere come noi ma non pensa ancora come noi. La fusione pacifica dei due mondi, qui in termini territoriali e in Europa in termini sociali, è qualcosa di nuovo e che nessuno sa come si fa. L’unica cosa certa, è che la soluzione non sta in tasca a pistoleri ignoranti: da una parte e dall’altra.