Il sistema startappe e come uscirne

Per fare imprese difficili ci vuole il pelo sullo stomaco. Sembra ovvio ma non se ne parla abbastanza. Il tema mi è caro perché sono stato per il primo anno di attività della mia società vittima di una circuizione d’incapace orchestrata non già dai Poteri Forti, dal Capitalismo o dal Deep State, ma da piccoli uomini che hanno scoperto come fare (pochi) soldi raccontando che fare impresa è facile. Lo raccontano in congressi, riviste specializzate, concorsi a premi per riuscire a vendere servizi di consulenza. Lo fanno ammantati di fascino della parolina magica: startup. Faccio subito un disclaimer per non doverlo fare più in seguito: ci sono professionisti validi e quando li ho incontrati me li sono tenuti stretti, ma per la stragrande maggioranza il jet set delle startup – “startappe”, all’italiana, è poco meno di una associazione a delinquere. Associazione perché si associano sotto nomenclature inglesi quali accelerator, incubator, hackathon, summit, competition, ventures, per fare soldi attraverso servizi loschi sempre in inglese quali work for equity, pitch deck, growth hacking, mentorship. Chiunque ci sia passato lo può confermare, chiedete in giro.

Il trucco è che per definizione oltre il 90% delle startup fallisce entro i primi due anni, quindi non restano in giro troppo a lungo per capire se il circuito startappe è servito a qualcosa e per raccontare la loro esperienza. Il mondo delle startup è refrattario al consolidamento di una reputazione, è un eterno ritorno d’ingenui da spennare. L’unico aspetto di impresa di successo del circuito startappe italiano è che ha saputo trovare un mercato potenziale – persone come me con una idea imprenditoriale ma ancora incapaci di svilupparla, suscitare un bisogno indotto – essere aiutati da qualcuno che è capace, e trasformarlo in un mercato attuale – confezionare servizi di consulenza ad hoc. A volte ti fanno fare il consumatore che paga il servizio, a volte ti fanno fare il prodotto: vendono la tua presenza, formale o mediatica, agli sponsor il cui interesse è dire che hanno contribuito a creare impresa in Italia. La delinquenza intrinseca del circuito startappe risiede nel fatto che il bisogno che intercetta è veramente indotto: nessuno ti può insegnare a fare una startup, se la si intende come impresa nuova con enorme potenziale. I rudimenti di economia aziendale te li studi su internet, per il resto tocca a te convincere i cofondatori, gli investitori, i primi clienti e le banche che la tua idea, per quanto apparentemente folle, ha senso e se ha senso ne ha tanto da diventare tutti milionari.

Il marketing del circuito startappe si sgonfia subito se consideri le possibili casistiche: se la startup è folle, non c’è consulenza che tenga per renderla fattibile; se la startup non è folle ed è nuova, più che consulenza il circuito dovrebbe darti investimenti o rubarti l’idea – ma non fanno mai la prima cosa e raramente la seconda; se la startup non è folle ma non è nuova, non ti serve una consulenza ma ti basta copiare il competitor. Poiché non investe, il circuito startappe serve a circuire gli incapaci come me nel 2018 o, nel migliore dei casi, ad intrattenere gli hobbisti della startup: secondo lavoristi che fanno impresa a tempo perso, la stessa differenza tra iscriversi al conservatorio o a cantare nel coro della parrocchia. Mi permetto di essere iperbolico, perché il circuito startappe è già troppo bravo a vendersi, ma anche per chiarire il punto importante: l’imprenditoria è questione di soldi, e i soldi hanno la strabiliante capacità di tirare fuori il peggio delle persone. Questa scoperta è stata per me un trauma, perché sono entrato nell’imprenditoria di un settore molto aggressivo, l’industria beverage, provenendo da una branca iper avanguardistica dell’accademia, le neuroscienze cognitive: ero abituato a lavorare in un contesto, la scienza dell’animo umano, che tira fuori il meglio delle persone.

I soldi comprano l’unica risorsa davvero limitata: il tempo. Tempo di produrre un bene, tempo di erogare un servizio, tempo di raccogliere informazioni, tempo di fare una proposta, tempo di negoziarla. Tempo perso se non chiudi il deal. La differenza fondamentale tra il consumatore e l’imprenditore è che per il consumatore il tempo è una commodity: c’è e va consumato; per l’imprenditore il tempo è un asset: non c’è e deve moltiplicarsi. Visto il grado di analfabetizzazione imprenditoriale italiana, di cui sono primo positivo sintomatico, l’unico bisogno che il circuito startappe dovrebbe indurre è il capire il prima possibile la legge universale che determinerà la tua impresa, cioè il rapporto micidiale tra soldi e tempo: quando finiscono i soldi, hai finito il tempo. Quando non hai soldi sul conto per pagare gli stipendi dei collaboratori, devi chiudere. Soldi non a credito, non a business plan, non nelle tue speranze di successo lautamente oliate dai complimenti dei mentor e dai premi del pitch day: sul conto. Come fai a garantirti più tempo? Porta più soldi sul conto. Come? Arrangiati. Nessuno trova soldi per te, ma tutti te li chiedono. Se fai un’impresa quasi folle e riesci a invertire il flusso, cioè a fare sì che col tempo i soldi in cassa aumentino al posto che diminuire, hai probabilmente cambiato il comportamento di milioni di persone e sei diventato miliardario. A spanne, ce la fa uno su un milione di quelli che hanno una idea davvero grande e davvero fattibile, uno su mille di quelli ne fanno davvero un’impresa. Oltre la metà delle startup vere, non startappe, non riesce neanche a sviluppare il prodotto. Non a commercializzarlo: a svilupparlo. Questi fatti sono le stelle fisse dell’imprenditoria ad alto rischio, quella che può cambiare il mondo. Purtroppo, il peggior modo per invogliare all’acquisto è spaventare il consumatore, quindi è meglio costruire il brand startappe attorno a mirabolanti inglesismi dalla Silicon Valley, megafoni e scenografie di raffinato design.

Il nostro team ha la fortuna di avere forti relazioni con Israele, perché ci ho vissuto un po’ di anni, e con gli USA, grazie al premio di accelerazione a Boston che abbiamo vinto nella startup competition del Myllennium Award – come accennato nel disclaimer, ci sono validissime eccezioni alla regola del circuito startappe. Sedersi a un tavolo con consulenti, imprenditori e investitori israeliani e americani mette le cose al proprio posto: quanto sei folle, quanto costi e quanto mi fai guadagnare? Il resto, se viene, viene dopo. I riscontri che abbiamo ricevuto ai primi appuntamenti ci hanno sempre segnalato un imbellettamento inutile attorno all’unica domanda interessante: mi stai offrendo un buon deal? La differenza è che l’americano o l’israeliano si siedono al tavolo da predatori: cercano di intuire se possono essere i primi a comprare o investire; gli italiani del circuito startappe da prede: cercano di indurti ad abboccare al loro percorso di accompagnamento che ti porterà fama, capitali e longevità. I primi comprano, i secondi vendono. Ogni minuto che ho passato cercando di vendere al circuito startappe, è un minuto perso. E ogni minuto perso è un minuto in meno per invertire il flusso di denaro da consumo a generazione. Ci vuole pelo sullo stomaco per capirlo, figuriamoci per farlo.