Qui non è l’America

“Facci vedere che conquisti il mondo”, questo è il mantra nel circuito startappe. “Una startup su dieci ce la fa, quindi devi dimostrare che la tua startup ha un ritorno sull’investimento di almeno dieci volte per ripagare all’investitore i rischi del mestiere”. Argomento validissimo: per ogni Youtube, Stripe, Airbnb o Tesla ci sono migliaia di progetti falliti, di milioni buttati e di sogni infranti. Pare che i fattori principali del fallimento siano il timing sbagliato e l’incapacità dei team di imparare in tempo le lezioni dell’imprenditoria e del mercato di riferimento. Statistica dice che nell’82% dei casi la società chiude perchè finisce il cash. La natura intrinsecamente finanziaria di una startup, cioè il suo essere un azzardo, comporta un rapporto stretto con gli investitori. Più volte, guardando il nostro business plan, finanzieri e investitori hanno obiettato che “il ritorno sull’investimento a 5 anni è troppo basso”. Cioè: facci vedere che conquisti il mondo! Il come lo conquisti non sembra interessare troppo, tanto che a volte mi chiedo se il sognatore sono io imprenditore o loro investitori: qui, non è l’America.

Paypal, che è diventato il prototipo della startup americana, è nata nel 1998 con una borsa di studio da 100mila dollari a due studenti universitari per sviluppare la loro idea, ed è arrivata a bruciare 10 milioni al mese nel suo lancio sul mercato nel 2000, in cui diventa il provider di pagamenti di eBay. Nel 2002 eBay la compra per un miliardo e mezzo.

Ora Paypal e gli altri idoli della Silicon Valley contavano team geniali sotto ogni aspetto e motivati oltre ogni limite, un network universitario tra i migliori al mondo, una propensione al rischio diffusa, un tempismo perfetto e un mercato immenso. Paypal e gli altri idoli vanno presi per quello che sono: idoli. Miraggi, chimere, simboli, narrative edulcorate di un sogno americano che resta americano.

Ogni anno negli USA si investono 150 miliardi in startup, a fronte di una popolazione di circa 64mila startup: in media 2,3 milioni pro capite; in Italia si investono quasi 700 milioni su poco più di 10mila startup, cioè 70mila euro pro capite. In USA una società si fonda in sei giorni con qualche centinaio di dollari e puoi farti la contabilità da solo; in Italia ti ci vuole qualche mese spendendo tremila euro tra tasse di registro e notaio, e altri tremila all’anno di commercialista per il deposito del bilancio. Il seed round (investimento sull’idea senza ancora avere il prodotto) negli USA è in media di 3.9 milioni con una valutazione societaria di circa 10 milioni. Il round A, cioè il primo investimento di un fondo, è in media di 12 milioni per valutazioni societarie di 30 milioni. Il tempo medio tra seed e round A è di 22 mesi; in Italia, nel 2020 il 37% degli investimenti startup provengono dal crowdfunding con un taglio medio di circa 5mila euro a investitore su una raccolta media da mezzo milione; la distinzione tra seed e round A non è netta, ma sappiamo che nel 2018 i fondi istituzionali hanno investito in totale 215 milioni. Negli USA circa la metà delle startup in round A spendono più di 400mila dollari al mese, il 77% in personale. Lo stipendio lordo medio dei fondatori è di circa 50mila dollari all’anno. Anche su questo non ho trovato studi affidabili dell’ecosistema italiano, il che è un fatto di per sè.

Il sistema startup italiano cresce e ne siamo tutti fieri, ma rispetto alla champions league del sistema americano o israeliano non dico che siamo la serie C, ma siamo proprio un altro sport. Come confrontare la corsa con la marcia: l’unica cosa che hanno in comune è che in entrambe le discipline si usano le gambe e bisogna essere più veloci degli altri. Con questa consapevolezza, il “facci vedere che conquisti il mondo” è uno scimmiottare quello che non siamo e, forse, non vogliamo essere.

Negli USA, che sono la nazione con il 41% dei più ricchi al mondo, un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. A fronte dei 400mila lavoratori nell’ecosistema startup si stagliano oltre due milioni e mezzo di bambini senza tetto. Israele per tanti altri aspetti è messa anche peggio, con uno dei maggiori divari tra ricchi e poveri dei Paesi OCSE – peggio di lei solo Lituania, Romania, Costa Rica e…USA. Noi non siamo di questa pasta. Nonostante il declino, le famiglie italiane restano tra le più patrimonializzate al mondo, i diritti dei lavoratori tra i più tutelati al mondo, e ci posizioniamo molto meglio nella classifica dell’inuguaglianza economica dei Paesi Ocse. Nonostante la Padania sia il territorio più inquinato d’Europa, lo stivale continua ad avere una strepitosa e diffusa qualità del cibo e del servizio sanitario. Da noi non esistono borse di studio da 100mila dollari per progetti imprenditoriali: quando al primo anno di filosofia chiesi in segreteria alla Statale di Milano se ci fossero agevolazioni per studenti lavoratori, mi risposero “non esiste la categoria studenti lavoratori”. Non esiste una Ivy League o una unità scelta dell’esercito da cui esca l’elite amministrativo-imprenditoriale di cui si nutre l’ecosistema startup, perchè nonostante i tagli e l’umiliazione continua, l’analfabetismo funzionale tra i più alti al mondo e l’abbandono scolastico, la scuola pubblica italiana riesce a sfornare istruzione e ricerca di alto livello su tutto il territorio, da qualsiasi ceto economico e sociale. Nonostante le spallate sempre più forti, la nostra classe dirigente ancora studia il greco e il latino, non JavaScript e Python. Nonostante il trash dilagante, restiamo una civiltà.

Dovremmo essere fieri della nostra natura, e farcene una ragione: l’Italia è un Paese lento e risparmiatore, mentre le startup sono progetti veloci e spendaccioni. Con il Giappone e la Germania, siamo il Paese più vecchio al mondo con età media di 46 anni: negli USA è 38 e in Israele 30. Siamo il quartultimo Stato europeo per alfabetizzazione digitale, il 30% della popolazione non usa internet e il 40% dei dipendenti di aziende private (cioè, non le Poste) non usa correntemente il pacchetto Office (Word, Excel e Power Point, non Adobe Premiere o Matlab). Siamo fanalino di coda per i pagamenti digitali e si stima un l’11% del PIL da economia sommersa, irregolare o illegale che sia. Siamo un Paese ad alta infiltrazione mafiosa e altissima percezione di corruzione: cioè, pensiamo che per farcela bisogna essere ammanicati, più che bravi. I policy maker che devono dettare la linea, i burocrati che devono vidimare le pratiche, i dirigenti che devono allocare il budget, le imprese che devono investire in innovazione, i clienti che devono osare la novità non vengono dalla luna ma sono imbevuti di questa cultura, anzi ne sono parte. Questa è la nostra pasta, non importa cosa ci addestrino a raccontare negli elevator pitch e negli investor deck e tutti gli altri strumenti startappe: come si dice clientelarismo in inglese? Siamo l’anti startup sotto praticamente ogni parametro antropologico. Perchè chiedere a un società italiana, con un prodotto made in Italy, fatta da italiani in Italia, di conquistare il mondo? Perchè mettersi in ridicolo? Per conquistare il mondo bisogna stare negli USA o in Israele o a Londra, dove la società è costruita per la conquista e il futuro è una promessa di gloria.

Parlare di startup come se ne parla nel circuito startappe, cioè come se Milano fosse San Francisco e Roma Seattle, è una variante dell’esterofilia nostrana che fa solo male. Inculca nella traballante scena digitale italiana un sogno che non è alla nostra portata e che è in assoluto disaccordo con l’ethos nazionale: se il sogno americano è Steve Jobs, il sogno italiano è Checco Zalone. Ogni Paese ha un ethos che si riverbera nelle raccomandazioni dei genitori, negli indirizzi dati dai professori, nelle campagne elettorali, nei diritti civili, nelle agevolazioni fiscali e nella giustizia.

Staccarsi dal modello posticcio della Silicon Valley mette a nudo le tare provinciali di ciascuno di noi, e questo fa male, ma dall’altra è l’occasione di inventare l’impresa ad alto rischio all’italiana. Di retrovia, se vogliamo, ma anche di comunità e rispetto, di chilometro zero e di ricchezza diffusa, culturale, accessibile a tutti. Questa visione mi piace di più e non mi sembra una chimera, ma anzi nelle corde di un popolo tanto creativo quanto viziato dalle piccole gioie della vita. Ci sarebbe da lavorarci su, chissà che il circuito startappe non cominci a idolatrare Adriano Olivetti al posto di Jeff Bezos…