Anche a chi come me non s’interessa di cronaca nera, gli attentati degli ultimi giorni hanno un po’ guastato l’appetito. Te lo guastano i posti di blocco ad ogni angolo, con mitra in bella vista fuori dai camioncini blindati, gli elicotteri sempre in cielo come i palloni aerostatici che sorvegliano giorno e notte i quartieri arabi, le sirene e le luci blu che ti tagliano la strada agli incroci, i blocchi di cemento a proteggere le pensiline del tram da attentati “d’investimento”. Passando in bici, sudando in salita o volando in discesa, questo paesaggio da film d’azione mi scivola davanti agli occhi in un quadro surreale: cosa potrà mai succedere per giustificare un tale smobilitamento di forze? E invece succedono cose orribili qua e là per la città: accoltellamenti, investimenti, sparatorie, linciaggi. Questi però non li vedi in strada, ma li scopri dai telegiornali e dai discorsi concitati della gente al telefono: “Ne hanno ammazzati quattro, durante la preghiera!”. Pensi all’ultima volta che sei passato dal luogo dell’ultimo attentato: qualche giorno o qualche ora fa. E’ facile ed eccitante farsi suggestionare: “E se fossi…”. Ma le statistiche sono chiare: anche sommando i missili da Gaza, gli attentati non sono una minaccia più reale degli incidenti d’auto o degli infarti. Non è la probabilità di finirci dentro che spaventa, ma l’efferatezza: c’è un discreto numero di persone pronto a morire per infilare un cacciavite in pancia a uno sconosciuto, nella speranza che sia ebreo e che muoia dissanguato prima di arrivare in ospedale. Si sa, la polizia li ammazza sul luogo come cani: nella prassi non è previsto l’arresto per terrorismo, ma l’abbattimento immediato. A vedere i video di sorveglianza, fa quasi più paura la reazione dei soldati che degli attacchi stessi: esecuzioni a bruciapelo. Il ministro della sicurezza lo ha ufficialmente dichiarato: “La pena per il terrorista è la morte immediata”. Nessuno in sala gli ha fatto notare che ciò è contro la legge, pure quella israeliana.
Percepisco lo scatto di quello stesso interruttore che era scattato durante la crisi di Gaza, di paura e follia vendicativa senza una logica, senza un progetto, senza una riflessione, senza pietà. Ma questa volta, a Gerusalemme, la follia è attorno a noi, letteralmente. Giocando a pallavolo a Gan HaPaamon, un chilometro in linea d’aria dai quartieri arabi, gli elicotteri e i sommessi boom ci accompagnano ormai da un mese: non commentiamo, non chiediamo, non ci preoccupiamo. Per quanto ne rifuggiamo, a volte la realtà viene a prendere noi: qualche settimana fa, usciti dal campo per tornare a casa, la strada era invasa dalla polizia. Scena del crimine: c’era appena stato l’attentato omicida al centro Begin. Arrivato a casa, gli elicotteri non ci hanno dato tregua: alle 5 del mattino avevano già individuato e abbattuto il sospetto dell’omicidio, sul tetto di casa sua nel quartiere Abu Tor, a due vie di distanza da casa nostra. Lo sono andati a prendere la notte stessa, lui li ha sentiti arrivare ed è scappato sul tetto, ha sparato all’impazzata, poi l’elicottero lo ha mitragliato. Non hanno chiamato l’ambulanza e non hanno lasciato avvicinare nessuno, è morto dissanguato raggomitolato dietro il boiler dell’acqua calda. Pochi giorni dopo la polizia ha diramato l’ordine di abbattere casa sua, con tutta la palazzina di quattro piani: la faranno esplodere nei prossimi giorni e si aspetta guerriglia urbana. Così funziona qua: il sospetto viene di fatto condannato a morte senza processo, viene stanato e inseguito in un quartiere pieno zeppo di civili e lasciato agonizzare a termine di una sparatoria alla James Bond. Poi casa della sua famiglia, dei cugini o dei malcapitati vicini di casa viene fatta saltare. Il mandato di sgombero e demolizione non viene diramato da un tribunale, non viene giustificato in termini di giustizia o deterrenza nè davanti alla legge nè davanti all’opinione pubblica: è una prassi poliziesca, per così dire. Così è per ogni attentato, questo è il rito. Molto pochi israeliani lo sanno, ancora meno se ne interessano, praticamente nessuno lo condanna. Cos’è più efferato? L’atto folle di un singolo o l’esecuzione sommaria e la punizione collettiva di un sistema? “La pena deve guardare al bene futuro e non al male passato”, diceva quello nel ‘700. Qui tira di più Hammurabi.
La società israeliana, di cui parlo perchè è quella che conosco, non ha scampo. E’ irretita in un circolo diabolico per affossarla ed imbruttirla, e questa è la china che ha preso dal primo giorno dell’occupazione. Qualcuno lo scrive con gli stencil rossi sui muri di Gerusalemme: “Leibovitz zadak”, aveva ragione, e altri gli rispondono in blu “Kehane zadak”.
Tutto comincia con l’indifferenza di gomma di chi, come i più, non vuole aver grattacapi ma un modesto sheket, silenzio. Facciamo come se Gerusalemme fosse Roma o Parigi e Israele gli Stati Uniti: progresso e benessere, va tutto bene. Usciamo a teatro, mangiamo in raffinati ristoranti, suoniamo buona musica, facciamo ricerca, produciamo efficienza. Quel che succede dall’altra parte del Muro non è roba di cui si parla con piacere. Se ne parla da spacconi, degli scherzi che si facevano ai vecchietti arabi ai posto di blocco in lunghe e annoiate giornate di guardia a diciannove anni, o non se ne parla affatto. Non si parla di quei vecchi come di persone alla pari, neanche per scherzo. Non si parla dei diritti, sacrosanti e inviolabili per gli israeliani, inesistenti per una fetta di popolazione da qualche milione sotto il dominio militare israeliano: dei sudditi d’Israele, in Israele, non si parla mai. Delle loro sciagure, dell’ingiustizia della loro condizione e del loro terrore di perdere tutto, fino alla dignità, per il vezzo di un arrogante ragazzino in divisa.
Ma a volte, e con regolare ciclicità, i sudditi alzano la voce per fare i loro reclami, disturbando le attività di ordinaria civiltà dei cittadini israeliani che non essendo sudditi possono dedicarsi a costruire case, a farsi un’istruzione, a viaggiare, a leggere, a lavorare, a giocare, e con un discreto successo. I sudditi alzano la voce nel modo tipico di chi non studia, non viaggia, non legge, non lavora: violenza brutale e disorganizzata, sfoghi di rabbia illogici e ingiusti. Questo è il momento in cui gli israeliani aprono una finestrella su quel che accade al di là del Muro. E cosa vedono? Violenza contro civili, ma nella concitazione del momento vedono solo quello contro di loro. Non è un bello spettacolo, era meglio non vedere. D’altra parte, non puoi mica continuare a giocare come niente fosse quando i boom ti entrano in campo. In questo momento scatta l’interruttore: non siamo più a Roma o Parigi, negli Stati Uniti o in Germania, ma siamo improvvisamente nel Far West coi predoni alle porte, impegnati in prima fila contro il terrorismo islamico intriso di antisemitismo, tutti uniti a respingere i nemici che ci odiano chissà perchè. Compaiono i blocchi di cemento in strada, i mitra, gli elicotteri, i Presidenti del Consiglio a fare discorsi da Armageddon, le esecuzioni sommarie e le punizioni collettive.
Io prendo l’israeliano in buona fede: chissà perchè? – si chiede – ci odiano davvero tutti…e sempre ci odieranno! Dal suo punto di vista tutto ciò non ha una logica: stava bevendo un pacifico tè quando il ristorante è saltato in aria. Perchè la violenza rientri in una logica gli manca un tassello del mosaico, quel tassello che si chiama sheket: in quel breve periodo di tranquillità in cui sorseggiava il suo tè, al di là del Muro l’inferno è continuato a sua insaputa. Nessuno gli ha raccontato di come se la passavano i sudditi, quanta merda ingoiavano e quanto odio accumulavano, quanta efferatezza elucubravano e quanta vendetta desideravano. Prendi Gaza: è stata la parola più importante per un’estate, e adesso è pressochè sparita dalla bocca degli israeliani. Nessuno si preoccupa di quel che accade laggiù: tutti si accontentano di godersi il meritato sheket. Potrebbero essere in corso orribili soprusi ad opera di forze oscure, e magari anche d’Israele, che porteranno inevitabilmente ad un ritorno di fiamma di Hamas e quindi ad un’imminente fine dello sheket, e l’israeliano non ne ha la minima idea. Come se non fosse più un suo problema, come se non lo fosse mai stato.
Una volta arrivati ai ferri corti, la risposta dei leader israeliani è il pugno di ferro contro questa “incomprensibile violenza”, quando pure sanno benissimo cosa l’abbia innescata. La situazione d’emergenza viene gestita con le misure holliwoodiane già descritte, come se si potesse prevenire ogni modalità di attacco. Speranza illusoria, quando ormai il nemico si è ridotto a fare gli attentati con cacciaviti e furgoncini. Ieri si è discusso se mettere posti di blocco permanenti ai villaggi arabi di Gerusalemme, mentre per ora sono solo temporanei: nei giorni caldi li chiudono tutti dentro, semplicemente. Nessuno entra e nessuno esce finchè non si calmano le acque e torna lo sheket. Anche ieri non si è discusso della giustizia di tali misure, cioè di presunzione d’innocenza, libertà di movimento e punizione collettiva, ma della loro efficacia: gli arabi lavorano ovunque quindi, alla lunga, bisognerà lasciarli uscire, quindi se vorranno potranno investire e accoltellare a piacimento. Come fare? Pare che la sicurezza israeliana si sia scontrata col suo limite: palloni aerostatici, intelligence e posti di blocco possono fermare le bombe e forse le pistole, ma non il cacciavite di un muratore e la chiave inglese di un idraulico. Se queste sono le armi della terza intifada, l’unico modo per tenerle fuori dalla portata di ebrei è tenere gli arabi fuori dalla portata degli ebrei. Così è in area C in West Bank, ma estendere il sistema anche solo a Gerusalemme è un impegno a lungo termine, non una misura d’emergenza. Per iniziare, hanno messo sotto scorta gli ortodossi che hanno recentemente rubato le case di arabi a Silwan e Sheik Jarrah: ora girano per il quartiere arabo con la guardia del corpo armata, tutto a spese dei contribuenti siano essi fondamentalisti religiosi, atei o arabi. La vera domanda è quanto terrore possano innescare cacciaviti e chiavi inglesi…ma questo è in larga parte fuori dal controllo dei governanti.
Quel che queste misure comportano sicuramente, e così chiudiamo l’anello diabolico, è l’ulteriore imbruttimento della sicurezza, politica, società e psicologia israeliana: ancor più violazioni, più soprusi, più umiliazioni sui sudditi, questa volta non solo come deterrente collettivo ma anche come vendetta privata. Quello che mi piacerebbe mostrare agli israeliani è come il terrorismo, se così gestito, degradi moralmente tanto il carnefice quanto la vittima: ciò che era sbagliato fare ai palestinesi prima degli attacchi diventa giusto dopo, in un circolo self-reinforcing di oppressione-terrore-più oppressione. Così, giro dopo giro, in quarant’anni l’occupazione ha reso i sudditi bestie in gabbia e i governanti gelidi aguzzini, incapaci di commuoversi per la sofferenza che infliggono. Quelli tra loro che se ne accorgono inorridiscono, si crucciano e spesso scappano dal Paese verso l’Europa e gli Stati Uniti, il vero sheket.
Come sempre, cui bono? Chi guadagna da questo circolo autodistruttivo? Come sempre, può l’ignoranza essere una giustificazione? Si può essere colpevoli senza essere cattivi? E come sempre, non è tanto quello che vedo che mi turba, quanto quello che non vedo: non vedo un limite a quel che Israele sarebbe disposto a fare per conservare una parvenza di normalità, l’agognato sheket. E il non porre un limite ai mezzi legittimi per ottenere il fine è quel che contraddistingue i terroristi, non gli Stati di diritto.