Due ulivi e una colomba

Atto I

Appartamento in affitto in Abu Tor: tre camere da letto, due bagni, salone con terrazzo, giardino, parcheggio privato, a due passi dalla vecchia stazione degli inglesi: 5500 shekel al mese. Le foto dell’annuncio mostrano una vista mozzafiato sulla foresta di pini marittimi e cipressi bruscamente interrotta dalle colline desertiche solcate dai sentieri dei pastori, là dove le piogge finiscono. Siamo in centro Gerusalemme, ma affacciati su Gerusalemme Est, l’altra Gerusalemme. La sera in cui firmiamo il contratto siamo eccitati per aver fatto l’affare dell’anno, e così mi precipito in giardino ad annaffiare le rose, i limoni e gli aranci assetati dal sole di luglio. I due giovani ulivi, invece, sembrano trovarsi a loro agio nell’arsura estiva. E’ il crepuscolo, le luci gialle delle case si perdono nella valle, le luci verdi dei minareti svettano da dietro il Muro che fa una larga ansa dritto a est, sullo sfondo delle alture giordane. Alla luce della sera di ora che scrivo, il bagliore rosso dei deserti mi riporta a malinconicamente a Yotvata, fuori dal tempo e dallo spazio.

Sto quindi annaffiando il primo ulivo, quando Gaia si affaccia e mi dice: “Lorenzo, vieni. Subito”. E’ tesa, è successo qualcosa. La seguo in corridoio, nell’androne, usciamo. Davanti a casa c’è un crocchio di ragazzi, parlano in arabo con Majd, il ragazzo di Gaia. Arturo, in piedi in stato di shock, balbetta che qualcuno ha appena provato a bruciare la macchina di Majd. Il cerchione è affumicato, ma niente danni seri.

“E’ passato un tizio in macchina, ma non sanno chi sia – ci traduce Majd – ha lanciato una bottiglia di benzina e ha proseguito in giù verso il quartiere. Hanno provato a intervenire, ma meno male che sono uscito per prendere il telefono che avevo dimenticato in macchina!” E indica il davanzale di fronte, dove un vecchio arabo ben vestito sta arrotolando una misera canna dell’acqua: non una goccia è arrivata alla macchina di Majd. “Sono ragazzini, lo fanno sempre – continua la traduzione del racconto dei tre ragazzi arabi – vengono giù da Silwan, il villaggio povero. Sai, per tutto il casino di Gaza…c’è tensione. Voi siete nell’ultimo palazzo ebraico prima del quartiere arabo, ma qui noi non voglino problemi, dicono, sono quelli del quartiere basso. Son ragazzi, niente di organizzato”.
Gaia è isterica, gira attorno gridando che ammazzerà il padrone di casa: “E quello stronzo non ci ha detto niente! Abitiamo in un insediamento e neanche ce lo dice! Bastardo! Qui ci fanno la gola! Io lo uccido! Lorenzo, chiamalo subito e digli di venire qui, immediatamente che annulliamo il contratto!”. E Arturo rincara, la voce fioca e lo sugardo perso nel vuoto: “Lo sapevo che c’era l’inculata…una casa così…5500 al mese…non era possibile…ci doveva essere l’inculata…”

Inanto Majd continua a il discorso, Gaia ci traduce per quel che può: “…gli sta dicendo che viene da Issawiya, che siamo gente a posto, italiani…che non siamo ebrei”. Arturo fa per aprire bocca, poi tace: lui è ebreo. Lascio i discorsi concitati e le grida di sfogo e vado a citofonare alla vicina. Mi presento, sono il nuovo vicino…da 40 minuti. La signora è francese, minuta, fragile: “E’ sempre così! Tirano pietre, insultano, tirano vernice, vieni a vedere!”. E mi porta fuori: sulla facciata in pietra bianca in effetti c’è una strisciata di vernice nera, proprio sopra l’ingresso. “Andatevene subito, annullate il contratto. I miei amici non mi vengono a trovare qui, hanno paura, io esco di casa con la testa bassa e a passo veloce. Io me ne vado tra un mese, non si può vivere così.”

Salgo le scale verso gli inquilini del piano di sopra, e invece mi sento sprofondare sempre più in basso nello sconforto. Dlin-dlon….apre una signorotta in carne, truccata con capello tinto biondo, scura di carnagione. Sorride, è una pimpante ebrea mizrahit, di origine orientale, penso marocchina. Non mi fa neanche aprir bocca, attacca lei: “Quindi siete i nuovi arrivati, benvenuti! Quanti siete? Ah, tutti ragazzi giovani, che bello! Per me siete come figli: per qualsiasi, qualsiasi cosa venite su. Sai, ho due figli ma ormai sono fuori casa…e come va? Affittate da Aaron? Tutto bene?” Al che faccio una smorfia d’indecisione e le spiego l’episodio: “Quindi ora stiamo cercando di capire coi vicini…”

“Lascia perdere i vicini – m’interrompe – sono dei loro. Cioè, non sono loro i responsabili, ma neanche si espongono più di tanto: non vedono mai niente, non sanno mai niente. In fondo, sono anche loro arabi. Ma non ti preoccupare, capara, non è niente, sciocchezze! Qualche pietra, della vernice. E’ per via della guerra a Gaza, passa tutto. Io è da venticinque anni che abito qua, ho cresciuto qui i miei figli ed è un posto magnifico.  Danni alle cose, poca roba. Paga l’assicurazione.”
“E quanto alle…persone?”
“Assolutamente tranquillo. Tu esci di casa, i ragazzini ti diranno Shalom-shalom e vorranno attaccar bottone, grideranno qualcosa, tu rispondi Salam Alekum e vai dritto, neussun problema. Ma non dare confidenza….”
La ringrazio e saluto. “E per qualsiasi cosa, io sono qui per voi!”

Torno giù, la discussione imperversa sul perchè e il per come, si sono aggiunti anche i ragazzi del monolocale con giardino sotto il nostro e dicono che per loro non ci si abitua, sono scaramucce. Infine Majd congeda i tre ragazzotti, che gli assicurano di mettere in giro la voce che “siamo gente a posto”. Cioè, abbiamo la protezione di un arabo, perdipiù di uno quartieri più duri di Gerusalemme Est. Rientriamo in casa, completamente vuota perchè ancora da arredare, ci sediamo sul pavimento di marmo a pensare cosa fare.
Arturo propone di costringere Aaron ad aggiungere una clausola di uscita dal contratto con due mesi di anticipo, in caso di problemi di sicurezza. Gaia è incontenibile, mi obbliga a chiamare Aaron di casa che non ne vuole sapere di venire e ci dice che è tutto a posto, che non c’è da preoccuparci. Dice che la protezione di Majd non basta, che il problema per gli arabi è il palazzo, non i coinquilini. Majd ci spiega che suo cugino è il mukhtar di Issawiya, tipo un capo banda che organizza gli atti vandalici di resistenza politica, e che gli chiederà di sistemare la questione col mukhtar locale. “Ma se scoppia la terza Intifada, voi siete in prima linea”, aggiunge.

Atto II

Sono passate due settimane, con la zia Lula e Simo stiamo recandoci a casa, per passarci la prima notte. Portiamo con noi la prima ondata di trasloco dalla casa vecchia. Saliamo a sinistra da Derech Hebron per Rehov HaGikhon, passiamo il ricco quartiere ebraico residenza di illustri inviati ONU e EU, e superato lo spiazzo di collina brulla con quattro ulivi selvatici arriviamo al parcheggio privato della nostra palazzina: la palizzata in legno del cancello automatico in stile fortino nella prateria non sembra più fuori luogo. Saranno 30 metri di distanza dal resto del quartiere, ma bastano a cambiare nazione: di fianco a noi e davanti a perdita d’occhio fino al deserto sono solo boiler dell’acqua neri sui tetti delle case cubiche, minareti, insegne in arabo, bambini che giocano in strada, macchine scassate, sporco, donne velate. Visto lo scollinamento, anche il muezzin si sente più forte. Accecati dallo splendore della casa, né io né Arturo, militante di sinistra, né Gaia, lavoratrice in progetti di sviluppo per la Palestina, ci eravamo accorti di trovarci dall’altra parte. Facciamo per entrare in casa, e ci troviamo davanti al portone una macchina completamente carbonizzata. I vetri dell’ingresso infranti, altra vernice nera sui muri. La zia mi prende e mi dice che non posso abitare qua, che non me lo permette. Simone ride per sdrammatizzare. Stiamo sistemando gli scatoloni in casa quando sentiamo la risata dell’inquilina di sopra: è sul piazzale davanti a casa in vestaglia, sempre truccata, e scherza sull’accaduto con il meccanico che è venuto col carro attrezzi a rimuovere quel che resta della macchina: “Ma sì dai, tanto era di mio marito! – e ride – L’assicurazione paga, cik-ciak ed abbiamo la macchina nuova.” Mi saluta e sempre ridendo, in vestaglia davanti al quartiere arabo che la osserva da dietro le tende di casa, aggiunge gridando: “Loro la bruciano? E io ne ricevo una nuova!”. La zia anche si mette a ridere e commenta: “Che donna, che nervi. Al posto di chiamare vendetta, ridi! Perchè far la guerra?” Idole indiscusse della giornata, entrambe. Io e Simone, nel dubbio, ridiamo. Stiamo sistemandoci per la serata, quando dal terrazzo vediamo ragazzini avvolti in kefiah lanciare pietre in Rehov Naomi, probabilmente verso una camionetta di soldati. Botti di petardi, insulti in arabo, cassonetti bruciati. Nessuna contro offensiva. Solo più tardi, calmatesi le acque, arriva un camion dei pompieri a spegnere tutto.
Nei giorni successivi cambiano i vetri rotti della facciata e vengono con la pistola d’acqua a pressione a lavare la vernice dal muro e la plastica bruciata dal piazzale, l’estetica rinorna alla normalità. La vicina mi confessa che fino a tanto non si erano mai spinti, e che adesso sia i soldati che un’agenzia di sicurezza privata fanno le ronde, finchè non si calmano le acque. A Gaza la guerra imperversa, e per non rischiare noi parcheggiamo la macchina all’inizio della via.

Atto III

E’ già da un mese che ci siamo trasferiti nella casa dei sogni, e per ora non abbiamo avuto incubi. L’abbiamo arredata, riempita di cose e persone, ed è già nostra. Ci siamo assicurati di non essere un insediamento: il confine del ’48 passava dopo il nostro terrazzo, letteralmente. Abbiamo rivisto i ragazzi arabi del vicinato, parlano un ottimo ebraico e lavorano in Israele, abbiamo una partitella di calcio in sospeso nel campetto del quartiere. Abbiamo compreso l’inusuale  calore dei vicini, tutti, come naturale spirito di coesione per affrontare il senso di assedio: se loro son dei loro, noi siamo dei nostri, quindi veniamoci incontro. Il muezzin ritma le nostre giornate, alla sera i pastori riportano il gregge all’ovile nella collina di fronte. I petardi quotidiani di ragazzini annoiati fanno scappare le colombe che hanno nidificato sul condizionatore in cima al palazzo, e che ci sgagazzano sul terrazzo. Il venerdì, sono veri e propri fuochi d’artificio: non avendo più kalashnikov, così gli arabi festeggiano i matrimoni. Ogni tanto gruppi di coloni vagano per le vie del villaggio arabo scortati dall’esercito, pregano a squarciagola di tanto in tanto lanciando insulti. Per il loro passaggio bloccano il traffico e nessuno può scendere in strada neanche a piedi.

Aaron vuole vendere casa, e ogni tanto piomba qui con potenziali acquirenti. Recentemente una francese si è innamorata del posto e noi, a malincuore, la capiamo: se la compra, noi abbiamo le ore contate. E’ venuta a trovarci senza Aaron, ma portandosi dietro la figlia diciannovenne, che è soldato. “Parliamo dugri, schietto – ci fa – c’è da aver paura?” Siamo in giardino al crepuscolo, il muezzin canta e le stelle iniziano a comparire, la calma avvolge ogni cosa in un vento leggero. Io e Arturo ci scambiamo uno sguardo, indecisi sulla strategia. Finisce che le diciamo la verità, a questa piccola francese come noi volenterosa di convivenza e pace. “Il quartiere è difficile, la situazione non è stabile. Siamo un sismografo: quando qualcosa si muove in profondità, noi sentiamo la scossa, forte e chiara. Ora è tutto tranquillo, perfetto, ma domani potrebbe cambiare.” In cuor nostro, speriamo che i bambini sparino qualche botto e lancino qualche grido adesso, e invece tutto continua a tacere. Le raccontiamo degli episodi passati, condividiamo con lei le nostre preoccupazioni: “Abbiamo fatto aggiungere una clausola di recessione dal contratto in caso di emergenza. Per noi è facile stare qui, siamo affittuari. E non abbiamo figli…che torneranno a casa in divisa.”
“E’ un dilemma – conclude lei – Se ci arrivassero gli accordi di pace, questa casa triplicherebbe il proprio valore. Ma se la politica continua su questa china…”

Tornati in casa scherziamo con amici sulla visita della francese, e su come non farle comprare casa. “Vedi, dovevamo pagare qualche ragazzino per bruciare un cassonetto mentre lei era qui!” Ridiamo tutti, poi improvvisamente si tace, pensierosi: ci vuole davvero così poco a fare la guerra? La risposta è univocamente sì, basta così poco perchè funziona: la paura, il rischio, l’odio fanno anche il prezzo delle case, e così orientano le scelte razionali delle persone. Con una battuta, noi pacifisti ci rendiamo conto di essere in condizione di avere grande interesse nella violenza. Manipolando la paura manipoleremmo le scelte di terzi, in nostro favore. E cosa ci vuole? Per 50 shekel un ragazzino arabo dei quartieri bassi ti brucia ben altro che un cassonetto.

Guardandoti intorno e vedendo le assurde piaghe del conflitto, lasci per un attimo la retorica narrativa nazionalista israeliana e imbracci il sano egoismo razionale italiano, e finalmente molte cose assumono un senso, una profilo: il capillare conflitto d’interessi di una società, una politica ed una economia troppo abituate a fare i conti con la guerra, a metterla come voce di bilancio. Chiunque può trovarsi ad avere interessi diretti nel conflitto, e chiunque può generarlo. Se fossi un costruttore di palizzate in legno per parcheggi privati, se fossi il direttore di un’agenzia di sicurezza privata, se fossi un politico in cerca di coesione sociale, se fossi un palazzinaro delle super protette colonie ebraiche in Palestina, se fossi uno studente che non vuole esser buttato fuori di casa, quanto mi farebbe comodo la strategia della tensione? Un cassonetto bruciato val ben una casa. E un arresto? Uno sfratto? Un ordine di sparare ad altezza uomo? Un rapimento di ragazzini innocenti? Il meccanismo è micidiale. Questa è ora la dimensione della mia quotidianità, lo sperare nella tensione controllata, il rischiare col fuoco prima di tutto con la tua integrità, sempre sul baratro del compromesso: un cassonetto sì, una coltellata no. Questo è vero per me, affacciato sul confine con Gerusalemme Est, ed è vero, troppo vero, per il sionismo contemporaneo che è troppo capace di manipolare la tensione. Come si può resistere?

Post Scriptum

Atto IV

Ieri Aaron è venuto a risquotere l’affitto mensile, accompagnato dalla francese con marito. Hanno fatto il giro per la casa, guardato le stanza. A un certo punto cedo e la butto lì: “Aaron, parliamo di sicurezza. Venerdì ci sono stati scontri in città vecchia, i soldati hanno ucciso un ragazzino palestinese di 13 anni. Lo stesso giorno ci hanno tirato pietre sul terrazzo.” E li porto a vedere i sassi appositamente lasciati sul posto in cui sono atterrati, sulle cacche delle colombe. “Magari sono caduti dal tetto…” azzarda Aaron. “Sono arrivati anche in giardino, e qui sulle inferriate c’è il segno di dove hanno colpito. Sono arrivati da Rehov Naomi”. Tutti tacciono, i due borbottano qualcosa in francese. Al chè, rompendo il silenzio, Aaron li porta a vedere il piano di sotto.

Non abbiamo pagato nessuno per lanciarci le pietre, ma avremmo potuto farlo.
Non abbiamo messo noi ad arte le pietre sul terrazzo e in giardino, ma avremmo potuto farlo.
Abbiamo solo fatto notare l’accaduto, ed ha funzionato. Forse avremmo potuto semplicemente raccontarlo senza lasciare le prove, ma questo avrebbe coinvolto la nostra credibilità, come quando leggiamo le notizie su internet o ascoltiamo il tg. Quel che mi turba è che in cuor nostro abbiamo gioito del lancio di pietre: è stato un compromesso ragionevole. Quindi mi chiedo, se le pietre avessero rotto i vetri, sarebbe stato ancora un compromesso ragionevole? Fino a dove saremmo capace di spingere i mezzi, pur di ottenere il nostro fine? Non lo so, e questo fa paura.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...