“Achi, ci verresti a vivere un mese in natura?”. Sarà stato un mesetto fa, in vista delle imminenti e lunghissime vacanze di Pasqua: tutto aprile a casa dagli studi! Solo recentemente, dall’amaca fuori dalla nostra tenda, David mi ha confessato che non si aspettava che avrei detto di sì. Non ci credeva neanche lui, in realtà, che si potesse fare così facilmente. Che si potesse continuare la vita di studenti e lavoratori da una zula nel bosco.
Il nostro bosco sono cespugli, carrube e ulivi arruffati gli uni negli altri su un declivio che volge ad ovest, oltre le mura del monastero che delimita la fine di Ein Karem. Ad accompagnare il sentiero fino all’ultima svolta sulle terrazze in pietra a secco ci sono le cupole della chiesetta russa, come cipolle dorate alla luce del tardo pomeriggio; nella valle a sinistra si snoda una stradina sterrata che collega la fontana di Maria, dove si dice abbia fatto sosta con Giuseppe di strada per Gerusalemme, ora racchiusa entro una piccola moschea, alle sorgenti naturali di Ein Hendak. Da qualche parte, tra questi ulivi, si narra sia nato Giovanni Battista. Ma oggi non ci si fa molto caso. Ein Karem è piuttosto un borgo toscano trapiantato ai piedi della salita verso i monti di Gerusalemme: ristoranti di un rustico ricercato, cioccolaterie pregiate, gallerie d’arte fanno dell’incrocio principale del paese un crocevia per turisti, coppie di trentenni, famiglie bene, comitive di pellegrini. E hippies. Ein Karem è la piccola, graziosa capitale di quelli che non vogliono stare al ritmo pressante della città, o che se non altro lo reinterpretano. Fanno feste di musica etnica, laboratori di contact dancing in cui si balla appoggiandosi e arrampicandosi gli uni sui corpi degli altri, eventi di scambio di vestiti, mercatini di saponi e pietroline, falò e balli sulle terrazze, settimanali tour guidati di “raccolta” in cui s’imparano le piante curative e le fonti di cibo che i monti di Giuda offrono al viandante. Ma io e David tutto questo non lo sapevamo. Un mesetto fa lo portai sulle terrazze sulla scorta del tenue ricordo di un hippy yemenita che sbuca dal bosco ai piedi del monastero, in una fredda giornata di dicembre con la mamma e la Sara, e delle sue parole al termine di una festa africana all’Abraham Hostel con la Cippa e la Lara, l’estate prima: “Dovete venire ad Ein Karem, siamo tutti giovani e felici. Cercate le terasot”. Lui non sarà proprio giovane, ma felice mi pare proprio di sì. Nè a dicembre mi riconobbe, né alla festa di qualche giorno fa in cui di nuovo sbucò dal nulla seduto di fianco a me, la pelle scura scavata dai riflessi delle fiamme del falò. Ironico pensare che, in un certo senso, stavolta era lui ospite mio.
Al nostro primo sopralluogo ci tenemmo sul versante sud della collina, dirimpettaio del mostruoso ospedale Hadassa, ed arrivammo senza vederle, complici gli ulivi e i cespugli, a pochi passi dalle due casette in pietra e fango dove Sharon, Ilana e Davidi e i loro bambini vivono . Li conoscemmo solo al secondo sopralluogo, quando di strada verso la “valle degli yemeniti” David riconobbe sul sentiero un cliente della sera prima all’Abraham Hostel, dove lavora: “Cercate dove stabilizzarvi in natura? Venite con me, ho da presentarvi delle persone che possono consigliarvi”. Sharon è una signora di 50 anni suonati, non ha famiglia e abita sulle terrazze da otto anni. E’ una massaggiatrice e spesso riceve i clienti a casa…o meglio, a capanna. E’ un monolocale la cui parete a monte è il monte, un ininterrotto costolone di roccia bianca; il pavimento è in una ghiaia di morbidi ciottoli, gli scaffali e gli armadi sono in un legno massiccio impregnato del calore e del fumo della piccola stufa in ghisa che le permette di sopravvivere al gelo invernale. Il letto è grande e sommerso di coperte e cuscini spumosi, i vestiti sono variopinti. Furadis e Kaia, i suoi due muscolosissimi cani, hanno premura di segnalarci che siamo nel loro territorio, ringhiando e girandoci attorno insospettiti. Durante il nostro primo sopralluogo ci avevano scovato e seguito lungo tutto il sentiero, giocando e saltandosi addosso l’uno all’altro senza sosta. Avevo pensato fossero randagi, e che fossero puliti grazie al clima secco di Gerusalemme: che ingenuo.
Ilana e Davidi hanno sostituito il fratello di Sharon nella seconda casetta, appena otto mesi fa. La loro è una vecchia casa araba, squadrata e solida, a cui è stato aggiunto un vano cucina in pietra e fango. Una cucina da ostello, piena di stoviglie e pentolame; gli armadi e le mensole strabordano di spezie ed erbette raccolte qui intorno; uno scompartimento è interamente dedicato agli olii aromatizzati: zatar, pepe, avocado sono quelli che ho provato finora; elementi tipici del panorama culinario sono i due cani sdraiati in mezzo alla stanza, in cerca di refrigerio dalla calura che si fa già sentire.
Davidi è un ingegnere informatico ed Ilana una designer d’interni, ma non li ho mai visti lavorare. Non in questi settori, se non altro: permacultura, cucina etnica, organizzazione di ritrovi con amici sono le attività che attraversano le loro giornate, brevi intermezzi nel giocare coi bellissimi e biondissimi figlioli, Ruth di un anno e mezzo e Noga di tre. Ho notato che non danno mai, ma proprio mai, ordini ai bambini: né per mangiare, né per andare a dormire, né per lavarsi, né per smettere di far casino, non ci sono imperativi ma punti interrogativi e tanto contatto fisico. I bambini giocano col cibo, se lo impiastrano sulla faccia disegnando figure, si arrampicano sui cani o su di noi mentre leggiamo o riposiamo. Non sembrano selvaggi, solo liberi. Lo stesso vale per le altre famiglie che vengono a trovarci, per questo credo sia un modello educativo strutturato e condiviso, e non una disposizione caratteriale.
Come si mantengano, non ne ho idea. Pagano un affitto simbolico ad un signore che “sostiene di essere il proprietario della terra”, ma il comune di Ein Karem la pensa diversamente e gli ha fatto causa, ancora in corso. Pagano elettricità e acqua, che è una grossa voce di bilancio vista l’irrigazione della serra e del piccolo orto. Io e David, la tedesca Clara e l’israeliano Meir, dai nostri accampamenti sulle terrazze, scendiamo alle case per elettricità, internet acqua e cibo in cambio di lavoretti non meglio specificati. Sto iniziando a capire che nella mentalità hippy le scadenze e gli impegni non vanno molto di moda: “ci pensiamo, poi ci sistemiamo a conguaglio”. Nell’attesa che ci dessero qualche mansione, io e David abbiamo ripulito la nostra terrazza, costruito una doccia e dei bagni organici (altresì detti “cacca-in-un-secchio”), piantato pomodori, meloni, angurie, insalata e peperoni, iniziato a costruire una zula per ospiti ed eventi. Ilana e Davidi apprezzano e si complimentano, ma non chiedono e non richiedono: domani è un altro giorno…vuoi un the?
Mi sveglio la mattina col cinguettio degli uccellini attorno alla mia tenda, vado a dormire la notte con la luna alta nel cielo sulle foreste ad ovest, spezzate dalle bolle luminose dei moshav e dei kibbutz, e gli ululati dei tanim, piccoli lupi che abbondano in queste valli. Mangio vegetariano, per il semplice fatto che la cucina è kasher quindi non ci entra carne, e soprattutto non mangio pane perchè è Pasqua, quindi niente lievito. E questo mi fa soffrire. Studio sul computer o sui fogli che mi sono portato, e ogni giorno bevo un caffè con qualcuno che viene a trovarmi. Gioco coi cani, gioco coi bambini. Quando voglio sgranchirmi faccio un po’ di giocoleria e qualche verticale, vesto vestiti larghi e comodi. Non devo pensare a fare la spesa e a cucinare, a fare la lavatrice e prendere l’autobus. Ho tantissimo tempo. Giro scalzo tutto il giorno, sui sentieri e sui cardi, e sui piedi mi si è fatta la suola come nelle estati di quando ero piccolo in spiaggia, dieci ore al giorno sulle pietre roventi. Sembro un hippy, ma è solo apparenza. Il fatto di avere improvvisamente tanto tempo non gli ha tolto significato: la giornata non scorre in attesa della successiva, ma continua i progetti di quella precedente. Ieri in due sessioni di studio ho tirato fuori un capitolo del progetto di filosofia, con tanto di note bibliografiche: un lavoro pulito, senza correzioni e riformulazioni, un’esposizione lineare di pensieri complessi. Sono piuttosto un monaco: lavoro tanto, sulla terra e sul computer, e prego a modo mio, pensando alle persone a cui non penso abbastanza nel ritmo normale di vita, e augurando loro quello che credo sia il loro meglio. Se qualcuno da Lassù vuole ascoltare, faccia pure.
Non potrò resistere a lungo quaggiù. Per ora ho affittato la mia camera in centro solo per il mese di aprile, e credo che non prolungherò. Non è questione di distanze, la città è sorprendentemente vicina: meno di mezzora tra autostop e tram. E’ questione di stimoli, qua mancano. Manca la civilità e il rumore, l’uscire di casa ed essere nel mercato, gli incontri casuali, i significati che si accavallano gli uni sugli altri. La natura mi piace perchè può essere solo contemplata e non interpretata: il carrubbo che sostiene la casetta sull’albero di Clara non vuole dirmi niente, proprio niente. Io lo so, e così non mi sforzo di capirlo. Semplicemente ci passo sotto e lo ammiro, perchè è maestoso. Al contrario, ogni cosa che sento o vedo in città, e in particolare a Gerusalemme, vuole mandarmi un messaggio; ogni scritta e ogni vestito è simbolo di qualcos’altro, che cerca di farsi capire in ogni modo, di catturare la mia attenzione almeno per un attimo. Nulla è come sembra, in città. In natura invece tutto è solo come sembra: non solo vedo quello che Furadis e Kaia vedono, ma capisco quello che Furadis e Kaia capiscono.
Un uccellino fischietta, un lupo ha ululato, le foglie frusciano, la terra è calda, una formica trascina un semino. Sia per me che per i cani.