Viaggio su un blog di seconda classe

A due mesi suonati dal ritorno non so ancora rispondere a tutte le domande che mi vengono rivolte. Non so svelare tutte le curiosità, non so raccontare tutte le abitudini, non sono stato in tutti i luoghi di cui mi viene chiesto. In un anno, peraltro vissuto prevalentemente tra due kibbutz, non ho che iniziato a scalfire la superficie dell’universo israeliano. Anche qui, dalla distanza, continuo a scoprire su internet cose che non ho scoperto nel mio soggiorno: numeri, nomi, eventi, storie e ogni sorta di informazione di dominio pubblico. Che poi, nella mia mente, esse vengano immediatamente ancorate ad odori, episodi, pensieri, paesaggi del mio vissuto privato è un fatto del tutto contingente: letteralmente chiunque può accedere a questi dati, anche coloro che non sono stati un anno in kibbutz. E quand’anche qualcuno fosse stato un anno in kibbutz, o un anno proprio nei miei due kibbutz, o questo stesso anno in quei due kibbutz, o addirittura fosse anche lui italiano e avesse anche lui studiato tre anni filosofia alla Statale di Milano, comunque le esperienze che questo mio sosia assocerebbe alle informazioni di dominio pubblico non sarebbero quelle che vi associo io. Perchè sono andato, dunque, se quel “di più” che ho scoperto rispetto al dominio delle informazioni pubbliche non è comunicabile? E peggio ancora, se sono così impreparato anche sulle informazioni di dominio pubblico: un discreto studente di scienze politiche ne sa più di me quanto alle questioni di Stato, un musicista ne sa più di me quanto alla musica popolare ebraica, un religioso ne sa più di me quanto a Testi Sacri, un etnografo ne sa di più di me quanto ad usi e costumi locali. Io ne so pochissimo, di tutto.

Da una parte, mi faccio il cruccio di non aver investigato meglio, di non aver interrogato di più, di non aver scavato più a fondo, di non aver verificato i dati con più attenzione. Come giornalista, nel senso tecnico del termine, sono stato scadente.

Dall’altra, so bene cosa ho fatto per un anno: non ho fatto il giornalista. Ho fatto il lavoratore, lo studente e l’amico. Ho primariamente accumulato esperienze, non dati. E dal momento che le esperienze vissute in prima persona sono così difficilmente comunicabili, se c’è qualcosa che ho guadagnato (o perduto), questo qualcosa è un fatto privato che tocca principalmente me. Non mi sono trovato nella condizione di giornalista semplicemente perchè non avevo intenzione di esserlo. Non ho trascorso mesi con oggetti di studio, ma con compagni di vita. Delle mie riflessioni, alcune pubblicate su questo blog, nessuno laggiù ne era a conoscenza.

Ridimensiono il mio cruccio: come avrei potuto vivere da giornalista così a lungo, da solo? I giornalisti di professione se non altro hanno il cameraman, la troupe, i colleghi con cui essere persone, e non professioni. Come avrei potuto intervistare i miei compagni di stanza, torchiare i miei amici soldati, inchiodare ad un questionario i miei colleghi di lavoro e tutti quelli che invece, non avendoli intervistati, chiamo ‘amici’? Ho la ferma convinzione che se mi fossi posto come giornalista avrei ricevuto matricole, al posto che amici; un archivio, al posto che una comunità. Sarei stato sicuramente spinto a margine della vita, mi sarei sicuramente posto come un esterno e avrei preteso di capire tutto dall’alto, precludendomi la possibilità di scoprire come si vede dal basso. Eppure dall’alto, si sa, si vede di più: avrei raccolto molti più dati, quantitativamente parlando.

Invece ho fatto la spia. Nell’ombra della mia stanza, nell’angolo panoramico sulle rocce di Yotvata o sulla panchina al bordo delle vasche dei pesci a Maagan Michael, ho trascritto di nascosto i miei pensieri e le mie esperienze su e con i miei amici, guardandomi bene dallo sguardo dei miei amici. Me ne vergogno? Un pochino, proporzionalmente alla diffusione che il mio spifferaggio ha avuto. Di certo non potrei sostenere lo sguardo di questi amici se si fossero imbattuti in spezzoni della loro vita esposti in vetrina in una libreria o pubblicati a puntate su un giornale online.

Ora che ho ripreso a documentarmi dalla distanza, però, mi prendo le mie soddisfazioni. Vedo i venti di guerra in Siria e leggo gli articoli su Haaretz di com’è la situazione in Israele, ma per quanto possa leggere nulla mi renderà l’immagine, che immediatamente associo a questi dati, degli uomini del kibbutz che si presentano a colazione in uniforme col mitra, legato coi cordini colorati. Era novembre, in occasione dell’ultima crisi missilistica con Gaza. Lavoravo alla lavapiatti con Juan, sentivamo musica latino-americana, in sala macchine c’era il solito profumo di cibo incrostato. Fuori infuriava il diluvio e i bambini ballavano nelle pozzanghere, i padri li guardavano ridendo da sotto la tettoia, aspettando il bus che li avrebbe portati alla base militare. A questo giro, da qua, mi sto perdendo qualcosa. La gran quantità di dati e di riflessioni raccolti dai giornalisti veri in interviste, inchieste, sondaggi, statistiche, non si avvicinano lontanamente a quello che io, in quanto compagno di viaggio alla pari, ho raccolto dal basso. Ci sono impressioni, comportamenti e reazioni che emergono solo in assenza di osservatori esterni; ci sono risposte che escono solo in assenza di domande. Coi mesi, all’aumentare della mia preparazione, della mia competenza linguistica e della mia attenzione ai particolari, mi sono specializzato nel leggere le situazioni e nell’interpretarle come enormi e rarefatti ‘?’, facendo formulare ai contesti le domande di cui cercavo risposta. Rileggendo gli articoli di questi mesi, è chiaro: continuamente ho tessuto la trama di questi contesti col mio comportamento, con le mie riflessioni, con le mie domande, sempre mirando a scoprire il punto di vista dell’interlocutore (non necessariamente umano). In qualche modo ho chiesto a Yotvata che gusto c’è a vivere da impiegati nel deserto; a Maagan Michael come si fa a vivere da ricchi senza proprietà privata. Ma mi ricordo bene quei giorni e le loro sensazioni: coi miei appunti, di sera in camera o nelle pause tra i turni di lavoro, documentavo ‘quello che succede, dentro e fuori di me’, totalmente inconsapevole dello zampino che continuamente mettevo nello svolgersi degli eventi, e illudendomi di avere un punto di vista esterno su fenomeni oggettivi. Questa patetica ingenuità mi ha tenuto coi piedi saldamente piantati a terra: ho intessuto la trama della commedia da personaggio, e non da regista; ho scritto riflessioni da diario, e non da giornalista; ho dato consigli da amico, e non da psicologo. La mia affezione per il contesto, che è sempre rimasto il ‘mio’ contesto, ha fatto la differenza tra osservare e vivere, tra inquinare il fenomeno e generarlo. Per quanto resti fondamentalmente un inganno, resto parimenti convinto che la candid camera sia il più sincero strumento d’indagine.

Su molte cose basta sapere abbastanza per capirne: religione, storia, matematica, filosofia. A questo, in genere, ci riferiamo come ‘conoscenza’, delimitandola al dominio delle informazioni pubbliche. Chiunque può capire l’argomento per l’esistenza di Dio di Anselmo pur senza essere Anselmo, senza essere di Aosta e senza essere nato nell’XI secolo. Per altre cose, invece, bisogna esserci: c’è differenza tra vedere in diretta la scalata del Cervino di Kilian Jornet in due ore e mezza o farsi davvero il Cervino di corsa; c’è differenza tra sapere tutto lo scibile sul kibbutz e viverci. Quindi, non si conosce uno sport, ma lo si pratica, non si conosce l’arte, ma la si apprezza, non si conosce un viaggio, ma lo si fa. O, più in generale, non si conosce la vita: si vive. Io ho avuto la fortuna di focalizzare questa sottigliezza solo adesso, al ritorno, e non durante il mio soggiorno, altrimenti non avrei scritto con la genuinità con cui ho scritto ma avrei, con tutta probabilità, perso gusto di scrivere: perchè scrivere, se le cose più importanti restano incomunicabili?

Ad ogni modo, per quanto possa continuare a pensarci, arriverò a conclusioni inesorabilmente infalsificabili: quegli eventi e quelle situazioni che ho raccontato non ci sono più, e soprattutto non c’è più il Lorenzo Pisoni di quegli eventi e di quelle situazioni. Il mio resoconto dei fatti non è avvenuto in condizioni controllate e riproducibili. Mi è impossibile rivivere quegli eventi e quelle situazioni con questo senno del poi e riscrivere il blog, per poi confrontare le due versioni. O magari le cento versioni, se mi mettessi a riscrivere quelle esperienze e quei pensieri ogni giorno per il resto della mia vita, riducendomi ad un vecchio pittore ossessionato da un’anonima montagna. Me lo tengo così, incompleto e incompletabile, poco scientifico e molto sincero.

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