Noiose distinzioni accademiche

Scritto tra il 1/07/2013 e il 6/07/2013

L’ulpan è finito tra festeggiamenti ufficiali e un magone diffuso. In realtà non è finito, si è piuttosto disperso: degli ottanta di noi più della metà si ferma in Israele, chi per aliah chi per periodi di studio o lavoro; molti si sono sistemati come coinquilini a Tel Aviv; un drappello di nazionalità mista si prepara a quattro mesi d’India a fine settembre. Lo staff dell’ulpan è già con la testa ai nuovi arrivi di agosto: avanti il prossimo. E’ stato un buon giro, dicono, e noi vogliamo crederci. Io sono ufficialmente in vacanza, specialmente dopo il test di ebraico in università di ieri. Da venerdì sono a Gerusalemme, e mi sento a casa.

Su un muretto poco distante dal mercato.
Su un muretto poco distante dal mercato.

Conosco la città e inizio a conoscere anche la sua mappa, conosco le abitudini e lo stile; so dove la città può soddisfare i miei variegati bisogni: quando e cosa mangiare, dove comprare, dove sonnecchiare, dove leggere, dove osservare, dove parlare, perfino dove andare in bagno. Il migliore è un bar-ristorante-libreria nascosto in un cortile del centro, che ha ricavato due toilette in un sottoscala (senza scala) nella casetta di fronte: è piccolo, pulito, profumato, sempre fresco per gli spessi muri di pietra bianca, come d’altronde tutto qui attorno. Conosco gli abitanti di Gerusalemme, come questo ortodosso con giacca nera, cappello nero, barba lunga, ricciolini, frangette, che prega dondolandosi sullo smartphone seduto al parchetto, mentre due arabi scoperchiano una collina a bordo di ruspe giganti: pare stiano costruendo un fiumiciattolo che tagli il Parco dell’Indipendenza. A voce, capisco tutto, per la lettura ci vorrà un po’ più di tempo. Non sono in balia della città ma la domino, salto a pie’ pari da un tassello del collage all’altro senza accusarne il colpo: un chiosco di orecchini fatti a mano di un vecchio gerusalemita ferito di guerra col cappello da cowboy e l’accoglienza di una ultraortodossa in un appartamento papabile per l’affitto da ottobre. ‘Ottobre? – mi chiede – E’ prima di agosto? Noi andiamo via il primo di agosto’, ‘Non so il calendario ebraico, ma ottobre è dopo il vostro capodanno’. ‘Capisco’, e prende dal freezer un cioccolatino per il bambino, dei tre, più grande: avrà due anni, lei non più di 20. Il bigliettaio a Gerusalemme Est che mi risponde gelido I-don’t-speak-Hebrew e il barista dell’università sul Monte Scopus che mi garantisce che l’anno prossimo verrà in vacanza in centro Italia: quest’anno è New York ‘…e sai, con la bambina adesso non mi è più così facile prendere e partire’. Il dolce vecchietto in un caffè di fronte al Sacro Sepolcro che invece serve a me e a Netta l’humus in ebraico, facendo cadere la nostra farsa dell’inglese, e i due pensionati egiziani ebrei che di fronte a uno shawarma si perdono, commentando tra loro in francese, in nostalgie per il colonialismo, a scuola dalle suore ad Alessandria con i maggiordomi in casa, per i loro amici di scuola musulmani, ebrei, arabi e delle notti d’estate a piedi scalzi per le vie del centro, e di come l’incantesimo si sia irrimediabilmente spezzato: da quando a 18 anni si trasferirono a Londra, mai più gli fu permesso di tornare a ‘casa’; e intanto lei si congeda con calore dal cameriere: ‘se parli arabo è tutta un’altra storia’.

Verso Gerusalemme est.
Verso Gerusalemme est.

E poi adesso ci sono gli amici. Tanti e belli, sparpagliati qua e là ma sempre a portata di mano in questo Stato che è un buchetto e che diventa in fretta una grande famiglia. Ho sempre da chi andare, con chi farmi un giro in città, ho sempre una birra in sospeso con qualcuno e sempre un’occasione in vista per concretizzarla.

Nel weekend siamo stati ospiti di un’amica israeliana dal Golan, ‘andiamo a visitarla perchè è impazzita’, mi spiega Netta. Dal moshav laico-ateo di sinistra, quest’inverno è partita per due settimane di volontariato dai settlers di Hebron, senza dare spiegazioni a nessuno, dopodichè si è iscritta a un costoso corso di quattro mesi in una ‘yeshiva laica’, anch’essa situata nei territori occupati, poco sotto Maale’ Adumim. Una quarantina di ragazzi vivono in caravan scassati su questa collina rocciosa in mezzo al nulla della vertiginosa discesa desertica verso Gerico; fanno i turni per la cucina mattina e sera e a pranzo ricevono il ‘catering’, teglie calde dall’insediamento poco sopra: mattina e sera latte, pranzo carne. Ciascuno lava i propri piatti nella cucina da campo stile parrocchia, con discreta distinzione tra stoviglie, lavandini e frigoriferi per carne e per latte. In realtà la popolazione è mista, sia religiosi che non, ma chiaramente il codice di comportamento collettivo si uniforma ai primi: la religione ebraica richiede che anche l’ambiente che circonda il credente sia ‘puro’ e non solo la sua intenzione, e questo ne fa una religione integralista (che permea integralmente la vita del credente), nel ghetto; pubblica, nello Stato Ebraico, il grande ghetto. Arriviamo di notte, nel nostro caravan degli ospiti ci accoglie una grassa piattola rossa che Yuval, l’amica, spiaccica con non chalance ed evidente esperienza: sono ovunque ma non ti entrano nel letto, rassicura. Sorseggiando su sedie a dondolo un thè di erbe dal giardinetto, un simpatico ragazzo di Beer Sheva mi racconta del suo viaggio in Sud America, della Bolivia e dell’Argentina. Mi dice che a Cordova incontrò la ragazza più simpatica di sempre: del Movimento della Gioventù di là, grassoccia, non vedeva l’ora di cimentarsi in ebraico dopo il suo recente ritorno da un anno di volontariato in Israele con Masa, e ‘non parlava ma cantava, su e giù su e giù…Jessi, si chiamava. Intendeva fare aliah…’. ‘Jessi la cordoveza? – interrompo – Grassoccia? Scura di carnagione? Ha fatto un’anno con Masa? Simpaticissima? Grida sempre? – incalzo e lui mi fa cenno di sì con la testa – E’ stata la mia vicina di banco per cinque mesi di ulpan! Ha fatto l’aliah con successo e adesso abita a Ramat Gan’, gli comunico. Con questa simpatica convergenza torniamo ciascuno al proprio caravan passeggiando sotto la stellata del deserto: fa caldo, e il vento freddo di Gerusalemme è a solo una quindicina di chilometri da noi.

Discesa dalla Midrashah verso la sorgente.
Discesa dalla Midrashah verso la sorgente.

Alla midrashah ogni giorno per quattro mesi si alternano decine di professori, conferenzieri, maestri di vario tipo in seminari, lezioni singole, percorsi di variabile durata; gli argomenti spaziano dalla scienza politica a storia, filosofia, arte, farmacia, meditazione, letteratura, nutrizione, e ciascuno studente segue quello che vuole con l’impegno che vuole, tanto più che pagano di tasca propria l’iscrizione; la spina dorsale del corso, con due o tre insegnanti stabili, è l’identità ebraica e il sionismo. Chiacchierando qua e là, sono tutti ragazzi dopo l’esercito e il viaggio all’estero, religiosi moderati o atei moderati, che a un certo punto hanno preso sul serio la domanda ‘in che senso sono ebreo?’ da cui, con ironia, ‘tutte le nostre sciagure sono iniziate’, e cercano a tentoni qualche risposta. Stiamo alzandoci per andare in classe quando vengo punto da una faccia nota, e mi trovo a fissarla finchè non incrocia il mio sguardo: per lei è lo stesso, e grida ‘Lorenzo!’ E’ Achinoam, un’amica di Nadav conosciuta la mia prima o seconda sera in Israele, ad agosto: ai tempi lavorava in un bar in centro e metteva da parte soldi per il Nepal, io non parlavo una parola d’ebraico e non capivo niente d’Israele e degli Israeliani. Ora è tornata da quattro mesi di girovagamenti su Himalaya e India, e si è presa qualche mese di studio personale prima di continuare il proprio percorso di vita. Veramente strano imbattersi in una telaviviana doc nel bel mezzo del deserto, tra i turni a lavare i piatti e le piattole nei caravan. Siamo a fine corso, e assistiamo all’ultima lezione del direttore della midrashah: quarantenne magro, riccio, barbuto, kippah bianca e frangette alla cintura ma niente ricciolini, camicia azzura e pantalone nero. Come ultima lezione, spiega, cercherà di mostrare e argomentare approfonditamente qualche definizione dell’ebreo, che resti agli studenti come punto d’orientamento per la vita. Parte dalla posizione ultraortodossa, incarnata dai famosi pinguini neri che mi circondano adesso, al tavolino di un bar in una traversa di via Yaffo. Questi sostengono che la Fede e il rispetto delle regole dettate da Dio e conservate nella Torah siano segno dell’ebreo. Per poter rispettare le regole bisogna conoscerle, quindi prima di tutto studiano. Tuttavia, come in qualsiasi gioco o testo giuridico, le regole non spiegano mai tutto una volta per tutte, ma richiedono una continua interpretazione: da una parte si sviluppano teorie interpretative a priori per individuare quale situazione corrisponde a quella descritta dalla legge, dall’altra l’autorità costituita (può essere l’arbitro in una partita di calcio, un giudice in un processo in Inghilterra, il consenso di un gruppo di amici che gioca a Tabu, e in questo caso i rabbini) pronuncia sentenze sulle situazioni reali e diviene modello normativo per il futuro. Lo sviluppo di entrambe le strategie interpretative per capire cosa deve fare il buon ebreo è conservato nel Talmud, commento del commento del commento della legge toraica che Dio in persona dettò, e il processo è doppiamente ricorsivo: nella teoria interpretativa a priori, ad interpretazione seguirà sempre interpretazione e mai sarà posta l’ultima parola; nell’interpretazione a posteriori, si aggiungeranno sempre nuove situazioni da analizzare, giudicare e archiviare come precedenti, anche in assenza di una teoria interpretativa a priori completa e coerente. Ad esempio, in seguito alla scoperta dell’energia elettrica alcuni rabbini s’interrogarono: dobbiamo assimilarla al significato biblico di ‘fuoco’?; d’altra parte, anche alcuni fedeli s’interrogarono e interrogarono il rabbino: è vietato o no accendere la luce di sabato? S’impose come dominante la strategia assimilativa, sia a priori (‘l’energia elettrica è da considerarsi come il fuoco’), che a posteriori (‘non puoi accendere la luce di sabato’). La quantità d’informazione necessaria ad essere un buon ebreo, secondo questa posizione, è abnorme, e sembra proprio che gli ultraortodossi ci si siano persi dentro e non sappiano da che parte uscirne: la situazione è completamente sfuggita di mano. Mentre chiudiamo l’argomento leggendo un breve passo mi stupisco di come, al fondo, questa posizione sia quella dell’occidente illuminato: ebreo è chi ebreo lo fa, esattamente come cristiano è chi crede nella religione dei cristiani e si comporta come un cristiano e criminale è chi si comporta come un criminale. Gli ultradox hanno solo preso la questione (in questo caso la Torah) sul serio, arrivando a un vicolo cieco.

Un’altra definizione di ebreo passa per il sangue: ebraico è il popolo, non la religione. Fino alla scoperta del DNA la maternità era l’unica certa, dunque si consolidò la regola per cui è ebreo chi ha mamma ebrea, a scanso di equivoci e paternità millantate. Anche questo principio è ampiamente accettato, a livello psicologico e ancor più giuridico, per cui è italiano chi è figlio di italiani, a prescindere da dove sia cresciuto, quale lingua parli, quante generazioni siano passate. Cosa il sangue trasferisca di rilevante per la categoria ‘ebreo’ o ‘italiano’ è chiaro: assolutamente niente. Nonostante gli sforzi di molti, ebrei e nazisti in primis, non è mai stata trovata un nesso causale o in qualche modo scientifico tra il genotipo e fenotipo di popolo. E anche qualora vengano trovati caratteri salienti (pelle nera, denti radi, spiccato umorismo), il criterio di delimitazione del popolo è tremendamente vago in cinquanta sfumature di mulatto. Men che meno è stato provato un nesso causale tra DNA e intelligenza, carattere che si sviluppa primariamente attraverso l’esperienza. Quindi, perchè continuiamo a definirci italiani ed ebrei sulla scorta del nostro sangue è una credenza collettiva frutto di un’ignoranza passata, quando il sangue era qualcosa di magico. La teoria dell’ebraicità come popolo ha ricevuto una spinta determinante a fine ‘800 quando Herzel, che non si comportava assolutamente come un ebreo, la coniugò con l’antisemitismo: l’ebreo occidentale, spiega il prof, non era religioso ma integrato nella comunità cristiana. Fu l’antisemitismo, fondato sulla discendenza di sangue, a individuare l’ebreo che altrimenti sarebbe rimasto invisibile. Il passo inedito del giornalista viennese fu accettare la persecuzione del sangue ebraico come ineluttabile ed eterna, rinunciando così al sogno (o incubo, per molti ebrei) dell’integrazione, e reagire, costruendo un recinto per il popolo ebraico, prevenzione della persecuzione e rifugio del perseguitato in terra straniera. Ed ecco il sionismo. Diversa è la situazione degli ebrei dell’est Europa che, oltre ad essere individuati negativamente per antisemitismo, comportandosi da ebrei sono già visibili ed eventualmente vittime di antigiudaismo, per via della loro religione e non del loro sangue. Le interruzioni e le domande sul testo che viene letto in classe si fanno più fitte, qua e là si accendono focolai di discussione ben moderati dal prof. In classe ci sono kippah colorate e gonne corte, qualche frangetta alla cintura e nessuna manica lunga. Ciascun elemento, specialmente in questo luogo, rappresenta una precisa presa di posizione, malgrado la pretesa israeliana di ‘non giudicare il contenuto dalla confezione’: certo, altrimenti perchè mettersi ogni mattina la kippah? E perchè non nera? [Capisco ora, mentre scrivo, la puntuale sorpresa degli ebrei quando scoprono che non sono ebreo eppure parlo ebraico: assumono la lingua come segno di appartenenza, una kippah incorporata.]. La questione dell’identità negativa viene mal digerita, ma il prof rincara addirittura la dose: ‘Qualora i nostri problemi coi palestinesi, gli arabi e i musulmani si affievolissero, in ugual proporzione si affievolirebbe la nostra percezione di popolo. Verrà a mancare un appiglio…un solido appiglio. La tesi dell’ebraismo negativo sulla scorta dell’antisemitismo condanna il popolo ebraico alla condizione di vittima, pena la sua scomparsa. – fa una pausa con un sorrisetto – Qual è il problema con gli ebrei americani?’. Un capello rosso in prima fila risponde ‘Non sono sionisti.’ ‘Esatto, non si sentono israeliani, ma solo ebrei. Perchè?’ Fa una pausa e riprende sopra il brusio di consultazione ‘Perchè l’America è una nazione fondata da e per le minoranze. L’identità del soggetto giuridico ‘America’ è tollerante, malgrado la forte cristianità della società (ad esempio, i presidenti devono giurare sulla Bibbia, sul dollaro è scritto ‘in god we trust‘). In questo senso è tollerante ma non ugualitaria. Ad ogni modo, gli ebrei americani non si sentono minacciati come popolo, dunque non sono attratti da Israele. Per noi israeliani è incomprensibile, chiaramente, perchè oltre ad essere la nazione per noi ebrei Israele è la nazione di noi nativi. Ed arriviamo così ad un’ulteriore concezione di ebraicità…’.

L’ebraismo come cultura mi ha davvero stupito. ‘Oltre al credo e al sangue, esiste un background fondamentale di canzoni, storie, personaggi, eventi, luoghi, cibi, feste. Labile è indefinibile, la cultura collettiva è qualcosa di profondamente intimo e difficile da trasferire: è l’atmosfera in cui siamo immersi da piccoli.’ Fa un esempio famoso nella letteratura accademica: una ragazza oltre i vent’anni scoprì di essere di mamma ebrea. Si convertì alla religione ebraica e fece l’aliah, eppure rimase diversa da tutti gli ebrei attorno: non era stata cresciuta come un’ebrea. Ci sono casi di ebrei cresciuti come goy, ma la consapevolezza delle origini produce sempre una qualche sorta d’interesse e intrattenimento con la cultura ebraica; lo stesso non vale, tendenzialmente, per un figlio di italiani in India, per esempio. Perchè la cultura ebraica è così tenace? Anche qui, parte il brusio. Primo, perchè l’autoconservazione è un valore portante della cultura ebraica stessa: è bene che il popolo ebraico continui. Secondo, è una cultura funzionale e portatile: abbraccia gli aspetti fondamentali della vita, dalla dieta all’etica professionale, e sta tutta in un libro. Sarebbe più esatto dire che è ispirata da un libro, uno solo (inteso una sola antologia prodotta in una sola lingua e che narra diversi momenti di una stessa storia). L’ebraismo è, tra tutte, una tra le culture che necessita meno condizioni ambientali per sussistere…ha perfino un logo!

Siamo ormai in conclusione, e Yuval ci spiega che siamo arrivati alla posizione personale del prof sulla questione, proposta nel secolo scorso da un certo Asher o simile, ebreo tedesco scappato in America. Seppur le contingenze storiche lo abbiano infine costretto ad essere sionista e ad appoggiare intellettualmente lo Stato Ebraico, la sua posizione autentica è che l’Europa, che comprende tra gli altri i valori morali ebraici contenuti nella Torah, si è ammalata di qualcosa di terribile, la deviazione morale dell’antisemitismo e dell’odio diffuso catalizzata dai nazionalismi, ma che la soluzione non è un ulteriore nazionalismo, il sionismo, come risarcimento. Piuttosto, è compito degli ebrei aggiustare e curare l’Europa come europei, dall’interno, perchè l’essenza dell’ebraismo altro non è che valori morali, come vale per il Nuovo Testamento, l’Iliade e i Promessi Sposi: la religione, il sangue, il nazionalismo non sono sostanza dell’ebraismo ma suoi accidenti, peraltro negativi. E’ giunto il momento dei ringraziamenti e degli addii, la classe presenta un regalo al prof che in composta commozione esce tra gli applausi.

Messo il costume, c’incamminiamo giù per una valle nel deserto verso una sorgente naturale, ci sono decisamente più di trenta gradi. Scendendo chiedo a Yuval quale sia la sua posizione al riguardo, dopo mesi di ricerca: per lei essere ebrea è un dato imprescindibile, sia per cultura che per sangue. E fin qui, vale anche per me con la mia italianità. Quello che le è successo nell’ultimo anno è una crisi personale in cui le cose hanno iniziato a perdere senso e allora, prima di buttarsi sul buddismo o sullo sport, ha cercato cosa il suo background potesse già offrirle. Ha scoperto che seguire minime regole della halacha, la legge toraica, fa ordine nella sua testa e l’aiuta a prestare attenzione al proprio stile di vita, ‘un po’ come essere vegetariano. Non è che se tu non mangi carne cambi il mondo, e non è che se mangi carne una volta crolla il mondo. Allo stesso modo, a Dio o quel qualcosa che credo ci sia lassù non cambia niente se mangio carne e latte insieme. Ma se faccio attenzione a non mangiarli insieme do un significato al pasto, e non è più solo mangiare per sostentarsi come farebbe una capra.’ A casa al moshav possono stare tranquilli, Yuval non è impazzita.

L’acqua della sorgente è gelida. Dopo una grande pozza in pietra, tanto profonda da farci i tuffi, l’acqua scivola tra i sassi fino a congiungersi con un torrentello che si addentra tra i canneti e i kanyon di pietra biancastra. Le montagne attorno sono alte, scoscese, scogliose e aride, ricoperte da ciuffi di erba gialla. La pozza è affollata sia di israeliani, per lo più settlers religiosi con lunghi ricciolini e larghe kippah, le ragazze con maglietta e pantaloncini, e palestinesi: scuri di pelle, attaccano discorso con noi in un ebraico gutturale, avidi di poter comunicare, ma per lo più si limitano a guardare le ragazze in costume e a fare tuffi acrobatici. Ciascuno al suo posto, sono tutti tranquilli. E’ stata davvero un’esperienza insolita.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...