Con l’imminente fine dell’ulpan sono nell’aria discorsi di cosa ne sarà di noi dopo, del dove andremo e del cosa faremo, e di un inespresso ‘…se mai ci rivedremo’. Il grande balzo in avanti è per chi come me resta qui, salvo eventuale breve ritorno a casa, vale a dire i nuovi immigrati che ormai hanno in Israele la propria casa. La mia posizione è scomoda, dal mio punto di vista, e insolita, dal loro. Il visto da volontario non mi permette di cercare lavoro, la lettera di accettazione all’università mi costringe a uscire da Israele per ottenere il visto da studente, la mia non-ebraicità preclude l’accesso ai servizi dell’ufficio immigrazione e assorbimento, con gli incentivi economici e i programmi d’integrazione annessi, e in tutto questo il mio ebraico è nei mesi divenuto il più forbito del gruppo, suggerendo erroneamente una mia acquisita cittadinanza e quindi arruolamento nell’esercito. Puntualmente, alla tavolata di ulpanisti di turno, mi tocca ricordare a qualcuno la terra di nessuno in cui mi trovo e quindi la ristrettezza di opzioni a me concesse: ‘ah già, tu non ti arruoli’; ‘ah già, tu non puoi applicare a Masa’; ‘ah già, tu non hai l’università pagata’; ‘ah già, tu non puoi rivolgerti all’ufficio di collocamento’, queste le puntuali risposte con una punta d’imbarazzo.
L’assistenza congiunta del kibbutz e dello Stato al nuovo immigrato è impressionante. Se è vero che in Israele vige una spartizione per compartimenti stagni, all’interno del compartimento ‘ebrei israeliani’ opera un’efficiente fabbrica dell’integrazione di cui l’aliah, l’immigrazione ebraica, non è che l’ultimo passo dopo un lungo e articolato processo educativo. Dall’arcipelago dei movimenti sionisti in giro per il mondo (conosco bene la struttura dei movimenti laici, ma non mancano quelli religiosi che si appoggiano a yeshivot), paragonabili ai nostri gruppi parrocchiali, viene allevata una giovanissima elite dirigente di educatori e amministratori a carico dell’Agenzia Ebraica che, attingendo a finanziamenti di privati e alle casse dello Stato d’Israele, offre una vasta gamma di viaggi, viaggini o viaggioni in Israele: anno di lavoro in kibbutz, sei mesi di Taglit (letteralmente, ‘scoperta’), periodi di lunghezza variabile di servizio in comunità [da qui le battute ricorrenti ‘ho sempre voluto fare qualche anno di studio-lavoro in Italia…dov’è l’Agenzia Ebraica quando serve?’ o ‘wow sei australiano? Ma la vita costa cara là…non si può fare aliah in australia, vero?’]. Quel che c’è di comune a questi programmi, facenti capo all’agenzia Masa (letteralmente, ‘viaggio’), è l’assistenza totale ai partecipanti per tutta la durata del soggiorno, dai compagni di viaggio alla residenza al lavoro alle lezioni al materiale di studio alle gite, e il principale scopo d’instaurare nei partecipanti un legame emotivo con Israele. Loro la definiscono un ‘ritrovamento’ del legame con Israele e delle radici ebraiche in Israele, coerenti col credo sionista che muove l’intero sistema. Non so la percentuale di successo di questo ‘innamoramento’ indotto d’Israele, quel che è certo è che un buon investimento: oltre ai relativamente pochi partecipanti che faranno aliah, tutti gli altri torneranno come educatori ai movimenti sionisti del luogo d’origine esaltati e preparati sulla storia ebraica e la storia d’Israele, l’ideologia sionista e il nazionalismo ebraico attuale, la situazione politica e le opportunità economiche della nazione, più un’infarinata generale su filmografia e musica locale…come una piccola laurea in israelismo. A questo universo pre-aliah ho accesso solo indiretto, attraverso i racconti dei miei compagni di corso dai vari Movimenti della Gioventù o Habonim o Dror di Argentina, Cile, Messico, Stati Uniti, Germania, Australia. Ciò di cui ho testimonianza diretta è la fase attuale, cioè la prima accoglienza in Israele e la metodica costruzione di un’identità cultural-popolare israeliana attraverso l’ulpan, con lettura di testi sull’approvvigionamento idrico e abitudini alimentari, ascolto di poesie e canzoni storiche, visita a luoghi dall’alto valore simbolico, commento di notizie ed eventi di cronaca storici per l’opinione pubblica, insegnamento a tavolino di modi di dire e slang. Fino ad arrivare al passo successivo: l’uscita dal kibbutz.
Per chi è in età da servizio militare, la questione è piuttosto semplice: pensa a tutto l’esercito, dalla prima intervista ai test attitudinali alla collocazione nelle diverse unità all’equipaggiamento, con relativo sussidio economico per chi è senza famiglia; tra questi, proprio ieri quattro, su 15 che avevano fatto richiesta, sono stati confermati come soldati ‘adottivi’ del kibbutz: continueranno a vivere qui e lavorare otto ore al giorno fino alla data di arruolamento, per poi tornare a Maagan Michael solo nei weekend e nei giorni di licenza. Un terno al lotto. Per chi non si arruola, la rosa delle possibilità si allarga: a seconda degli interessi individuali, l’ufficio ulpan procura appuntamenti ai diversi uffici pertinenti, chi per trovare lavoro, chi per un secondo ulpan, chi per borse di studio (fino ai 27 il nuovo immigrato ha diritto ad una laurea pagata, o triennale o specialistica), chi per alloggio in campus. Nell’ultima settimana siamo stati bombardati di visite di ‘facilitatori’ dal ministero dell’immigrazione, dall’esercito, dall’assistenza sociale, dall’ufficio di collocamento che forniscono dettagli e prendono contatti con gli interessati. In classe è un continuo di gente che entra e che esce, di emissari con biglietti con date, nomi e numeri di telefono, di burocrati che si presentano a nome di istituzioni, di revisioni di curriculum vitae, di telefonate dall’ufficio ulpan a tal sportello per definire la consegna del ‘pacco’. Oggi è stato il turno dell’Agenzia Ebraica nella veste di una certa Dina dal macchinoso accento russo accompagnata da due soldati della burocrazia militare (i famosi ‘jobnikim’ senza onore rispetto alla virilità dei combattenti), che a turno hanno prelevato i nuovi immigrati per accertarsi della loro sistemazione dopo l’ulpan e, se necessario, ritoccarla. Oltre a questo, i nuovi immigrati si portano da casa una rete di amicizie personali di quelli che hanno fatto aliah prima di loro: possono essere amici della scuola ebraica o dei movimenti, amici di famiglia, parenti israeliani o israelianizzati o semplici conoscenti. Rarissimo che qualcuno arrivi in Israele completamente solo. Salvo poche eccezioni, infatti, i nuovi immigrati provengono da nuovi ghetti in cui la comunità ebraica risiede, lavora, si conserva dal contatto con i goy. Non esistono cancelli né cartelli, né in Uruguay né in Australia, piuttosto quartieri dove se qualcuno vende casa preferisce venderla alla giovane coppia ebrea piuttosto che a non-ebrei, dove se si libera un posto di lavoro hanno la precedenza gli ebrei, dove i negozi chiudono anche il sabato, dove c’è la sinagoga, dove il volontariato si fa presso organizzazioni religiose ebraiche, dove nei vari centri culturali e librerie si organizzano incontri e interviste con israeliani, dove sposare un non-ebreo è una stranezza e può sollevare qualche critica, dove tutti sanno tutto di tutti. Si parla infatti di comunità da poche decine di migliaia di persone, come dire un paesino all’interno di metropoli anche da milioni di abitanti, perdipiù in strettissimo contatto con le comunità di altre città e altre nazioni, così che non è raro per un cileno avere amici in comune con un messicano di Città del Messico perchè ‘avevamo fatto un campo estivo insieme con duecento ragazzi da tutto il Sud America’. Qualche giorno fa Ygal, parlando appunto del che si farà dopo Maagan Michael, profetizza che questo è il momento dei sud americani: ‘In Israele si va a ondate d’immigrazione – inizia a spiegarmi con tono fermo, ed esce la preparazione di un anno di Taglit – ci sono stati i russi, i polacchi, i nord africani, gli yemaniti, gli etiopi, gli indiani, poi di nuovo i russi, un milione negli anni ’90. Ora è il nostro turno: non è raro trovare israeliani venuti dal Sud America o israeliani che parlano spagnolo, e anche a scuola lo insegnano come terza lingua a scelta con l’arabo, la carne del Mercolit [negozio alimentare del kibbutz, dove Ygal lavora] è importata dall’Uruguay e senti in giro di feste asado [tipo di grigliata di carne], e ovunque trovi la yerba per il mate [sorta di thè di erbe amare da bere da un’ustionante cannuccia in metallo, a qualsiasi ora del giorno e della notte].’ Con tutto questo, il mondo dei miei compagni nuovi immigrati è molto più piccolo di quel che sembra, sempre così puntellato di relazioni personali interoceaniche e intercontinentali e tutte misteriosamente catalizzate in questo fazzoletto di terra polverosa. Un che dì claustrofobico, e da una parte ringrazio il mio status da turista in balia degli eventi e di me stesso. D’altra parte mi accorgo che ciò che mi manca è una rete di contatti: dopo quasi nove mesi di permanenza ho molte conoscenze ma non sussiste alcun canale preferenziale tra di esse. Nessuno è pagato per far girare il nome e il contatto di Lorenzo Pisoni alle persone a cui può servire e che a lui possono servire. Se ci penso, neanche in Italia ho una rete di assistenza simile, neppure dopo una vita da cittadino. Quel che non mi fa invidiare o odiare la disparità di trattamento rispetto ai miei omologhi nuovi immigrati è la sua proceduralità: non sono agganci capitati dal cielo ai miei compagni di classe perchè ricchi, potenti, figli di amici, massoni, lobbisti, affiliati di sorta ma in quanto possidenti un passaporto israeliano nuovo di zecca, a sua volta dovuto ad una dichiarazione di discendenza ebraica da parte del rabbinato. E’ una discriminazione sistematica fondata su criteri verificabili (speculare al criterio di discriminazione e sterminio nazista), il che me la rende accettabile in quanto onesta, seppur ideologica: gli ebrei, qui, hanno la precedenza, e nessuno si sogna di sancire una formale quanto ipocrita uguaglianza di diritti (anche se acquisissi la cittadinanza israeliana per matrimonio o residenza non avrei accesso alla facilitazioni, in quanto proprie dello status di ‘nuovo immigrato ebreo’). Tra i miei compagni nuovi immigrati ci sono enormi differenze: il religioso praticante, il figlio di papà americano, il cristiano di padre ebreo, il militare invasato, l’immigrato per necessità, il fervente sionista, il nostalgico kibbutznik, la nuova coppia sposata in vena di cambiamento. Ma non importa. L’assistenza al nuovo immigrato ebreo è completa ed efficiente, a prescindere dalla sua qualità individuale. Sarà il tempo a far emergere il valore dei singoli, chi nella carriera militare, chi in quella accademica, chi in una startup a Tel Aviv, chi nella stessa Agenzia Ebraica, ma intanto tutti hanno ricevuto pari e consistenti opportunità.
Credo che l’Italia, e ogni altro Paese che affronti massicce immigrazioni e conseguenti incompatibilità culturali, abbia molto da imparare dal sistema di assimilazione e integrazione israeliano: prima di tutto la lingua. Investire tanti soldi e tanta formazione nell’insegnare obbligatoriamente, in fretta e con alta percentuale di successo la lingua locale, perchè senza di essa è preclusa ogni altra possibilità di collaborazione, e attraverso di essa la storia, la geografia, la musica, il cinema, la società italiana. Paradossalmente, in cinque mesi ho ricevuto una panoramica più completa della musica popolare israeliana di quanta ne possiedo sulla musica popolare italiana. Infine installare un buon sistema di matching che metta in contatto le persone che hanno bisogno una dell’altra: il prof e lo studente, il datore di lavoro e il disoccupato, il padrone di casa e l’affittuario, il venditore e il cliente. Con un numero di telefono in mano e la garanzia di un ufficio ministeriale non si è mai abbandonati. L’integrazione è fattibilissima, è solo una questione di volontà politica, ma comporta un cambiamento anche da parte degli ospitanti: che il negozio sotto casa inizi a vendere la tal erbetta turca e che mio figlio a scuola studi il cinese come terza lingua è, certamente, una de-italianizzazione dell’Italia in cui sono cresciuto io.