Alla nostra età

I BaMBaCHim (acronimo di Bnei Meshek Bezman Chofesh, figli di kibbutz in periodo di vacanza) sono ragazzi provenienti da altri kibbutz e moshav che lavorano a Maagan Michael per cicli di 10 mesi. Quasi un centinaio, sono prevalentemente impiegati nella fabbrica Plasson o nell’industria ittica, tutti freschi di esercito. A differenza di noi ulpanisti stipati in camerette da tre, vivono in singola in un quartiere tutto loro giù sulle vasche dei pesci lontano dal ‘centro’, sempre sotto un cielo di stelle disturbato solo dalla scarsa illuminazione di Jizr al-Zarqa, il poverissimo villaggio arabo qualche chilometro a sud del kibbutz. Tra ulpanisti e bambachim non c’è una gran frequentazione, un po’ per gli orari di lavoro non coincidenti un po’ per la distanza fisica delle nostre ‘basi’, ma soprattutto per l’abisso linguistico e culturale che separa i più. Mercoledì, giovedì e venerdì sera capita di vedere la frangia dei pontieri lanciare saluti e small talk a qualcuno di noi dai tavoli del pub (di fatto localizzato nel cuore del quartiere ulpan), ma restano contatti superficiali e perlopiù finalizzati a tenere aperti canali preferenziali verso le ulpaniste. Cacciatori di teste, i bambachim fin dal primo giorno sondano il terreno chiedendoci che aria tira, se c’è qualcuna che parla bene ebraico o che vuole andare a un fuoco in spiaggia da loro, ma da quel che ho visto agli israeliani manca qualsiasi forma di eleganza o savoir faire, e come risultato più che collezionare scalpi di svedesi e colombiane collezionano picche. Da parte nostra, vista la mostruosa percentuale di maschi tra i bambachim, tra cui non si contano più di dieci ragazze, c’è poco interesse e una oggettiva difficoltà relazionale che allontana e spaventa: se tra i giovani americani, spagnoli, austriaci come tra gli italiani è scontata una dose d’ipocritica formalità per rompere il ghiaccio, presso gli israeliani non esiste nulla di tutto ciò. I ‘prego’ per far sedere l’ospite sul divano più comodo, l’offrirgli da bere, il rivolgergli domande per integrarlo nel gruppo, l’accondiscendere alle sue richieste non fanno parte del rituale d’accoglienza, che al contrario prevede uno sforzo da parte nel nuovo arrivato per mostrare la propria dignità e giustificare così la propria presenza come membro costitutivo, e non supplementare, del consesso: tra ragazzi israeliani ho sempre visto l’ospite interrompere, prendere la parola, obiettare…farsi valere. Figuratevi come reagisce la studentessa di Chicago, perdipiù ancora bloccata sul no-parlou-ibraico-benne e le ‘r’ arrotolate piuttosto che grattate…

Col fatto di avere alle spalle una gavetta di relazioni interpersonali israeliane di tre mesi a Yotvata, uno slang ebraico essenziale per la sopravvivenza tra battute e insulti, e un amico, il rosso cappellone Omri, in comune con un bambach, al mio arrivo a febbraio avevo fin dai primi giorni legato bene con qualcuno di loro, tra un serata al pub, un pomeriggio in spiaggia o una partita a calcio. Da quel che ho visto, i bambachim uniscono il funzionalismo a-estetico israeliano allo svago, generando un’atmosfera di selvaggio relax: i divani sono lacerati e i cuscini spaiati, ma sono piazzati nei posti giusti e spazzolati di tanto in tanto; le pizze e gli stuzzichini si mangiano senza piatto ma ciascuno spiluccando dallo stesso vassoio, ma ci sono i tovaglioli; il quartiere ha cavi penzolanti da tutte le parti, condizionatori a vista e biciclette buttate agli angoli d’ingresso, ma funziona tutto alla perfezione; il da bere è messo in tavola in scatole di cartone e il cin cin è fatto in bicchieri di plastica, ma se ne fa uno via l’altro. Il comfort c’è, e di altro livello, ma non è contemplata la sua confezione; è una totale assenza di stile: in ebraico si dice ‘musnach’. Le camere, invece, quelle sì se le arredano bene: una sorta di collezionismo, ciascuno appende, appoggia, appiccica i cimeli di nottate, feste, serate (o mattinate) di tranquillo chiacchierare bere fumare. Lavorano duro in fabbrica, in gruppi di sei-sette, spesso di notte, e guadagnano decentemente. Come a Yotvata, il gruppo di lavoro assegnato non cambia, e finisce col diventare una seconda pelle; è una costante israeliana. Ricordo una delle prime settimane, sarà stato fine febbraio, chiacchierando appollaiati sulle capanne di legno in spiaggia all’ora del tramonto, Fishman (così lo chiamano tutti e ancora non ho scoperto il suo vero nome) mi prova a spiegare cosa sono gli amici dell’esercito: ‘Non li scegli, semplicemente ti capitano. E te li tieni per tre anni, non ci sono cazzi. Quando capisci che non puoi cambiarli, allora inizi ad amare anche quello che di loro non ti piace…e poi ti mancano. Con loro condividi tutto, le brande scomode il cibo schifoso il freddo il caldo lo zaino da 30 chili, si supera tutto insieme. Sono più che fratelli.’ I quattro tappi di Goldstar inchiodati agli angoli del mobiletto di camera sua, mi ha raccontato ieri sera, sono il suo e quelli di tre buoni amici dell’esercito, che lo vennero a trovare il 5 gennaio: ‘Eravamo là sulla capanna a penzoloni, avevamo fumato un po’ e stavamo bevendo e chiacchierando stam, così, quando è arrivato un diluvio, ma di quelli potenti! Bam, una caterva d’acqua da un cielo nero fino all’orizzonte.’ Si ferma un attimo: ‘Oh, nessuno di noi si è mosso. Niente, tutti e quattro immobili insieme sotto la pioggia, in silenzio, dopo mesi che non ci vedevamo.’ Stravaccato sul letto [regola d’oro per sapere di chi è la casa quando si è ospite di amici, mi hanno svelato, è ‘vedere chi sta più comodo’, una vera perla!] apre una foto sul maxischermo sul mobile: la spiaggia di Maagan Michael, nuvole sparse, un enorme arcobaleno e quattro bottiglie di birra incrociate sulla sabbia, il tutto fotoshoppato a mo’ di disegno a pastello. ‘Questa l’ho fatta dopo il diluvio. Abbiamo giurato di vederci ogni 5 gennaio sul quel trespolo, per sempre’. Poi apre il cassetto più basso del comodino, e mi mostra con un sorriso una bottiglia di Goldstar vuota, come ne vanno via anonime migliaia al mese.

Finito l’esercito a 21 anni, a 22 o giù di lì i bambachim escono da quasi un anno di lavoro e vacanza a Maagan Michael con un discreto gruzzolo, pronti per un 4-6-8 mesi di viaggio per il mondo: Sud America e Indocina sono i continenti più gettonati per via del costo contenuto e lo sballo garantito, ma non manca chi si trova una qualche agenzia di volontariato o attività varie ed eventuali negli Stati Uniti, Canada, Australia. Quasi nessuno si lancia sull’Europa, roba da signori. L’anno sabbatico, dopo un anno passato a guadagnarselo, è un must dell’israeliano medio: dicono che dopo tre anni di esercito, in cui ti dicono ogni istante cosa devi fare e cosa non puoi fare, vuoi solo andare a zonzo dove davvero ti va di andare, tatuarti drogarti e farti stupire da quel che ti capita. Fishman sostiene che ormai la maggioranza dei nostri coetanei, tornati dal viaggio, si rimettono a lavorare un altro anno per poter ripartire. Sa con precisione quanto puoi guadagnare in Israele e con quale sistemazione, e quanto spenderai in viaggio e con quale sistemazione; ha fatto i suoi calcoli, i risparmi gli basteranno per quattro mesi di Sud America: quando li finirà tornerà. Perchè ritornano. Fishman la chiama ‘la corsa ai 30′, i 30 anni, età entro cui bisogna sistemarsi: studiare, trovare un buon lavoro, una buona israeliana e fare tanti bambini. Rimango spiazzato, non è esattamente il sogno che si aspetta da una generazione che si concede di fisso due anni di gozzovigliamenti per il mondo: piuttosto tatuatori, imprenditori di varia natura, scrittori, politici, musicisti, diplomatici. Invece Fishman mi assicura che in Israele non c’è ragazzo che non pensi ad essere padre con una sicurezza economica per tirare su famiglia, perchè questa è la gioia della vita e il suo scopo fondamentale. In effetti, così è per tutti i coetanei israeliani che conosco. E’ scioccato dal fatto che ci sono persone, in Italia e nel resto del mondo, che non la pensino così, che hanno scelto di vivere senza bambini per fare qualcos’altro: ‘Ma allora per chi stiamo a questo mondo? Di chi ci prendiamo cura? Ti assicuro, in questo Stato solo chi ha qualche problema rimane da solo, perchè nessuno vuole prenderselo. Nessuno sceglie volontariamente di restare solo’. Non abbiamo molto da dirci, solo da stupirci della reciproca alienità. L’impressione che ne ricevo, da qui come dall’ottimismo generale, la creatività, l’umiltà nel prestarsi a lavori di manovalanza, la consapevolezza della precarietà della vita, l’anti-ecologismo, il nazionalismo, è di un’Israele attuale come l’Italia del dopoguerra, quanto a mentalità, quando fare bambini era un’ovvietà.

L’impressione che danno gli israeliani, così gretti e realisti sulla priorità assoluta di realizzare i bisogni prima dei sogni, stride sempre con i dati che abbiamo su Israele, il secondo Paese più scolarizzato al mondo (e sicuramente uno tra i meno secolarizzati), il più sviluppato per imprenditoria giovanile, il più tecnologico nell’invenzione e l’impiego di sistemi energetici alternativi, uno tra i più variegati quanto a stili di vita. Quale magia avvenga nel passaggio dall’impostazione dell’esistenza individuale, così tradizionalista, all’organizzazione della coesistenza collettiva, così creativa, è un’altra cosa che mi ripropongo di scoprire.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...