Sarà passato più di un mese, ormai. Eravamo a una grigliata di compleanno sui tavolacci della spiaggia, con carne uruguayana trasudante sangue e birre gelide in sacchetti di plastica. La tavolata era divisa in due sezioni: kasher e non. Ricordo che rimasi stupito, per la prima volta in kibbutz mi capitava di imbattermi nell’osservanza religiosa. Dei commensali, in realtà, solo Noar è osservante: gli altri tre o quattro al suo tavolo osservano la sua osservanza, così, per solidarietà. Noar gira sempre col cappello, mimetica kippah nel territorio nemico dell’ateismo kibbutz. Oltre a lui, olandese, c’è il gruppone dei sudamericani, il francese Nino, un sudafricano e un americano mezzo iraniano; unico non dell’ulpan è Hamudi, arabo, collega di lavoro del festeggiato. La lingua veicolare è l’ebraico, macchiato di stralci di conversazione, battute e comunicazioni di servizio in francese, spagnolo o inglese. Il pranzo trascorre veloce tra i gossip del kibbutz e chiacchierate passatempo, sotto un caldo sole di primavera: i kite e i windsurf tagliano il mare davanti a noi, qualcun’altro approfitta dello shabbat per fare picnic e grigliate, in lontananza sulla sabbia.
Stiamo già raccogliendo le bottiglie vuote nelle casse dei vuoti a rendere, quando si arriva in qualche modo a parlare del pub e della sua frequentazione di esterni: il venerdì sera transennano l’ingresso ed entrano solo gli amici dei kibbutznikim e degli ulpanisti, o gli amici degli amici. Lo spazio è stretto, la musica pessima e la gente peggio: non mancano i pestaggi tra ubriachi, per questo il kibbutz ha infine predisposto il servizio d’ordine. La clientela è tutta della zona, da Hadera ad Haifa, e qualcuno puntualizza che non ci sono arabi. Una ventina di occhi si puntano su Hamudi, immediatamente tirato personalmente nella questione. Non ha mai visto un rifiuto esplicito di arabi al kibbutz, dice, più che altro non ha mai visto arabi in coda per l’ingresso. Racconta che a Zichron, meno di dieci kilometri da Maagan Michael, è stato più volte respinto all’ingresso: ‘Ci provano con qualche scusa, ti dicono che il locale è pieno e non c’è posto. Quando hanno le palle, al più ti dicono che hanno un certo tipo di clientela’. Ebrei, s’intende. ‘E sai cosa facciamo noi? Gli diciamo che se non ci fanno entrare gli diamo fuoco al locale.’ [‘vi diamo fuoco al locale’, testualmente, è lo slogan della più razzista tifoseria israeliana, il Beitar Gerusalemme, nato come satira e tristemente divenuto realtà, qualche mese fa, quando la tifoseria ha infine davvero dato fuoco ad una sede del club per protesta con l’acquisto di giocatori musulmani da parte della società. Amara ironia sentire questa frase in bocca a un arabo musulmano, perdipiù nel vivo di una recriminazione contro il razzismo degli ebrei.]
Con la nota aggressività sbruffona, la stessa del vecchio di Eilat (Il lato oscuro), del leghista varesotto e di tutti i calcinculisti di ogni tempo, continua: ‘Non ci fai entrare? E noi ti spacchiamo tutto. Sai quante volte siamo entrati e siamo usciti senza pagare? Certo, non si meritano i miei soldi questi qua. E prova a dirci qualcosa, se hai il coraggio. Io sono il cassiere qui al kolbo (il market del kibbutz), sai cosa? Da domani non faccio entrare gli ebrei, pensa un po’. Non mi ci vuole niente, lo faccio, non me ne frega un cazzo.’ La curiosità incalza da parte nostra: ‘E cosa succede se arrivi a casa ubriaco?’ ‘Se nessuno mi vede, niente, in casa non mi dicono niente. Anche mio padre beve. Ma davanti a un anziano del villaggio mai berrei una birra o fumerei una sigaretta, nessuno lo fa – s’infervora lasciando andare l’accento gutturale arabo in un ottimo ebraico – Voi non sapete cos’è il rispetto. Un anziano è un anziano, bisogna rispettarlo a testa bassa. Voglio bere? Però non davanti a lui’
‘Ma tutti sanno che tutti bevono, è ridicolo.’
‘Sbagli! Il rispetto prima di tutto, se non mi rispetti non puoi dirmi niente’. Siamo confusi e divisi, tra tutti, ma di comune c’è il sentore d’ipocrisia. ‘Quindi nel tuo villaggio non puoi compare la birra, però se vai dagli ebrei e la compri poi la bevi tranquillamente a casa?’
‘Da noi non si beve in strada, e basta. Non si discute, è una questione di rispetto e prima di tutto tu devi dare rispetto. Alle tradizioni, alla religione, agli anziani.’
‘E ci sono le discoteche dove abiti tu?’
‘Discoteche?? Ti giuro, puoi fare il giro di tutti i villaggi arabi di tutta Israele, non troverai una discoteca neanche a pagare un milione. Da noi non ci sono discoteche, e se provi ad aprirla salta in aria il primo venerdì sera’.
‘…però tu vai a ballare, dagli ebrei.’
‘Certo, dagli ebrei. Da noi non si può fare e basta, ed è giusto perchè sono brutti posti, con gli ubriachi e le ragazzine puttane. Da noi non si fanno queste cose.’
La discussione divampa, in focolai diversi della tavolata e in lingue diverse. A un certo punto si arriva a parlare del cibo kasher e della chiusura totale dei servizi pubblici di sabato. Ygal, sionista radicale, ‘ebreo nuovo’ senza religione ma piena cittadinanza israeliana, pur essendo nato e cresciuto a Montevideo, si scaglia contro le lobby religiose che tengono in pungo questo Paese rendendo la vita difficile alle persone normali e allontanandolo da quello che era il sogno secolare e democratico che gli diede i natali. Si alza pacata, allora, la voce di Noar che sentenzia: ‘L’ebraismo è una religione. Questo è lo Stato Ebraico, che rispetta le regole della religione. Non posso dirti che non sei ebreo, anche se sei ateo, perchè questo è peccato e solo Dio può farlo. Sei di famiglia ebraica, ma devi anche credere nella religione. Altrimenti cosa ti distingue dal goy? Altrimenti cosa distingue questo Stato dagli altri? Perchè dovrei vivere qui e non rimanere in Olanda?’. Ygal si agita, innervosito. E’ uno scontro tra titani, tra due correnti opposte e conflittuali dell’ebraismo e, in fondo, di teoria politica: secolarismo contro confessionalismo. Noar è lucido, ma glissa sulla mia domanda: quanta religiosità è sufficiente a rendere lo Stato Ebraico ebraico de facto? La religiosità di chi porta il cappello come kippah, di chi aspetta tre ore tra un pranzo di carne e uno di latte, di chi ne aspetta sei o di chi si fa crescere barba e ricciolini, si veste di nero, si chiude a studiare Talmud tutto il giorno, si sposa con una donna senza diritti ed istruzione che si rasa i capelli e mette una parrucca, fa tredici figli a cui non può garantire il pane a fine mese e a cui insegna a tirare pietre alle macchine che osano passare di shabbat? Da tremila anni i rabbini scrivono il Talmud, litigando su chi e come stia rispettando la mizvah (precetto di Dio), ciascuno rivendicando la vera religiosità che trova grazia agli occhi di Dio, e più il tempo passa più le divergenze crescono, le interpretazioni confliggono, le incomprensioni si incancreniscono. Lo stesso Noar ci dice che è all’inizio, che si sta ‘fortificando’ piano piano aggiungendo regole alla propria ascesi religiosa: punta ad arrivare in alto nell’osservanza, ed essere così un buon ebreo. Ma il punto è, a dove deve puntare la legge dello Stato? A quale ebraicità e di quale livello si può fermare Israele e compiacersi della propria identità? Di certo, a nessuna delle correnti interne andrà mai bene qualunque compromesso. L’equilibrio attuale, tendente sempre più alla confessionalizzazione di quello che nato come Stato d’ispirazione comunista-atea, non accontenta Noar, che ritiene lo Stato degli ebrei troppo simile a quello dei non ebrei. ‘Sia chiaro, uno Stato davvero ebraico non può essere democratico’. Naturale, uno Stato costituzionalmente confessionale non riflette necessariamente il sentire dei suoi cittadini, ma ne norma i comportamenti di fatto considerandoli sudditi: esprime come dovrebbero essere, non come essi sono.
L’intero scambio di battute durò in tutto un quarto d’ora, non di più. Mi ci è voluto un mese di rimuginamenti e dormite su per capire cosa è veramente successo in quella tavolata: una visione della complessità senza speranza di semplificazione della multiculturalità per compartimenti stagni israeliana…o quasi. In quella grigliata di compleanno si sono mescolate le carte, nonostante tutto. Il risentimento degli arabi e la loro ipocrisia, il fascino del sionismo e la sua fragilità, la coerenza dell’integralismo e la sua inattuabilità. Già, l’integralismo religioso è la grande rivelazione. Col suo cappellino-kippah e il suo cibo kasher, Noar sembra così lontano da noi; così vecchio si direbbe in Italia: chiuso nelle sue superstizioni e formule magiche, preghiere mormorate in una lingua mistica aspirando ad una vita di esercizio spirituale attraverso un irreggimento delle più banali azioni quotidiane. Quel che rinfaccia ad Ygal, ventenne qualunque da Montevideo, Milano e Melbourne eppure ‘diverso’ per qualche inspiegabile inciampo metafisico che neppure lui sa spiegare, è che membro di una religione è chi ci crede e lo dimostra nei fatti, a prescindere da dove e da chi è nato. Quella che abbiamo studiato come la grande apertura del Cristianesimo, l’universalismo contro il particolarismo dell’ebraismo precedente, è accolta senza battere ciglio dall’integralista Noar per cui ebreo è solo chi segue l’insegnamento della Torah, fatto salvo l’occhiolino al divieto di contestare l’ebraicità di un altro ebreo. Da questa illuminata considerazione l’integralista conclude che lo Stato Ebraico è fatto per i fedeli, e non per gli appartenenti non meglio specificati, e addirittura arriva a rendersi conto che un tale Stato non è compatibile coi principi democratici. In questa gabbia di pazzi tra tutti il più ragionevole mi sembra Noar, nonostante l’orrore delle conclusioni a cui arriva.