Il sistema degli uomini straordinari

Ci sono molte ragioni per cui non vivrei in un kibbutz, neppure uno tanto ricco come Maagan Michael, tutte connesse alla ristrettezza di spazi: vedere le stesse persone tutti i giorni in sala da pranzo, e viceversa essere visto da loro; sentire i racconti di ciò che questo ha detto e quello ha fatto, senza però aver mai scambiato una parola né con questo né con quello; avere contatto visivo quotidiano con tutte le possibilità di carriera che il kibbutz offre e percepire lo spazio della propria iniziativa individuale stretto entro i rigidi paletti delle decisioni comunitarie. La subordinazione alle burocrazia comunitaria per l’ottenimento di lavoro e casa, tutto sommato, passa in secondo piano (si tratta sempre di lavori piacevoli e case più che decenti), rispetto alla costrizione a stare così tanto insieme, così tanto vicini e per così tanto tempo. Nessun paesino di campagna, nessuna setta religiosa ha paragonabile influenza del collettivo sull’individuale come ne ha il kibbutz, e non è una questione economica. Prendiamo il caso del divorzio: quando una coppia di membri del kibbutz divorzia ad ognuno viene assegnata una casa capace di ospitare i bambini, che a distanza di massimo dieci minuti a piedi possono stare con la mamma o col papà, e mangiare con uno o con l’altro in mensa a piacere. Le spese di mantenimento, come per tutti i bambini, sono a carico del kibbutz. Il comunismo del ricco kibbutz Maagan Michael (come anche Yotvata) offre al divorziato una sistemazione economica e logistica eccellente, inesistente ‘fuori’. Quel che chiede in cambio, però, è continuare a lavorare fianco a fianco dell’ex nei campi o nella fabbrica finchè si liberi un altro posto di lavoro e la richiesta di trasferimento venga approvata, vederlo ‘uscire’ (come si può uscire qua dove tutto è dentro? La nozione di appuntamento è molto confusa, qui nel kibbutz) con un altro kibbutznik che conosci da quando sei bambino (perchè tutti si conoscono da quando sono bambini, tutti hanno giocato nel moadon con gli ulpanisti, tutti sono stati in barca insieme nella lezione di vela, tutti hanno fatto le gite comunitarie insieme, tutti hanno ballato insieme alle grandi occasioni), e col tempo veder sbiadire quel briciolo d’intimità che si era rosicata negli anni finchè anche l’ex si riduca a personaggio, comparsa o sfondo della trama di racconti della sala da pranzo. Quando la sottomissione alla comunità è così conveniente come nel ricco kibbutz Maagan Michael, è chiaro che il vero prezzo da pagare è l’assenza di privacy. Molti sostengono che sia un prezzo irrisorio, visto lo stile di vita che se ne guadagna, ma io credo che non abbiano osservato abbastanza. Ci sono facce meno note, facce che sgusciano via appena possibile, che non siedono e non discutono alla caffetteria, facce che non salutano e non hanno niente da raccontare, da commentare, da puntualizzare, da rinfacciare. Ho avuto modo di conoscerne personalmente qualcuna di queste facce, insofferenti alle cavillose questioni e agli infiniti pettegolezzi del kibbutz e arrabbiati, logorati dalla lotta per l’intimità: sono quelli che cercano di starsene in pace per conto proprio, con la propria famiglia e il proprio giardino, in un luogo in cui i giardini sono solo pubblici e per molti anni non è esistito il concetto di famiglia. In qualche modo, cercano di non pagare il prezzo dovuto. Il ripiegamento sul ‘proprio’ e la sua tutela è un salto discreto, talvolta addirittura una lucida scelta di rottura col sistema: Merav, a Yotvata, me lo aveva insegnato con la sua ascetica alienazione dal costante brusio dell’universo kibbutz. Yadid, sempre al bancone dei gelati di Yotvata, aveva a sua saputa sintetizzato tutto in una massima: ‘Guarda come si siedono in sala da pranzo: se rivolti all’assemblea dei commensali, per vedere e controllare chi si siede con chi e a quale tavolo, o se di spalle, mangiando a testa bassa’. Da quel giorno iniziai a farci caso: io mangio sempre rivolto al salone.

Senza una buona dose di ficcanasismo, il kibbutz è morto: dove finisce la vita privata e dove inizia la vita pubblica, dove finisce il pettegolezzo e dove inizia la politica, in un posto dove i servizi più essenziali, dal cibo alla casa, sottostanno a criteri ugualitari e collettivi?

Quando giunse il giorno in cui alla maggioranza dei kibbutznik non piaceva il cibo della mensa, avvenne la più significativa rivoluzione economica di Maagan Michael.

Il biennale iter di selezione del candidato kibbutznik valuta soprattutto la personalità, i modi, il linguaggio, i gusti del candidato: il rifiuto è puntualmente legato a una qualche brutta storia da sala da pranzo, e non ad una mancanza sul luogo di lavoro.

A Plasson, la fabbrica del kibbutz, lavorano attualmente 1400 persone, la maggior parte non membri del kibbutz. Come in ogni azienda, c’è bisogno di chi dia gli ordini e di chi li esegua: il punto è, allora, chi sei tu kibbutznik, par inter pares, per dare ordini a me pure kibbutzink? Nessuno si piega, e la situazione degenera: disobbedienza, fraintendimenti, discussioni, petizioni di principio sull’uguaglianza di tutti i membri. Col tempo, gran parte dei dirigenti sono stati assunti da fuori il kibbutz, sorta di podestà a cui tutti i kibbutznikim, ugualmente altezzosamente padroni della fabbrica, obbediscono pur senza piegarsi.

Il segretariato del kibbutz è diviso in commissioni, l’esecutivo delle decisioni collettive prese a maggioranza. Prendere decisioni, in un ambiente tanto angusto, vuol dire sempre fare un torto a qualcuno, qualcuno con cui bene o male si è cresciuti insieme. Qualcuno che magari si è soliti invitare a cena il sabato sera, i cui figli vengono a casa tua il pomeriggio, qualcuno la cui nipote è tua genera. Vista l’assenza di candidature volontarie, negli anni è stata introdotta una parziale rotazione degli incarichi, di modo che tutti prima o poi si debbano sporcare le mani; ma la questione resta irrisolta. Al fondo, comunque, è chiaro a tutti che proprio chi è pronto a sporcarsi le mani è il vero kibbutznik, quello che crede sia giusto e bello vivere così, nonostante la fatica, e paga il prezzo fino in fondo esponendosi di petto al vespaio. Da quel che sento dire in giro, e già avevo sentito a Yotvata, è una razza in via d’estinzione: il ripiegamento sul ‘proprio’ imperversa.

Qui ci sono firme, firme che ritornano e raccolgono le diverse correnti in cui anche più menefreghisti, alla fine, si riconoscono o meno: su petizioni, avvisi, comunicati, manifesti, eventi, sono le firme degli attivisti del kibbutz. Una settimana fa in sala da pranzo era allestito il banco delle urne, si votava per la restrizione o meno della metratura delle nuove abitazioni, da 160 a 140 metri quadri: tema spinoso, vista la mancanza di spazio fisico che strangola il kibbutz. Un fascicolo di 4 o 5 pagine, firmato da un tal kibbutznik, argomentava la petizione, con toni vagamente retorici di richiamo al bene della comunità e alla sua storia, ricordano da dove si era partiti e di come ci si è abituati bene con gli anni. Hudi, il mio capo allo zoo, si ferma a votare mentre usciamo dopo la pausa colazione: non legge neanche il fascicolo, segna la sua scelta SI-NO alle varie domande del questionario e lo infila nell’urna.

A suon di proposte e petizioni frutto dell’impegno civico di singoli, il kibbutz cambia. L’altra faccia degli spazi stretti, infatti, è l’autodeterminazione della comunità: quel che è sottratto a livello individuale è restituito con interessi a livello collettivo. Regolamentazione edilizia, investimenti etici, sistema pensionistico, tassazione, circolazione del traffico e giù giù fino al colore dei lampioni, praticamente nulla sfugge al diretto controllo dell’assemblea dei membri e dei suoi organi rappresentativi. Noi abituati a vivere ‘fuori’, da soli nel grande oceano di Stati, banche e mercati, non possiamo nulla contro i suoi grandi problemi; o almeno, così crediamo: ho lasciato l’Italia in balia dello spread, misteriosa entità che avrebbe deciso il nostro futuro senza che nessuno sappia spiegarci cosa sia e chi l’ha voluta. Il kibbutz, invece, rinchiude in una bolla di 6 km di diametro e 2000 anime la realtà sociale e i meccanismi che la muovono, offrendo l’occasione di studiarli da vicino e gli strumenti politici per modificarli.

Fino a pochi anni fa Maagan Michael aveva una produzione intensiva di banane: immensi campi coperti da sottili ‘zanzariere’ biancastre d’inverno e ora aperti per l’estate, con i frutti impacchettati in sacchetti di plastica blu affinchè maturino in fretta e gli uccelli non li rovinino. I bananeti richiedono una grande manodopera e una gran quantità d’acqua, e il kibbutz sopperiva assoldando lavoratori esterni per quello che è uno dei lavori, tra tutti, più faticosi e meno qualificati. Con gli anni si è alternata manodopera etiope, araba, sudanese e infine thailandese, a seconda di chi fossero i più miserabili sulla piazza: era quello che oggi si chiama lavoro precario, alla giornata senza garanzia e senza diritti. Le discussioni salirono nel kibbutz, qualche firma richiamando il principio autarchico di riferimento per cui la comunità stessa deve sopperire ai propri bisogni senza ricorrere ad esterni che lavorino per il kibbutz senza godere in qualche misura dei suoi servizi, e qualche altra rimandando al più generale diritto dei lavoratori a garanzie e dignità. Shifra, nella lezione del primo maggio, ci racconta che infine passò a maggioranza l’abbandono dei campi di banane per l’investimento sugli avocadi, di più facile coltura con macchinari da lavoro. Così, conclude orgogliosa, Maagan Michael eliminò dal proprio sistema il precariato con un’elegante soluzione: i thailandesi stipati in baracche a pochi kilometri dal kibbutz e pagati alla giornata per lavorare in una nuvola di zanzare sotto il sole bollente vennero integrati nel kibbutz come studenti di agricoltura, beneficiando di un sussidio ministeriale, e alloggiati in un quartiere tutto loro che resta qui a pochi metri dall’ulpan, lavorando nei super tecnologici filari di avocado per cicli semestrali accreditati presso il ministero. Hanno accesso ai servizi come tutti noi abitanti del kibbutz, vivono in camere singole con aria condizionata e, ci confessa Shifra, se la passano meglio di noi ulpanisti. Certo, si obietterà, è stata una scelta garantita dalla fiorente situazione economica del kibbutz, che può addirittura permettersi di fare il signore concedendo ai propri lavoratori diritti extra: vero, ma resta il fatto che questa scelta l’hanno fatta, quando potevano tranquillamente continuare con lo sfruttamento.

Non ho seguito come sia andata a finire, ma lo stesso vale per le concessioni edilizie di cui sopra: si vota in un giorno per il SI o il NO, e dal giorno dopo la metratura consentita è ridotta o aumentata del 10, 15 o 20%. ‘Fuori’, bisogna scrivere la petizione, raccogliere migliaia di firme, mandarle all’ufficio a Roma con tutti i bollini giusti sennò viene tutto annullato, sollecitare la pratica, sperare che venga vagliata da una qualche commissione parlamentare, approvata e che quindi torni indietro nel percorso di attuazione dalle regioni alle province ai comuni e, infine, ai palazzinari. Gli italiani lo hanno fatto con la legge popolare di abolizione dei privilegi parlamentari, per dire il caso di punta, e il fascicolo giace intonso in qualche cassetto in qualche ufficio di una qualche maggioranza parlamentare, che complice la legge elettorale nessuno ha scelto. Non è prevista una ulteriore procedura per attuare quella che è già una legge dello Stato italiano, stando alla Costituzione.

Il minuscolo kibbutz, asfissiante nel suo calpestare la vita privata e trascinarla nell’agorà sotto gli occhi di tutti, è d’altra parte di facile analisi e immediata manipolazione, e questo investe i suoi membri politici di grande responsabilità etica: ciò che raccontano, fanno, scrivono, votano cambia la condizione di vita di tutti, dal cibo che mangiamo al numero dei wind surf nel club velico. Nonostante gli atteggiamenti borghesi di superficie e gli strenui sforzi di molti nell’emanciparsi dal Grande Fratello, la struttura politica di Maagan Michael resta radicalmente diversa (non saprei come altro definirla), perpetrando contro la loro volontà, e spesso a loro insaputa, la leggenda di questi uomini straordinari. 

Mappa di Maagan Michael

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...