La leggenda degli uomini straordinari

La recente tornata di festività da Pasqua al giorno della Shoah al giorno delle vittime di guerra fino al giorno dell’Indipendenza ha scosso d’improvviso la routine di Maagan Michael illuminando il contrasto con Yotvata. E’ finalmente comparsa anche in questo “Club Med” di kibbutz la comunità, omogenea e dominante, che a Yotvata percepivo quotidianamente. Se laggiù nel deserto era nelle tute di lavoro a pranzo e nei mezzi pigiama la sera, nell’assoluta trasparenza senza segreti nelle reciproche vite, nei kibbutznikim turnisti al caffè o in sala da pranzo, nei dirigenti del Miznon a spazzare i gabinetti, nelle preparativi della festa al Pashara come nelle pulizie del giorno dopo, qui nel ricco ‘centro’ dove c’è sempre qualche esterno pagato per far funzionare la vita dei kibbutznikim l’occasione è stata il dolore. Il giorno della memoria delle vittime della guerra e del terrorismo ha portato musi lunghi, bandiere alle finestre, fotografie vecchie e nuove, molto nuove, nel caffè arredato a memoriale. La celebrazione di lunedì sera, inaugurata dal minuto di sirena in tutta la nazione, ha raccolto l’intero kibbutz sul prato centrale, sull’attenti all’issaggio della bandiera a mezz’asta. Il silenzio è infine arrivato pure qui. Dai gesti minimali è trapelata l’appartenenza: le camicie bianche, i saluti severi e gli abbracci appartati. Tutti, perfino noi ulpanisti, conoscono i ‘feriti’. C’è la vedova della guerra d’Indipendenza, il fratello rimasto solo per i Sei Giorni e il figlio che ha vaghi ricordi del padre prima del Libano. C’è Yaron, il direttore dell’ulpan, in visita alle famiglie dei suoi migliori amici carristi dello Yom Kippur, morti nell’adempimento a un suo diretto comando. C’è il fratello di Chen, altra nostra responsabile, sorridente da una delle foto nel memoriale-caffè. Su un tavolino in centro sono sparpagliati libricini di foto e lettere dei caduti, celebrazioni delle loro normalissime vite dalla nascita alla morte in missione o in incidenti: tutto si è svolto nel kibbutz. La stessa sala da pranzo, la stessa spiaggia, lo stesso moadon, lo stesso zoo, lo stesso tramonto sulle isolette, gli stessi kibbutznikim abbracciati alle feste in maschera, solo un po’ più giovani sulla carta ingiallita. Qualcuno ha pensato a questi libricini, ha spulciato tra le foto proprie e degli amici, a raccolto gli scambi epistolari con fidanzate e amici d’infanzia, ha rilegato e regalato il tutto alla comunità, una volta per tutti i giorni della memoria a venire. Fantasmi di kibbutznikim che aleggiano là dove per il resto dell’anno noi vivi sorseggiamo caffè e risate. Mai avevo visto tanta morte insieme e soprattutto mai morte d’odio istituzionalizzato e spersonalizzato, morte per cui un nemico ha gioito.

All'ingresso del caffè, al posto dei divani.
All’ingresso del caffè, al posto dei divani.

Già, il nemico: a guerra, come l’amore, si fa in due. Con mio sollievo, la politica non fa breccia nel dolore della comunità e così nella nostra rispettosa condoglianza: per una volta, tra noi dell’ulpan seduti a sfogliare i libricini e a riconoscere facce, si parla di di chi, di dove, di cosa e di quando senza arrivare a tirare in ballo i perchè. E’ chiaro a tutti, sionisti religiosi o pacifisti, che non stiamo commemorando la Guerra, ma la vita guerrieri in quanto uomini. C’è il resto dell’anno per cercare di dare un senso alla loro morte e, magari, arrivare a darle del ‘sacrificio di eroi’. Ben Gurion decise di forzarci la mano, mettendo il giorno dell’Indipendenza dello Stato d’Israele adiacente al giorno della memoria.

Anche a Maagan Michael, quindi, c’è comunità. E’ grande, troppo grande per essere padroneggiata con saluti per nome cognome e soprannome, aneddoti e giudizi; ci sono kibbutznikim che non si salutano, che non si stanno simpatici né antipatici, semplicemente non si conoscono, non si sono mai parlati. E’ ricca, abbastanza da non costringere i membri ai turni in lavapiatti al sabato. E’ importante, centro di produzione e di richiamo per migliaia di lavoratori da fuori, dalle altre cittadine in cui i kibbutznikim hanno vita sociale; niente a che vedere con l’isolamento che faceva di Yotvata un’isola socialmente autarchica. Maagn Michael si presenta come un villaggio, per molti aspetti turistico. Tuttavia la festa, come il lutto, tira fuori una comunità né paesana (troppo blanda) nè familiare (troppo naturale), perchè il kibbutz non è un clan: i membri entrano ed escono senza vincolo di sangue. I kibbutznikim abitano in ville sul mare, hanno lauree e dottorati di ricerca, laboratori e fabbriche, hanno piscine e palestre, ristorante e lavanderia, zoo, ranch, centinaia di macchine a disposizione, vacanze. Soldi. Dove, in questo paradossale suburb senza staccionate e lucchetti, si annida il comunismo alla base dell’ideologia kibbutz? Non nello stile di vita, se vogliamo legare il comunismo alla povertà e all’umiltà proletaria. Ma se invece il comunismo è un modo di produzione e distribuzione della ricchezza, Maagan Michael è uno degli esempi di comunismo meglio riusciti al mondo: chi ha detto che bisogna restare poveri? Nessuno sa quanto ancora durerà, ma ad oggi la maggioranza dei membri preferisce ricevere il budget mensile uguale per tutti piuttosto che lo stipendio personale, e delegare molta della propria autodeterminazione, dalla casa al lavoro all’educazione dei figli, alla comunità. La privatizzazione del kibbutz, oggi, renderebbe ciascun membro oscenamente ricco: d’improvviso una casa di proprietà sul mare più bello d’Israele, quote di una fabbrica hi-tech con succursali in tutto il mondo, percentuali sulla produzione di pesce, latte e frutta per la distribuzione nazionale, lavoro altamente professionale garantito. Roba da sistemarsi per generazioni. Quel che è chiaro, una volta superato l’impatto col lusso della loro vita, è che i kibbutznikim stanno rinunciando allo yacht personale, a cui il budget del kibbutz non arriva, per mantenere l’uguaglianza sostanziale nell’accesso ai servizi. Per quanto già di alto livello, lo stile di vita dei membri non è il più conveniente, economicamente parlando. La fazione dei privatisti, che già nella maggioranza dei kibbutz ha infine prevalso, minaccia l’imminente crisi e ammonisce: meglio spartirsi il gruzzolo piuttosto che i debiti.

Una delle attività del doposcuola.
Una delle attività del doposcuola.

All’obiezione del kibbutznik per cui la forza sta nell’avanzare insieme ottimizzando la spesa e le energie (una commissione che paga le tasse allo stato per tutti, un catamarano a disposizione di tutti, un parco auto comunitario accessibile a tutti, una cuoco che cucina per tutti e una lavapiatti che lava i piatti di tutti) il privatista risponde che con i soldi dello stipendio personale ciascuno potrà pagarsi il proprio commercialista, la propria lavastoviglie e la propria macchina, e solo se vorrà pagherà il maestro di surf e la visita allo zoo. Si cercherà lavoro da solo e non chiederà il permesso per licenziarsi o cambiare settore, non condividerà i frutti del proprio lavoro con stupidi e fannulloni (che a quanto pare, complice la mancanza di motivazione ideologica e la grande ricchezza, abbondano). Libero della zavorra del gruppo, potrà addirittura fare carità al prossimo per un ammontare maggiore di quel che il comunismo gli garantirebbe. E’ una sfida non pensarla così: in fondo, perchè continuare a rimanere insieme, oggi che neppure ci si saluta in sala da pranzo, che non ci si conosce e non si lavora nei campi insieme? Perchè sottostare a una commissione che decide quale lavoro farò, per quanti anni, in quale casa abiterò, quale macchina userò lunedì prossimo, quanto del mio lavoro andrà in tavole da surf e quanto in capre dello zoo. Ci diceva Shifra i primi giorni “lo stile di vita ha un suo peso: si vive alla grande già con il budget, senza bisogno di privatizzazione”, ma quando è abbastanza? Ora che hai la villa, vuoi dirmi che non vuoi lo yacht? Io credo, e soprattutto voglio credere, che il comunismo strutturale di Maagan Michael sia figlio di una precisa convinzione etica della maggioranza dei suoi membri, e non dell’inerzia o dell’impossibilità logistica a passare al capitalismo. E d’altra parte, se così non fosse, non saprei proprio come spiegare il senso di comunità che, malgrado lo stile di vita individualista ‘come se’ fossimo nel suburb americano, domina i singoli e li unisce nel profondo.

Non mancano cattivi presagi. A Yotvata la sala da pranzo è libera, a Maagan Michael ciascuno paga quanto consuma con la propria carta-budget. La privatizzazione della sala da pranzo, proprio il cuore della vita politica e sociale, ‘l’agorà’ del kibbutz, è un duro colpo. D’altronde, si era ormai imposto l’andazzo di portare le cotolette a casa per il cane o, peggio, sprecare intere porzioni. A pranzo coi bambini, che ancora non hanno la carta-budget ma pescano dal carrello, vedo ogni giorno interi piatti finire nel cestino nella più assoluta indifferenza degli educatori. Dal momento della privatizzazione la qualità della mensa si è impennata: più cuochi, più piatti e più gustosi, e ciascuno prende ciò che vuole a proprie spese. Alla fine è sempre la sala da pranzo a racchiudere le grandi verità dell’intero kibbutz: come a Yotvata (Ma chi ha inventato i lucchetti?) tutto funziona finchè l’individuo identifica l’utile del kibbutz, cioè degli altri individui, come il proprio. Come si rompe l’incantesimo il tutto risulta immediatamente sbagliato, ancor prima che insostenibile. Se nonostante tutto la baracca resta in piedi, i kibbutznikim di Maagan Michael sono uomini straordinari, per quanto ricchi e snob più dei borghesi americani.

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