La più suggestiva

Beer Sheva è una città di frontiera in molti sensi. Il primo è sicuramente climatico: al limitare del ‘centro’ ricco di acqua e di normalità, è l’ultima vera città prima dell’enorme deserto che si stende, senza interruzione, fino al Sahara e agli estremi della penisola arabica. Lo stesso nome (beer, pozzo, e sheva, sette) sottolinea l’importanza territoriale del luogo, la cui fondazione è fatta risalire ad Abramo: da qui in poi verso sud e verso est, ci dice la Storia, nessuna civiltà si è mai stabilizzata, sono solo transitati piccoli clan di beduini nomadi. Quel che ho scoperto due weekend fa, ospite di amici che studiano a Beer Sheva, però, è la capacità del luogo di suggerire e suggestionare frontiere temporali. Già dalla mia brevissima esperienza al cambio bus verso Yotvata, a novembre (Il grande passo), avevo assaggiato con discreto sconcerto la varietà di frontiere umane accalcate sulle polverose panchine della stazione. Al mio ritorno, venerdì scorso, resto a bocca asciutta sbarcando in una stazione al coperto, pulita, senza venditori ambulanti, senza cammelli parcheggiati alle ringhiere, senza rodeo sterrato con bus in perenne sgommata. All’uscita, attraversato il lungo corridoio climatizzato di negozi e ristoranti, mi rendo conto che è la stessa stazione: fuori ci sono 30 gradi, e sono passati quattro mesi dalla mia prima visita. A quanto pare, sono bastati a cancellare ogni traccia di esotismo e rendere la stazione centrale di Beer Sheva concorrente, in efficienza, a Porta Garibaldi a Milano; a far sfigurare Principe a Genova. Riunitomi agli amici, mangiamo in un ristorante asiatico della stazione e facciamo la spesa in un colossale supermercato fornito di…tutto! Formaggi francesi e italiani originali, prosciutti e salami d’emilia, alcolici da tutto il mondo compresi 12 tipi di vodka (contati), ogni forma di animale in reparto macelleria, pesce fresco dal Mediterraneo, corsie e corsie di cioccolatini da Italia, Belgio, Stati Uniti. Un intero settore è macelleria-griglieria messicana, con angolo wurstel importati dalla Germania: sembra l’oktoberfest. E’ una catena di supermercati russa, mi spiegano, ed è risaputo che i russi si fanno un baffo di qualsiasi regola alimentare ebraica: fosse per loro, mangerebbero anche i cani.

In serata cuciniamo e mangiamo a oltranza, si parla dell’essere studenti a Beer Sheva o ulpanisti a Maagan Michael. Mi accorgo che è la prima volta, in tutti questi mesi, che siedo a una tavola di soli coetanei israeliani di nascita. Per loro, è la prima volta che incontrano un ulpanista di Maagan Michael, con i suoi racconti su come Israele dà il primo benvenuto ai nuovi immigrati freschi di aliah. Sabato facciamo una gita fuori porta, che mi era stata consigliata da un’amica al kibbutz. Si tratta di un’enorme foresta poco a nord-est di Beer Sheva, sui monti di Hebron, al confine coi territori occupati. Yar Yatir è costituita prevalentemente di pini marittimi, disposti con ordine su decine di colline a perdita d’occhio nella foschia, una sorta di altipiano a cavallo tra il Negev, parte del deserto ‘globale’, e il deserto di Giudea, fenomeno tutto israeliano dovuto al salto di -500 metri sotto il livello del mare del mar Morto: da Gerusalemme in poi, giù giù verso Gerico, le precipitazioni si fanno pressochè assenti per riprendere solo sui monti giordani al di là della valle del Giordano, ormai sulla placca continentale asiatica. La foresta è interamente artificiale. Non ho capito perchè sia stata piantata, sta di fatto che la bolla d’ombra da essa generata trattiene l’acqua nel terreno permettendo la sopravvivenza e addirittura l’espansione del bosco di collina in collina. Qua e là tra le valli e le salite incontriamo targhe e monumenti, il che mi fa pensare che l’impresa sia stata finanziata da filantropi ebrei, da tutto il mondo a giudicare dai nomi incisi nell’ottone: c’è un certo Tedeschi, italiano, poi cechi, francesi, croati, inglesi. Giungiamo al termine del sentiero: lunghi filari di frutteti in fiore, vigneti e rovine in una radura.

Le rovine di Yar Yatir
Le rovine di Yar Yatir

Sotto le rovine, scopriamo, si trovano enormi caverne a prima vista preistoriche, al momento occupate da una famigliola in pic-nic al fresco. Gli antri si estendono sotto quello che rimane di un tempio con colonne doriche e strade in stile romano, in intricati pertugi in cui si passa solo strisciando: ci limitiamo a dare un’occhiata alla luce di candele che qualcuno ha disposto nelle varie ‘sale’. Leggiamo su internet che sono rovine del tempo di Erode, edificate su quello che doveva essere un territorio sacro dei locali. Poco oltre i frutteti il filo spinato e le torrette di osservazione in cemento armato segnano l’inizio della West Bank. Al check point solo qualche soldato annoiato, ci guardano con curiosità fare manovra e tornare indietro.

Yar Yatir è proprio un bel posto, attrezzato per campeggio e grigliate con punti panoramici e sentieri tracciati. E’ anche tappa del Sentiero d’Israele, che si snoda per tutto il Paese dal profondo nord al profondo sud. L’esperienza vera, però, è la strada da Beer Sheva. Lasciata la periferia di cinema e centri commerciali, infatti, iniziano campi coltivati e oliveti; sul ciglio della strada compaiono i primi pastori beduini, seduti col bastone in mano o a cavallo d’asino, scuri e sporchi sullo sfondo bianco e pulito dei prefabbricati degli ultimi quartieri residenziali ebraici. L’attenzione cade sulle bandiere d’Israele, alte nel cielo dalle torrette degli insediamenti cinti nelle loro palizzate. La strada si fa più tortuosa, il panorama più arido e la carreggiata più ingombra: dal finestrino scorrono qua e là cammelli, carcasse di auto, cerchioni e pneumatici, sacchetti di plastica e rifiuti di vario tipo. In prossimità dei villaggi, che iniziano a punteggiare qua e là un panorama di larghe dune rocciose totalmente prive di alberi e ricoperte, ancora per poco, di un’erbetta striminzita, aumenta il traffico e i rifiuti a bordo carreggiata: capre e bambini in libertà, macchine e pick-up su vie sterrate che collegano una catapecchia di latta a un capannone di plastica nera, antenne paraboliche sulle poche case in cemento con armatura a vista, panni stesi ad altezza uomo, recinti per le pecore costruiti con vecchie reti da materasso. Uomini dalla pelle scura in vestiti da tamarri di periferia inchiodano lo sguardo sullo straniero che passa per le loro terre finchè non scompare; i bambini salutano e gridano qualcosa, tornando a sospingere le pecore sul ciglio della strada.

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Sono i beduini di oggi, figli di stirpi nomadi che per centinaia d’anni hanno gironzolato per il deserto inseguendo acqua e piccoli commerci. Appartengono alla grande famiglia dei musulmani ma non hanno mai avuto senso di appartenenza con gli stati arabi; sono sempre stati schivi e sfuggenti, sguscianti là dove nessuno si addentra: ad oggi sono arruolati nell’esercito israeliano come guide del Negev e del Sinai; nei secoli hanno onorato rigorose leggi di ospitalità per lo straniero che bussasse alla loro tenda: tre giorni e un terzo di vitto, alloggio e protezione, tre tazze di caffè di fresca tostatura, le loro tende prevedevano sempre un quarto dedicato all’eventuale ospite. Ora che anche in Medio Oriente ci sono confini e dogane, le loro rotte sono state spezzate e così il loro stile di vita: in Israele per molte famiglie è la prima generazione di sedentari. Il governo fa pressioni affinchè si stabiliscano in insediamenti definitivi, ma la maggior parte di loro vive ancora in piccoli villaggi ‘mobili’ con allacciamento abusivo a elettricità e acqua, senza fognature né gas, senza illuminazione, senza scuole né ospedali, senza strade asfaltate; ancora oggi vivono di piccola pastorizia e commerci, ma prevalentemente di furti. Rubano tutto, dicono gli israeliani, dalle auto ai furti in appartamento ai magazzini, ma il bottino più ghiotto sono le bombe: s’infiltrano nelle basi militari di notte e trafugano ciò che trovano, dalle munizioni delle mitragliatrici alle bombe dei carri, da rivendere al primo offerente per pochi shekel o addirittura da smembrare per rivenderne il ferro; non hanno paura né rispetto per nulla. Netta racconta che al tempo del suo addestramento militare capitava che si infilassero nel poligono di tiro per raccogliere i bussolotti vuoti degli M-16…ad esercitazioni in corso! I figli dei beduini non vogliono fare i pastori, vogliono seguire le macchine che passano fino in città: stanno sul ciglio della strada e fanno segno di fermarsi, chiedono un passaggio in arabo o in ebraico, e al rifiuto gridano parolacce e insulti. In zona c’è una città beduina, Hura, la vediamo dalla strada: alle periferie le solite baraccopoli, ma dal centro si staglia un minareto circondato da case in muratura dai pacchianissimi colonnati alle finestre e speroni di ferro d’armatura penzolanti dal tetto. Agli angoli di una discarica a cielo aperto pascola una cammella col suo cucciolo. Mangiamo uno shawarma di pecora eccezionalmente gustoso, seduti di fronte alla macchina parcheggiata: saremo prevenuti, ma meglio evitare brutte sorprese.

Il governo israeliano investe enormi energie per lo sviluppo di Beer Sheva. Da stazione di polizia ottomana che era, con gli ottimi collegamenti con il centro del Paese e l’apertura dell’Università del Negev negli anni ’70 è diventata in breve tempo la capitale degli studenti, attratti dalla novità, dalla stranezza e dagli incentivi: il costo della vita è basso, gli enormi spazi non pongono limiti all’espansione territoriale e alla creatività, l’isolamento genera senso di appartenenza. L’università comprende centri sportivi, ristoranti, giardini, pub, e quindi squadre, club, gruppi ed eventi di ogni genere, in una presenza sociale ben oltre i dormitori e le biblioteche.

Appena prima del via, la fiamma rossa in primo piano è il logo dell'università.
Appena prima del via, la fiamma rossa in primo piano è il logo dell’università.

Il giorno cui ho visitato la facoltà di Scienze Cognitive, per ascoltare una conferenza di linguistica, era organizzato nel salone centrale un domino di proporzioni gigantesche per festeggiare l’inizio del secondo semestre: un colossale lavoro da 50 mila pedine, disposte in righe, disegni, scritte, piramidi, costruzioni di vario tipo, svolto da quattro studenti in tre giorni: 15 minuti di domino, centinaia di spettatori e diverse televisioni a riprendere l’evento, che abbiamo poi visto al telegiornale nazionale la sera stessa; il livello accademico dell’Università del Negev è altissimo, e in continua crescita. Da parte sua, lo Stato sviluppa progetti per la città: una foresta artificiale a nord, abitata da cammelli apparentemente selvatici e anch’essa estesa a perdita d’occhio, dal finestrino del treno, in cui a breve apriranno la ‘spiaggia’ di Beer Sheva: un enorme lago artificiale con spiagge e barche a vela, con tanto di fiume affluente tra le colline; le piste ciclabili sono già ovunque, sia in centro che in percorsi fuori città; quattro nuovi centri commerciali sono in costruzione, nelle vicinanze dei nuovi quartieri residenziali; architetture d’avanguardia spuntano un po’ ovunque, dai grattacieli alle fontane ai cavalcavia; il centro storico è stato completamente ristrutturato e lanciato nel turismo internazionale: Beer Sheva è tappa standard dei tour verso Masada e il Mar Morto. Esteticamente, Beer Sheva stupisce per l’abbondanza d’acqua: è sfoggiata ovunque in fontane, aiuole ben irrigate e foreste artificiali, al punto da sembrare uno spreco. In un posto così arido e così ostile alla civilizzazione, e così pieno di nemici passati e presenti, l’acqua è il simbolo e l’orgoglio più grande.

La frontiera è quindi tra il pieno e il vuoto, tra la vita brulicante di una città nuova e la sopravvivenza solitaria nei dintorni, tra le visioni del futuro con fiumi nel deserto e le reminiscenze del passato senza luce, senza televisione, senza scuola, senza internet; senza dietrologie sulla visita di Obama, senza conflitto israelo-palestinese di cui, ahiloro, anche i beduini fanno incosapevolmente parte. Beer Sheva regala l’impressione di passare la frontiera verso luoghi senza presente.

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