Entrando nel nostro moadon, venerdì sera, sento qualche mozzicone di discussione che attira la mia attenzione. Si parla, in inglese, delle percentuali di perdite tra i civili nei bombardamenti di Gaza di novembre [secondo gli ufficiali palestinesi, ho controllato, si tratta di 133 vittime di cui 79 militari, mentre tra le vittime civili si annoverano caduti di fuoco amico, cioè razzi palestinesi piovuti su palestinesi all’interno della Striscia, e qualche esecuzione di presunti collaboratori israeliani da parte di Hamas]. Mi avvicino alla saletta dei divani e mi siedo in disparte con il libro sulle ginocchia, temporeggiando prima di immergermi nella lettura. Kyle, australiano alto, muscoloso, rasato, sta tenendo banco in difesa della moralità dell’esercito israeliano: racconta dei milioni di flyers in arabo riversati dagli aerei sulle vie di Gaza per invitare i civili ad abbandonare i siti di lancio di Hamas e i dintorni delle loro abitazioni in vista dell’imminente bombardamento; cita a memoria i nomi dei militanti arabi uccisi con attacchi mirati esaltando l’eccellenza assoluta delle IDF nel limitare le perdite tra i civili; puntualizza che elettricità e acqua in tutta la Striscia sono erogati da Israele, anche durante i periodi tensione. Una placchetta metallica con Israele stilizzata, comprendente West Bank e Golan, gli ciondola al collo sporcando di ideologia la sua enunciazione dei fatti. Eric, argentino anch’egli nuovo immigrato ma per ragioni più materiali che idealiste, lo ascolta con attenzione. Hanno entrambi 19 anni. Eric, che sta giocando la parte di quello che deve essere persuaso, lo interrompe per ribattere che per quanto efficiente l’operazione ha comunque causato vittime tra i civili, tra cui bambini ‘e io non intendo uccidere innocenti, perdipiù bambini, per questo non voglio essere combattente, men che meno pilota come avevo talvolta pensato’. A parte la possibilità reale di entrare nell’aeronautica, in cui sono ammessi il top del top non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico e ‘politico’, subodoro la presenza di una petizione di principio: esistono cose vietate in assoluto, sta dicendo Eric, tra cui uccidere bambini. Kyle prosegue invece la sua arringa mettendo in luce la situazione reale: sarebbe bello non uccidere, ma guarda cosa succede se non interveniamo. Un Fajr-5 è atterrato in mare davanti a Tel Aviv, un’altro nei sobborghi di Gerusalemme [ironia, in un sobborgo arabo! Ma su questo Kyle sorvola]: con l’operazione Amud Anan (colonna di nube) abbiamo distrutto più 1500 siti di lancio e depositi di munizioni che chissà quante vittime avrebbero causato. Non uccidere chi ucciderà, sta dicendo Kyle, è esattamente come uccidere, in termini matematici. Eric non si schioda, e anzi manca completamente il punto di Kyle aggiungendo che non esistono differenze di valore tra le vite umane: arabi o ebrei, è vietato uccidere comunque. Interviene anche Sam, pure australiano e pure nuovo immigrato, rimarcando i dettagli della situazione reale: Hamas costruisce i siti di lancio al terzo-quarto piano di dieci, in un sandwich tra abitazioni civili sovraffollate di donne e bambini di modo che per colpire loro devi prima passare per venti appartamenti; le scuole sono luogo preferito di lancio di razzi di corto raggio; la pratica degli scudi umani era all’ordine del giorno nelle missioni di terra nella Striscia; molti dei kamikaze che si facevano saltare sugli autobus israeliani erano ricattati dai guerriglieri sulla vita dei loro familiari.
Eric tace, visibilmente sotto pressione e a corto di argomenti. Lo conosco bene, è un ragazzo buono: faceva carità negli angoli disastrati di Buenos Aires, gira per il kibbutz con il mate in mano invitandoti a sedere con lui, i suoi anche hanno fatto aliah e lavorano in un hotel a Eilat come camerieri, e lui è orgoglioso di loro perchè persone semplici e oneste. Solo, non si aspettava di dover entrare a far parte di un’organizzazione il cui scopo è uccidere nel modo più efficiente possibile, come ogni esercito. La sola idea gli fa ribrezzo, glielo si legge in faccia. Decido di intervenire a bilanciare la discussione, e nel prendere fiato mi accorgo di avere uno sguardo professionale sulla questione: la mia laurea in filosofia non è (solo) un pezzo di carta, ma la certificazione della capacità di manipolare concetti nel profondo, inventarne di nuovi e scartarne dei falsi, pur senza sostenere una parte piuttosto che l’altra. Per prima cosa chiarisco a Eric che Kyle non sta, almeno per ora, ponendo sul piatto due pesi e due misure per le vite ebree o le vite arabe ma parla in puri termini numerici: se non uccidi uno ora quell’uno ne ucciderà dieci domani. Con questa consapevolezza, come puoi ritenerti innocente nella tua scelta di non uccidere? In che senso deliberatamente non-salvare è diverso dall’uccidere? Il tutto si riduce a questioni di framing, come si dice in università, cioè di come viene presentato il problema: il nostro assenso e il nostro comportamento variano notevolmente a seconda della ‘retorica’ con cui abbiamo a che fare, oltre il calcolo razionale delle utilità. Chiarisco con una macabra domanda retorica: quante donne favorevoli all’aborto lo praticherebbero, al posto che con una pillola nel sonno, soffocando il minuscolo feto in un secchio d’acqua con le proprie mani? Eppure, è la stessa mamma con lo stesso feto allo stesso stadio di sviluppo. Dopo un breve silenzio Eric annuisce; Kyle pure. Continuo.
Il fatto di non premere il grilletto e non vedere il morto, come farebbe Eric evitando di entrare come combattente, gli fa onore ma non cambia nella sostanza il risultato finale: il numero di combattenti richiesti rimane invariato, solo qualcuno andrà al posto di Eric al confine ed Eric al posto di qualcuno in ufficio. Oltre a questo, il soldato in ufficio che trasmette un segnale d’attacco o riporta la situazione al fronte sta innescando, pochi gradini gerarchici sopra di lui, l’ordine di aprire il fuoco, ben più del soldato in prima linea che si limita ad obbedire senza contribuire all’elaborazione dei dati che hanno portato alla decisione: generalmente uccide più una firma, su un ordine militare o una legge, che una mitragliatrice. Scappare dal fronte non equivale a scappare dalle responsabilità del fronte; l’innocenza di un Eric in ufficio o in una fabbrica di bombe è solo illusoria. Aggiungo, questa volta rivolgendomi più a me stesso, che addirittura il semplice calpestare la terra d’Israele come turista rende complici delle stragi, essendo i compiti dei militari al fronte per la maggior parte difensivi: se non ci fosse nessuno ‘dentro’ da difendere, verrebbe meno la ragion d’essere dei soldati con tutti i loro morti. In gradi diversi, siamo tutti responsabili dal pilota al lettore di questo blog.
Tu, Eric, dici che di principio è sbagliato uccidere bambini. Tu, Kyle, sostieni che ci sono circostanze in cui è ammissibile: un piccolo sacrificio umano per un maggior bene futuro. Sono due modelli etici distinti e contrapposti, uno deontologico e uno consequenzialista, che impongono scelte di vita inconciliabili: l’essere soldato di Kyle o l’astensione totale di Eric. Astensione che, preciso, per quanto utilissima (o addirittura necessaria?) guida nell’impostazione della nostra vita è in pratica impossibile realizzare: rispettare il quinto comandamento impedisce di guidare un’auto per via dell’inquinamento, mangiare carne per via dei disboscamenti in amazzonia, vestire nike per via dei bambini sfruttati a Taiwan, regalare un anello di fidanzamento per via delle guerre del diamante in Africa. Per il semplice fatto di sedere con noi, Eric sta nei fatti violando la propria petizione di principio e accettando un compromesso col male del mondo. Questo non annulla il valore delle nostre scelte in quanto ‘alla fine siamo tutti venduti’, ma costringe valutare bene il compromesso a cui diamo il nostro assenso. Mi rivolgo a Kyle e Sam: nella forma del vostro agire non siete diversi dai guerriglieri di Hamas, esattamente come la CIA e il Mossad sono terroristi quanto Al Qaeda, solo con molti più soldi e quindi maggior precisione. Entrambe le parti hanno un fine abbastanza importante, a loro detta, per giustificare la morte di un bambino o la tortura di un prigioniero come ‘mezzi necessari’. Quello che vi può distinguere è solo il fine delle vostre azioni: per quale mondo siete disposti a uccidere? per quali diritti e quali doveri? per un mondo in cui le sospette spie vengono giustiziate senza processo o per un mondo in cui per intercettare un razzo nemico potenzialmente pericoloso viene sparato un altro razzo intelligente da decine di migliaia di dollari? per questo mondo, Israele, ne vale la pena? è un compromesso accettabile? Da entrambe le parti, poi, trovi i fanatici, cioè quelli che risponderanno sempre e comunque sì: vale sempre la pena, a qualsiasi prezzo.
La questione di fondo, oltre alle verità che ciascuno di noi si costruisce per riuscire a prendere sonno, non verte su quanto ci siamo compromessi, perchè siamo tutti più o meno nella stessa barca anche se io non ho il fucile in mano e tu hai sganciato fisicamente la bomba, ma su con chi ci siamo compromessi. Ma, come si sa, stilare la classifica tra mondi e la loro giustezza è un lavoro poco scientifico e molto insidioso, quel lavoro che i più liquidano come ‘roba da filosofi’.