L’ombelico del mondo

L’impressione che mi sto facendo è che Maagan Michael sia un kibbutz di prima linea. A differenza dello sperduto Yotvata (o almeno così l’ho vissuto io) è situato nel cuore d’Israele, a metà strada tra Haifa e Tel Aviv e a pochi chilometri dal confine con la West Bank, il territorio palestinese occupato dall’esercito israeliano dal 1967. I nostri vicini di casa sono due villaggi arabi, bellissimi dalla distanza, e diverse cittadine ebraiche, ordinate e funzionali senza smettere di essere mediorientali. Nel kibbutz si respira aria internazionale, per via del continuo riciclo di quasi cento ulpanisti ogni 5 mesi di cui buona parte si ferma come soldato ‘adottato’ o come futuro membro, e soprattutto nazionalista: siamo il centro del mondo, e l’importanza geopolitica di questa minuscola regione è una consapevolezza costante. Il ruolo di Maagan Michal nel passato recente d’Israele non può che consegnargli la responsabilità per il futuro prossimo, passando per un presente che è un casino totale, con insidie di ogni tipo allo svolgimento di una vita tranquilla. In quest’atmosfera di perenne fibrillazione prendo atto del viscerale sionismo che impregna il kibbutz, profonda motivazione che muove all’unisono ogni muscolo di questa comunità che, detto tra noi, potrebbe tranquillamente fare a meno del comunismo. L’impegno nel mantenere l’ulpan, primo approdo in Israele per migliaia di ebrei immigrati, i programmi d’adozione di soldati senza famiglia (gran parte dei miei compagni di studio, in quanto nuovi cittadini, andranno dritti all’esercito dopo il corso, ma non hanno casa), il programma di avodah ivrit (lavoro ebraico) per gli ex soldati, la scuola campestre di ricerca sull’ecosistema locale non portano soldi al kibbutz ma sono dirette emanazioni di un profondo credo: questa è e deve rimanere terra degli ebrei. Non ho letto al riguardo, non ho chiesto spiegazioni, non ho imparato nomi e date, ho infine assimilato il sionismo per osmosi. Il sionismo permea Israele, in qualche modo ne è la ragion d’essere, ma qui, molto più che a Yotvata, ne ho un contatto corpo a corpo, gli posso dare un volto, una parola, un piatto, un vestito. Il sabato le famiglie fanno le scampagnate sulle colline qui attorno, i bambini imparano fiabe per memorizzare i diversi nomi di tre diverse specie di papavero, per le feste tradizionali (questo è weekend è Purim, l’equivalente del nostro Carnevale nella cui motivazione storica non poteva mancare la mincaccia di uno sterminio di massa) tutti, dai bambini agli anziani, partecipano ai preparativi e si travestono, a scuola come in ufficio, le gite di classe toccano gli angoli più remoti di questa relativamente piccola terra, e ripercorrono le strade di migliaia di anni fa, nell’addestramento militare delle nuove leve sono inclusi corsi di storia e poesia ebraica. Il sionismo si concretizza in un capillare impegno educativo, dalla botanica alla geologia alla letteratura, con un peculiare effetto collaterale: la conoscenza. Tutto, ma proprio tutto, ciò che può esserci da sapere sulla terra d’Israele è di vitale importanza e merita di essere approfondito e divulgato, perchè di questo amore per ciò che c’è qui, e soltanto qui, consiste la legittimità degli ebrei in Palestina: perchè altrimenti proprio loro e non i discendenti dei babilonesi, dei persiani, dei greci, dei romani, degli arabi, dei turchi che si sono susseguiti lasciando innumerevoli tracce? Gli ebrei vogliono mostrare che nessuno più di loro è interessato a questa sciagurata lingua di sabbia da sempre crocevia di eserciti, nessuno più di loro la ama. Ho sentito canzoni d’amore, rap, disco, raggae, pop, dedicate a Israele, ho visto scritte sui muri come serenate, ho sentito Omri dire che se Israele fosse una donna la sposerebbe, per non parlare degli antichi salmi per Gerusalemme oggi modi di dire. Rimane però un nazionalismo sporco, macchiato da un malinconico retrogusto di insicurezza e di pessimismo giustificati da brutte Storie: se non qui, da nessun’altra parte.

Oltre che amore, la conoscenza è la più sottile forma di appropriazione, investimento preliminare a qualsiasi sviluppo demografico, economico, culturale, e la più legittima delle privatizzazioni. Chi ha studiato i crateri e kanyon disseminati nel Negev? Chi ha scoperto le falde acquifere? Chi ha inventato semi o.g.m. che sopravvivono al caldo? Chi ha fatto gli scavi a Gerusalemme e messo in sicurezza il patrimonio artistico di questa terra? Chi ha aperto le cave e le fabbriche di raffinamento sul Mar Morto? Chi ha costruito la più efficiente e diffusa rete di macchine elettriche al mondo? Chi ha aperto queste che sono tra le migliori università al mondo? Su questi indubitabili e strabilianti contributi all’umanità (un po’ meno lo sono le ricerche belliche, anch’esse fiore all’occhiello d’Israele) poggia la più solida giustificazione politica della presenza degli ebrei e della loro presenza proprio qui. A confronto, il secondo ramo di argomentazione sionista fondato sul diritto per discendenza dal regno di Re Davide, tipica convinzione dei fanatici nazionalisti che si insediano nei territori palestinesi su scorta dell’esercito, è insignificante e ideologico, scimmiottando quel mito della razza che tanto male ha fatto agli ebrei del passato.

Come già scrivevo al primo contatto con Maagan Michael, è evidente lo sforzo di trasferimento di questo affetto nei nuovi arrivati a cui viene chiesto molto. L’ulpan è una prova di forza del kibbutz che deve mostrarsi all’altezza di infondere quell’energia e motivazione a pivelli della comoda vita a Chicago, Buenos Aires, Melbourne e Parigi necessarie a sopportare tre anni di militare, l’angoscia dei missili, gli attentati, la pressione della comunità internazionale, il caldo torrido d’estate, la convivenza con popolazioni ‘barbariche’, ai loro occhi, come etiopi, rifugiati sudanesi, yemaniti, marocchini e i famigerati arabi, e infatti sono rimasti meno di 10 ulpan kibbutz da più di 200 che erano negli anni ’70. Il tutto in nome di un senso di appartenenza che, all’arrivo dell’Oleh Hadash, è quasi totalmente privo di contenuto. Attraverso l’insegnamento della lingua e le attività collettive gran parte delle lacune nozionistiche vengono colmate, ma è l’esempio di vita e di pensiero del kibbutznik la chiave del successo del nostro ulpan: i racconti, i consigli, le reti di amicizia, sono il sionismo della vita quotidiana. Gran parte dell’integrazione ruota attorno all’esercito e alla sua importanza per la sopravvivenza di Israele, ritornello che salta spesso fuori. I bne’ kibbutz di Maagan Michael, come anche quelli di Yotvata, si allenano per entrare in unità d’elite e chi si tira indietro o spera in un comodo posto in ufficio riceve il biasimo della comunità; molti fanno il corso da ufficiali e restano in servizio quasi quattro anni; il capo dell’Ulpan, Ioram, all’età di 62 anni va ancora come volontario ai ciclici addestramenti per i carristi. Ronli, la figlia della nostra prof, è responsabile di 20 soldatesse nei pressi di Beer Sheva, e ci ha fatto vedere sul telefono le foto dei missili che hanno colpito la base lo scorso novembre; due delle sue sono state ferite da schegge, il loro dormitorio è stato sventrato mentre loro erano fuori dalla base. Ha vent’anni, e non ha esitato un istante a dare del codardo e ingenuo a Eric, collega argentino, quando questi ha rivelato che non intende entrare nei combattenti: ‘non ti è permesso essere pacifista, qui.’ Eric risponde che non potrebbe mai sparare a un uomo. ‘Nessuno ti chiederà di farlo, solo pochi sono abbastanza temprati. Ma se pensi che da un ufficio, con un messaggio radio o una firma, non stai uccidendo qualcuno, ti sbagli. Vuoi entrare negli ingegneri? Sappi che ispezionerai e assemblerai bombe.’ La guerra con gli arabi è lontana, ma è radicata dentro gli israeliani.

In giro per Maagan Michael si vedono moltissimi arabi: giardinieri, cuochi, lavandai, magazzinieri, fattorini. Sono in ogni settore di servizio per la comunità, mentre le attività produttive del kibbutz, pesci, allevamenti, fabbriche, campi, sono appannaggio dei kibbutznikim o di operai specializzati da fuori il kibbutz tra cui ci sono molto pochi arabi. Date le premesse sioniste, ancora mi stupisce sentir parlare arabo e vedere lunghi hijab per le stradine. I lavoratori, che vengono tutti dalle cittadine circostanti e non dormono nel kibbutz, si portano spesso i figli al lavoro, e anche se non li ho mai visti giocare insieme ai bne’ kibbutz (in effetti, lavorano) suppongo che abbiano contatti: sono bambini. La lingua veicolare è l’ebraico, che a parte l’accento gutturale è parlato senza alcun problema da tutti gli arabi, che si destreggiano anche in inglese con gli ulpanisti o i kibbutznikim che ancora non hanno lasciato la lingua natia (ce ne sono!), i toni bruschi esattamente come quelli israeliani (inteso gli ebrei, ovviamente), le responsabilità variabili: alcuni sono a capo di interi settori, come può essere la sala da pranzo o la stireria, altri fanno gli sguatteri; in base alle capacità. I kibbutznikim masticano un po’ di arabo, più per divertimento che per necessità, ed è lingua opzionale d’insegnamento a scuola, con il francese, lo spagnolo e il tedesco. Mi è capitato di lavorare in un gruppo misto di ebrei e arabi (dovevamo traslocare pensiline per macchinine elettriche) e non ho notato alcuna differenza di trattamento. Ero sul trattore con l’arabo Hamudi (letteralemente, ‘mio caro’, e tutti gli chiedono se è il suo vero nome o uno scherzo), e non sentito da parte sua un solo commento di scherno o insofferenza verso gli ebrei in tutta la giornata di lavoro. Fino ad ora, posso dire che nel kibbutz non ci sono schiavi. Sono stato in diversi ospedali della zona, e sono pieni di arabi: medici, infermieri, personale qualificato. Anche qui, lingua veicolare l’ebraico e nessuna discriminazione, da entrambe le parti, almeno dal punto di vista del paziente.  Ricordo l’università ebraica, con una percentuale di posti riservata agli arabi israeliani e sostenuta da borse di studio ministeriali,  e ricordo anche le parole di un mio amico giordano figlio di palestinesi rifugiati: ‘attraverso la cultura schiavizzano il nostro popolo’. Una convivenza è possibile (e penso alle periferie delle città italiane) e qui è già in atto da quasi settant’anni. Certo, servono istruzione e lavoro, e comunque resteranno motivi di rivendicazione e ostilità, a cercarli. La coesistenza è prima di tutto una condizione della mente.

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