Come nasce un kibbutz

Ieri pomeriggio la nostra lezione è consistita di un incontro con Iehudit Ayalon, una dei pochi membri fondatori del kibbutz ancora vivi. 86 anni suonati, si è presentata infagottata in diversi strati di pashmine e camiciole, coperta da larghi occhiali da sole. Capello corto e fianchi larghi, ha sbrigativamente chiesto la nostra attenzione prima in ebraico e poi in inglese: purtroppo, tutto il discorso sarebbe stato in inglese affichè capisserò anche i nostri compagni di livello Aleph. Gli occhiali nascondono un ammasso di minuscole rughe in ogni direzione e due occhietti scuri luccicanti, scattanti per tutta l’aula: chiede un computer e mette la chiavetta, cercando la sua presentazione in PowerPoint; si indispettisce perchè non funziona e attacca senza slides. Tutto comincia nel 1943, dice, quando insieme a qualche decina di altri ragazzi, prevalentemente del movimento Scout ebraico e nuovi immigrati dalla Germania appena prima dell’Olocausto, decidono di mettere in piedi un nuovo kibbutz in prospettiva dell’ormai imminente nascita di uno Stato Ebraico: così almeno credevano, dopo le dichiarazioni del ministro inglese Balfour e il crescente attivismo di ricchi ebrei americani ed europei nell’acquisto di terra da arabi e nella fondazione di istituti ebraici in Palestina. Quasi tutti di provenienza kibbutz, come un’intera generazione vivevano nella ferma consapevolezza che era loro compito portare la Palestina ad essere lo Stato d’Israele, mentre in Europa qualche milione di ebrei finiva nei forni: mungendo mucche sul lago di Tiberiade o raccogliendo avocadi in Galilea, erano tutt’altro che fuori dal mondo, dice, sostenendo con lucidità la responsabilità assegnata loro dalla contingenza. Grandi parole dette da una piccola donna che a guardarla, solida e compatta nei suoi quasi 90 anni, si capisce che non è retorica. Scarabocchia date e nomi alla lavagna: non è il parkinson, solo pessima grafia. Il drappello di pionieri aveva da subito addocchiato la collina di Maagan Michael (‘attracco di Michael’) a pochi metri dal Mediterraneo, in una vasta area di proprietà della ricca famiglia Rothchild, ma per cominciare decisero di stabilizzarsi nell’entroterra, in una località di cui ho dimenticato di segnare il nome: là si diedero la struttura amministrativa del kibbutz e iniziarono le attività agricole finchè, nel 1947, l’Haganah, prima formazione militare ebraica indipendente dall’esercito inglese, si recò da loro per fare una proposta. Ai tempi, spiega, l’annuncio del ritiro degli inglesi era ormai imminente e l’Agenzia Ebraica in Palestina aveva ormai costituito un vero e proprio Stato ombra, chiaramente illegale, con lo scopo principale di preparare le milizie per la guerra d’Indipendenza: tutti gli Stati arabi avevano già dichiarato che si sarebbero opposti con la forza a qualsiasi insediamento di uno Stato Ebraico sul suolo palestinese. Ben Gurion, a capo dell’Haganah, doveva giostrarsi tra il blocco navale britannico che tratteneva in acque extraterritoriali le armi pagate dalle donazioni di ebrei americani raccolte da Golda Meir e gli stretti controlli sul trasporto e la produzione bellica sul suolo del Mandato. Non era certo possibile costruire una fabbrica d’armi a cielo aperto, eppure era chiaro che senza armi non ci sarebbe stato alcuno Stato d’Israele. La proposta che gli alti emissari dell’Haganah fecero al neonato kibbutz di cui Iehudit faceva parte era di prestare la loro forza lavoro per una produzione industriale illegale ed essenziale alla sopravvivenza del futuro Stato: accettarono, senza sapere di cosa si trattasse ma solo fidandosi dell’istituzione. Neanche noi sappiamo di cosa si tratti precisamente, ci verrà svelato lunedì prossimo quando andremo a visitare la fondazione che custodisce la memoria di ciò che accadde in quegli anni in quella fabbrica.

Vinta la guerra, nel 1949 gli ormai 150 membri del kibbutz poterono finalmente trasferirsi sulla collina dove sorge l’attuale kibbutz. [Finalmente riusciamo a far partire la presentazione fotografica sul proiettore.] Vivevano in tende monofamigliari (c’era già qualche bambino) dedicandosi principalmente all’agricoltura e, senti senti, la pesca: le condizioni dettate dai profughi tedeschi affinchè partecipassero alla fondazione di Maagan Michael, infatti, erano che il kibbutz sarebbe stato dedito alla pesca, potendo così continuare l’attività che svolgevano sul Mar di Galilea. Dal kibbutz Ein Gev ricevettero in regalo il primo peschereccio, se non ho capito male, a cui se ne aggiunsero altri due in pochi anni. Alcuni membri notarono che d’inverno, tra le dune sabbiose che dividevano la collina dal Mediterraneo, si formavano larghe pozze d’acqua e azzardarono l’idea di trasformarle in vasche dei pesci: le acque altamente saliniche delle sorgenti circostanti e del piccolo ‘rio dei coccodrilli’ (c’erano davvero, ai tempi!), non adatte al consumo umano, sarebbero state incanalate verso le vasche al contempo risanando la palude che circondava il kibbutz. Così fecero, e l’esperimento ebbe successo: nel giro di pochi anni le vasche si moltiplicarono e la palude si estinse quasi del tutto; la parentesi di pesca nel mediterraneo si concluse brevemente, non essendo più conveniente; Iehudit appunta che, inoltre, la pesca era a strascico con grave danno dell’ecosistema ‘ma ai tempi non esisteva l’ecologia: ad ogni modo, meglio così’. Da subito si pose un grave problema all’itticoltura: gli uccelli. Maagan Michael, come tutto Israele, è crocevia di centinaia di specie di migratori dall’Europa e dalla Russia all’Africa. I piccoli uccelli che spiluccano qualche pesciolino qua e là ci possono stare, non è un grave danno economico, ma quando si parla di pellicani è un’altra storia: le provarono tutte, dice, dalla caccia agli spaventapasseri alle sirene, con scarsi risultati e indispettendo gli istituti naturalistici del Paese. Decisero infine di cogliere due pellicani con una fava, fondando una riserva naturale e in essa una scuola campestre di ricerca ornitologica (tuttora aperta e di grande fama) col duplice scopo di proteggere le specie e trovarne il punto debole: lo trovarono stendendo lunghi cavi d’acciaio sulle vasche, paralleli uno all’altro a distanza di pochi metri, gli stessi cavi su cui oggi si appisolano gli aironi. I pellicani, avevano scoperto i ricercatori, hanno bisogno di lunghe piste d’atterraggio per planare in velocità sulla superficie e risollevarsi senza cedere sotto il peso del gargarozzo pieno d’acqua e pesce: i cavi, spezzando la pista, risolsero con semplicità ed eleganza il problema degli itticoltori. Sempre investendo sulla scuola campestre inventarono metodi d’inseminazione artificiale di pesci producendo nuove specie di carpe e tinche ornamentali: chiazzate di rosso, giallo, bianco, nero, lunghe code e pinne, sono una lucrosa esportazione in tutto il mondo, dall’Inghilterra all’Australia, e molti di noi ulpanisti lavorano nelle vasche siringando antibiotico in questi pescioni multicolore. L’ulpan parte negli anni ’60 in cooperazione col Ministero dell’Istruzione, sfornando centinaia di diplomati all’anno di cui una percentuale non trascurabile resta nel kibbutz: molti dei membri odierni sono arrivati come ulpanisti, e questo spiega il grande affetto nei confronti del programma nonostante l’irrilevanza economica e il turbamento alla quiete pubblica.

Parallelamente alle vasche ha un grande sviluppo l’allevamento, con polli e vacche olandesi da latte per milioni di litri all’anno (ogni giorno sono trenta litri a vacca!), il fotovoltaico che ricopre pressochè ogni tetto degli edifici comuni dalle stalle alla fabbrica alla sala da pranzo e che vende energia alla rete pubblica, e l’agricoltura, in particolare cotone, avocadi e banane. Tuttavia, a fine anni’70, i membri del kibbutz si accorgono di stare invecchiando e che il lavoro nei campi si fa stancante; cercano alternative. Finiscono con l’aprire Plasson, fabbrica di giunture in plastica di tubi d’irrigazione: sono ovunque, nel kibbutz, dal sistema di abbeveramento di mucche e criceti allo zoo ad ogni aiuola. Plasson diventa in breve la primaria fonte di guadagno della comunità, facendo fare il salto di qualità nello stile di vita dei kibbutznikim e, ai giorni nostri, ponendo un grave dilemma: e se, ora che siamo ricchi e famosi, privatizzassimo la fabbrica? Se al posto di ricevere un budget uguale per tutti ricevessimo uno stipendio in base al nostro lavoro, non avremmo tutti la possibilità di fare carriera con la copertura di migliaia e migliaia di shekel derivanti dalla divisione del gruzzolo accumulato in 60 anni dal kibbutz tra noi membri? Iehudit pensa che sia una pessima idea, sia ideologicamente che economicamente: la forza del kibbutz è la sua coesione, la responsabilità reciproca di ogni membro verso ciascun altro. Molti altri kibbutz pensarono il contrario, e ormai quasi tutti sono privatizzati. Shifra, la prof, insinua maliziosamente che Maagan Michael resiste come socialista appunto perchè ricco: ‘come i soldi escono dalla porta, l’ideologia esce dalla finestra’. Certo è facile essere comunisti con una villa di due piani e duemila euro puliti al mese.

Devo dire, è stato un vero incontro con la Storia. Iehudit è protagonista delle vicende che ho letto sui libri, dalla fabbrica segreta dei ‘membri di Maagan Michael’ all’invenzione di nuove specie in laboratori da campo, dal comunismo kibbutz alla generazione di madri che non hanno allevato i figli, chiusi nella stanza comune dei bambini. Eppure è una donna normale, per quanto trasudante saggezza ed esperienza da ogni poro. Dal suo racconto sembra tutto facile, sembra che a fine degli anni ’40 in Israele fosse normale, per un ventenne di buona famiglia, lasciare tutto per mungere mucche la mattina e preparare esplosivi il pomeriggio. Credevano nell’ebreo nuovo, ateo, vincente, socialista, cittadino di uno stato ebraico, e molti di loro lo sono stati. Hanno inventato nomi propri diversi da quelli tradizionali, stili di vita diversi da quelli tradizionali, vestiti e musica diversa, valori di rifermento diversi. Iehudit è tutto questo in una donnina di un metro e mezzo, una rivoluzione millenaria attraverso due occhietti vispi ancora troppo giovani per la sua età. In Israele, si fanno anche di questi incontri.

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