
Il rapporto coi nostri responsabili, Alona e Cino, è stato da subito e costantemente teso; anche da prima del mio arrivo, testimoniano i volontari veterani. Ad una fondamentale malafede si aggiunge un’insuperabile incomunicabilità: non capiscono i nostri bisogni e i nostri interessi, ancor prima che decidere se soddisfarli o meno. Chiediamo una cucina per preparare una cena internazionale e Alona ci propone una pizza da Eilat; chiediamo una gita nel deserto per tutti i volontari e lei ci offre al suo posto due giorni di vacanza scaglionati; chiediamo spiegazioni e lei ci dà ordini.
In casi specifici come il mio cambio di lavoro, incidenti sul lavoro di colleghi, giorni di ferie concordati con i nostri boss, è sempre emersa la sua volontà di tenerci all’oscuro della verità e quanto piú possibile distanti dal contatto diretto con gli altri kibbitznikim: lei deve sempre intermediare, interpretare, intrallazzare. Come mi ha mostrato un indecente episodio di due settimane fa, il motivo è tanto semplice quanto scabroso: noi siamo la piú bassa forza lavoro del kibbutz, e Alona non vuole spartirla. Nello scacchiere politico lei puó contrattare la nostra manodopera al servizio degli altri membri del kibbutz, sotto la formalità dei giorni di ferie concessi o non concessi e l’informalità dei ‘favori’ che chiede a noi per conto di altri, ma solo finchè la sua presenza risulti necessaria o almeno giustificata da un pretesto: nella fattispecie, la lingua.
Non appena ho realizzato la logica del gioco ho anche capito che posso sottrarmici: parlare la lingua dei kibbutznikim, senza scendere sul campo accidentato dell’inglese, vuol dire saltare il gradino gerarchico della traduzione linguistico-politica di Alona. Ho messo alla prova la tesi in diverse occasioni, puntualmente telefonando o domandando di persona senza passare dal centralino, e gli effetti sono sorprendenti. Primo, la quantità di problemi si è dimezzata, per il semplice fatto che adesso in ogni questione la soluzione deve incontrare solo gli interessi miei e dell’interlocutore, senza aggiungere quelli di Alona. E dal momento che, in quanto volontario di passaggio, non ho alcun peso politico, non ci sono motivi traversi per cui qualcuno non dovrebbe venirmi incontro. Secondo, Alona se n’è accorta. Messa di fronte alla frittata fatta, senza possibilità di contestazione visto il benstare degli interessati, ha cambiato approccio. L’ostilità è diventata cortesia, l’ordine richiesta, il rimprovero consiglio. Paradossalmente, proprio io che ho avuto accesi diverbi con lei su diverse questioni sia di fatto che di principio, mi trovo ora a ricevere un timoroso occhio di riguardo da parte sua. Resta un problema oggettivo, cioè la sua inettitudine nel combinare qualcosa (per sistemare il mio visto ho alla fine preferito contattare direttamente l’agenzia dei volontari e il mio prossimo kibbutz e metterli in contatto tra loro, e l’unico passaggio di consegne intermediato da Alona, che si è inserita nella trattativa dopo aver trovato il mio passaporto sulla scrivania della posta senza che l’avessi informata, non è arrivato a termine).
L’ultimo azzardo è la richiesta di ferie per il prossimo venerdì senza il suo permesso, ma chiedendo direttamente al mio responsabile. Se riesco ad arrivare a giovedì sera e a partire per il mio weekend al nord senza che il complotto venga scoperto, il rientro al cospetto di Alona non mi spaventa granchè: essendo questo il mio sesto e ultimo giorno di ferie su nove che mi spettano, essendo stato approvato dal mio gruppo di lavoro ed essendo la mia qualità di lavoro e relazione con i colleghi alta, non ci sono motivi reali di contestazione da parte sua. La gravità consiste nel deliberato vizio formale per scavalcare la sua autorità e toglierle voce in capitolo. L’unica arma di ritorsione che le resta è l’espulsione che peró, oltre ad essere del tutto fuori luogo, non mi danneggia piú di tanto dal momento che la mia partenza da Yotvata è fissata comunque per il 31 gennaio. Il vecchio trucco di papà, per cui puoi contestare i proff solo con otto in pagella, va bene per ogni stagione.
Quanto al perchè di questa ostilità nei nostri confronti, ci sono molteplici spiegazioni a detta di molteplici bne’ kibbutz nostri amici: primo, nessuno vuole lavorare con Alona e il ruolo di responsabile volontari è posizione unica, senza colleghi. Secondo, non saprebbero dove metterla altrimenti. Terzo, nessun altro vuole prendere l’incarico, anche se su questo punto abbiamo fonti discordanti: ci giunge voce che Shai, del Miznon, avrebbe voluto il posto ma non gli è stato concesso. In generale, comunque, regna una profonda diffidenza verso di noi: il lavoratore e soprattutto il ben kibbutz troppo vicino ai volontari ha un chè di sospetto e superficiale, di poco raccomandabile, e ai minori di 18 anni è vietato addentrarsi nel nostro distretto. Col fatto di capire l’ebraico ho ottenuto uno status a parte, arrivando addirittura a parlare direttamente della situazione con i colleghi al Miznon: la diffidenza nasce da brutte storie del passato, anni di esperienze di volontari sempre ubriachi, pessimi lavoratori e pericolosi per le fanciulle del kibbutz. Non è il caso del nostro gruppo, ma il retaggio è rimasto. Quel che constato, però, è la totale assenza di sforzi per integrarci nella vita del kibbutz, per comprenderlo e apprezzarlo: non una conferenza, un incontro settimanale, una gita, una partecipazione a eventi comunitari. In uno stato di apartheid è facile distrarsi con la vodka. Le rare volte in cui è iniziata una conversazione sull’universo kibbutz tra noi volontari (l’ultima ieri con i koreani e la nuova sud africana Tera), l’interesse si è subito acceso su come si possa vivere così, su come è iniziato il movimento dei kibbutz, sulla loro non religiosità ma appartenenza ebraica, sull’uguglianza se formale o reale, su cosa significhi condividere e se loro lo stanno facendo davvero; ho raccontato le storie che ho raccolto in questi mesi, andando a cercare in ebraico quegli interlocutori che, con un minimo sforzo e una massima gratificazione, sarebbero potuti venire a parlare da noi in inglese, e mi hanno chiesto i dettagli perchè vogliono saperne di più.
E’ un peccato che non investano energie sulla nostra integrazione, e sto pensando di farlo notare con una lettera alla direzione perchè, credo, non se ne rendono neanche conto: hanno uno stereotipo del volontario bruto e animalesco, di certo gonfiato dalla drammatica teatralità di Alona, e non riescono a mettere il naso fuori. Se il kibbutz non riuscirà a fidarsi dei volontari, li condannerà per sempre a rimenere quel pericoloso cheap work che effettivamente sono adesso e perderà l’occasione di fare, con un piccolo investimento, un grande regalo.
spirito ribelle, sono riuscita a leggere solo oggi.
fai bene a lottare per un’equilibrio più ragionevole tra la vostra condizione e quelle degli abitanti…
anche se a questo punto è ovvio tu lo faccia unicamente per i futuri volontari, vista la tua partenza.
mai pensato di dedicarti ai sindacati, a tempo perso?
buon trasloco!