Uno degli errori che non riesco a correggere del mio ebraico è confondere puntualmente la seconda persona maschile da quella femminile, che hanno due uscite diverse. Singolarmente, mi confondo solo sul singolare ‘tu’ e non sul plurale ‘voi’. Col passare dei giorni non posso che cercare di spiegarmi l’asimmetria: a parità di distanza fonetica (ad esempio lecha – lach per il singolare e lachem – lachen per il plurale) non corrisponde una parità di confusione. Col plurale me la cavo bene.
L’unica differenza che riesco a trovare è sintattica: a parità di salto fonetico e semantico, la seconda persona singolare maschile e femminile si scrivono uguale (‘לך’, il salto fonetico è affidato alla vocalizzazione, che peró in ebraico non è annotata nella scrittura), mentre la seconda plurale differisce sempre dal maschile al femminile per almeno una lettera, cioè una consonante (‘לכם’ e ‘לכן’, nell’esempio).
La conclusione che ne traggo è che la memorizzazione dei vocaboli (ho notato che senza vedere come la parola è scritta e vocalizzata con i puntini mi è molto più difficile memorizzarla) e l’automatizzazione del processo di declinazione per casi-persone è, almeno per me, piú dipendente dalla scrittura (cioè la ‘fotografia’ del linguaggio) di quanto m’aspettassi. È come se nel processo di traduzione dal ‘pensiero’ (se pura non-verbalità o già in italiano, non lo so) s’intromettesse sempre un’immagine mentale della parola scritta e solo successivamente intervenisse la formulazione fonetica: i casi di omografia provocano perciò un ritardo dovuto all’ulteriore necessario processo di disambiguazione semantica, cioè a seconda del significato della frase (‘tu’ uomo o ‘tu’ donna), secondo un criterio che non è contenuto nel solo grafema.
E allora, chiudendo gli occhi cercando di cacciare via le letterine dell’alfabeto che si agglomerano e scompongono in una danza senza sosta, mi chiedo chissà com’è per un cieco imparare una lingua da zero.