Pensare è agire – Emerson
Fin dai miei primi contatti con Israele e il Medio Oriente in genere, fin dalle mie prime abbozzate conversazioni in ebraico con Eviatar, in un lontanissimo luglio genovese, ho accolto con volenterosa immedesimazione ed intellettuale rispetto un ritornello, sempre quello: ‘Un’altra guerra è inevitabile, prima o poi arriverà.’ Prima, appunto, per bocca di uno studente di architettura all’università di Genova trasferito da Raanana, vicino Tel Aviv, poi Nadav, studente di musica a Tel Aviv centro, poi Alon, suo amico d’infanzia; a Gerusalemme, da uno dei nostri responsabili al campus di cui non ricordo il nome, anch’esso studente. Qui è stato il turno di Omri, un altro Nadav, Ilana, appena arruolata nei meccanici dell’aeronautica, Nimrod, richiamato come riservista nella crisi di Gaza di novembre. Tutti la stessa rassegnata indifferenza, lautamente giustificata. Infine ieri, sotto una bellissima nottata di vento freddo, sono sbottato. La malcapitata è Netta, sorpresa dalla mia eccessiva per quanto misurata reazione: ‘Ma la volete smettere? Se voi ragazzi della mia età siete i primi a non crederci, ein tikvah – non c’è speranza’. Presa in contropiede, è rimasta in silenzio qualche secondo prima di concedere: atah zodek, hai ragione. A dir la verità, io stesso sono rimasto spiazzato dalla mia uscita: non era pre-meditata. Una rabbia, un fastidio, un’insofferenza che, sono certo, covavano da chissà quanto tempo, sono infine esplosi d’impeto con incontrollata durezza. Ora che ho tempo di pensarci a freddo, la trovo interessante. In primo luogo rintraccio l’influenza di La guerra che non si può vincere di Grossman, appena letto, raccolta di disperati appelli di pace scritti nel corso degli anni Novanta e della seconda Intifada: libro a effetto rapido! In secondo luogo, il disgusto per le maniere del vecchio di Eilat: nel suo colorito linguaggio non ha forse espresso lo stesso macabro ritornello di Eviatar e Omri, solo politicamente ‘sporcato’ da malcelata speranza in questa ulteriore fatidica resa dei conti? A quanto pare, oltre la cosciente cortina di pacata razionalità, uno scenario di vita diverso, migliore, si è fatto strada di soppiatto dentro la mia testolina: ci può, o secondo Grossman ci deve, essere un futuro alternativo smarcato dal cattivo esempio del passato.
E’ vero, la realtà politica con la vittoria della destra alle porte riporta subito coi piedi per terra e il ragionamento per induzione gioca a sfavore del pacifismo (il prognostico di Eviatar a luglio è stato confermato dai missili di novembre), tuttavia il click che è scattato nella mia impulsiva risposta a Netta mi costringe ad arrovellarmici un po’ di più. Può forse materializzarsi dal nulla una cosa tanto delicata come una tregua, una pace, una convivenza, senza che nessuno l’abbia mai sognata, idealizzata, progettata prima? Il nesso causale tra progetto di pace e pace reale mi sembra più stringente della sconsolata analogia ‘così era, così sarà’: concludo che il primo ragionevole passo verso una pace è credere che sia possibile raggiungerla, contro ogni, e dico ogni, ragionevole dubbio. Tendiamo a desiderare e adoperarci solo per ciò che riteniamo possibile, dimenticando che è possibile solo ciò che desideriamo e per cui ci adoperiamo già da ora. La rabbia è quindi vedere i miei amici rassegnati all’inevitabilità di un’altra guerra senza considerare che così facendo stanno avverando la funesta profezia, di cui peraltro loro stessi saranno le vittime. Se anche uno solo lo vuole, la guerra è evitabile, nel più forte senso filosofico. Credere il contrario è un errore, non un’opinione.
E’ giusto avere aspettative e imparare dalla storia, e di fatto è così che ragioniamo normalmente da quando scegliamo di metterci in macchina all’alba per evitare l’ora di punta a quando aspettiamo a comprare l’IPhone usato su ebay da qualcuno che lo rivenderà presto; è quindi ragionevole pensare che le cose continueranno così anche nel vortice di attentati e missili quaggiù. Ma quanto è onorevole? Il ‘presente’ da cui partiamo per i nostri catastrofici prognostici è in realtà un passato recente fatto di articoli di giornale, servizi televisivi dal fronte e foto di corpi mutilati; ciò che conosciamo in tempo reale è solo il nostro proprio stato interno, e solo su questo possiamo intervenire direttamente: avere le migliori intenzioni, questo è il miglior ritocco che possiamo fare al presente, gettando l’unica solida base per un futuro senza bambini spappolati. Un qualsiasi computer può eseguire il calcolo dei rischi sulla base dei dati già in nostro possesso, e lo sa fare meglio di noi. Noi esseri umani, specialmente con una vita davanti, abbiamo il dovere e non solo il diritto di desiderare e adoperarci per ciò che vogliamo essere il futuro, e non per sentimentale retorica: per il semplice fatto che siamo profondamente ignoranti, che non sappiamo niente del mondo e degli altri e, dunque, è legittimo oltre che storicamente necessario scommettere su di loro ribaltando il pregiudizio.
M’incazzo perchè appiattire i diversi scenari futuri su un valore di probabilità vuol dire accettare la morte, la guerra, l’ingiustizia come fenomeni normali da mettere in conto, al pari di un’autostrada piena e un telefono nuovo. Senza riconoscere i motivi eccezionali per cui vale la pena rischiare tutto contro ogni ragionevole dubbio, non siamo una comunità di pensanti ma una compagnia d’assicurazione.