Labirintici equilibri

La recente amicizia con Shaili, ben kibbutz di 19 anni, sta infine coinvolgendo alcuni di noi volontari nelle viscere delle dinamiche interne al kibbutz. Ci troviamo a casa sua dopo il lavoro tra birre e sigarette, io e altri due dipingiamo il muro ad acquarello appollaiati su sedie, in punta di piedi sul divano o su pile di mattoni, e dall’alto buttiamo un occhio al salotto invaso di carte, pennelli, bottiglie, telefoni, tastiere. In uno di questi pomeriggi-sere-notti in cui lo scorrere del tempo non si fa sentire, Shaili ci racconta il kibbutz secondo lui. ‘Yotvata, dovete capire, è come Sparta. Abbiamo gli Spartiati che comandano e stanno in prima linea, cioè i kibbutznikim, i Messeni che lavorano da esterni per la città-stato, cioè i lavoratori, e infine gli schiavi: voi volontari.’ Non rendendosi conto di quanto prezioso sia, per noi gente comune, un tuffo nell’universo kibbutz, ci dice che per il nostro lavoro un israeliano prende 3000 shekel almeno, noi vitto, alloggio e 500 shekel: ‘cheap work, ecco cosa siete per Yotvata’

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Lamenta il fatto che la millantata uguaglianza è tradita da un punto di vista sociale da questa rigida divisione in classi, da un punto di vista economico dalla presenza di Yotvata sul mercato capitalista: vendere latte in tutta la nazione e anche all’estero, secondo lui, è contrario all’ideologia kibbutz. Io e i tedeschi, invece, concordiamo nel ritenere l’uguaglianza, sia economica che politico-sociale, prerogativa dei kibbutznikim, cioè di coloro che stanno dentro al kibbutz per scelta: nessuna pretesa verso chi non aderisce alla comunità. La totale sottomissione alla collettività è il caro prezzo di questa ricca uguaglianza, ed è osceno pensare di imporre un simile compromesso a individui che non condividono il sogno socialista. Per questo, aggiungo, mi sembra un’ottima cosa lo status a parte dei bne’ kibbutz, espulsi dalle famiglie a 16 anni: non pienamente membri, ma pur sempre figli di kibbutznikim, è concesso loro di vivere in un limbo economicamente garantito. Shaili si inalbera, il minuscolo cagnolino Alfonso, tre mesi, saltella sulle sue ginocchia: certo, il kibbutz ci paga la prima laurea, eventuali viaggi, e se c’è bisogno anche oltre; ci spingono a uscire, a scoprire il mondo per poi tornare, se lo vorremo, in questa che chiamiamo casa. Ma cosa succede al ritorno? Guarda le statistiche, vengono ammessi più stranieri – inteso sia israeliani extra-kibbutz sia nuovi immigrati – che bne’ kibbutz; preferiscono avere come membri perfetti sconosciuti piuttosto che noi figli di Yotvata, che conosciamo per nome cognome e soprannome ogni singola faccia in sala da pranzo. Perchè mai dovremmo fare due anni di prova come un argentino qualunque, quando siamo cresciuti sotto gli occhi di tutti per ventanni?

Proseguendo nella chiaccherata, scopriamo che Shaili è obiettore di coscienza dell’esercito (rarissimo!) e non ha ancora inziato l’università dopo il rientro da sei mesi negli Stati Uniti, infatti lavora nella latteria. ‘Ma ormai non importa, se anche mi laureassi col massimo dei voti, avrei poche chanches. A noi ragazzi ci lasciano fare, sperimentare, crescere da soli ed è una cosa meravigliosa, ma il kibbutz non dimentica.’ Non scopriamo quale marachella abbia fatto un 15-16enne Shaili da giocarsi l’accettazione come kibbutznik, ma per lui è un’ingiustizia. Non ha programmi precisi, forse Tel Aviv o forse l’estero, ma sa che prima di qualsiasi pensiero sul diventare membro di Yotvata ha bisogno di qualche anno nella metropoli, lontano dalla città-stato. Pochi giorni prima parlando con Yadid, altro ben kibbutz collega al Miznon, avevo scoperto qualche numero: sul totale delle richieste di ammissione nel kibbutz, c’è un buon 70% di rifiuti al termine dei due anni di prova…e Yotvata, a differenza di molti, è un kibbutz che vuole crescere, figuriamoci gli altri! I motivi sono vari: carenze professionali, poco zelo nel lavoro, ma soprattutto incompatibilità sociale. L’ultimo ‘no’ è arrivato recentemente per un collega di Omri ai datteri. Sposato con un figlio, in prova da un anno e tre mesi, ad agosto deve lasciare il kibbutz, causa cattive relazioni della moglie con gli altri membri di Yotvata: avrà forse litigato, o magari non è particolarmente loquace. Sta di fatto che gli Spartiati hanno optato, ancora una volta, per il monte Taigeto. Su internet leggo che per entrare a Maagan Michael è richiesto un contributo alla comunità di 50mila shekel (più di 10mila euro), e che la pensione di un kibbuznik di Sasa, il kibbutz più ricco del paese con 1.5 miliardi di shekel annui (3 volte Yotvata), è 1000 euro puliti, senza le solite spese di vitto e alloggio a carico del kibbutz; ancora Omri, ieri sera, mi dice che il kibbutz da cui viene Amit, anche lei ai datteri, è recentemente collassato: divise le quote azionarie delle fabbriche tra i membri del kibbutz, ciascuno è andato per conto suo. Non che fossero poveri, anzi, ora sono coperti d’oro, solo che avevano troppi conflitti interni: me lo dice con amarezza, come se fosse morto uno dei suoi cari. Mi par di capire che molti vogliono entrari in questi ricchi kibbutz, di cui Yotvata al momento è giusto giusto nella top ten, e questo mi conferma nel ritenere indispensabili rigidi criteri di selezione all’ingresso, con buona pace del non ricambiato senso di appartenenza di Shaili. L’ambiente angusto e l’uguaglianza reale delle condizioni di vita fanno del pacifico kibbutz, a lungo andare, una giungla: come in un paese ma all’ennesima potenza, ogni scaramuccia e o ogni bisbiglio resta lì, senza dissolversi nel caos della città, propagandosi e sommandosi a quelli passati, intessendo relazioni e irrigidendone altre. In un turno di notte sto servendo al banco col gigante buono Guy, e non posso non ascoltare la sua conversazione con un vecchio amico casualmente di passaggio al Miznon: ‘L’ultima volta eri in cucina in sala da pranzo, com’è che ora lavori qui?’ ‘Problemi con Ioki – il mio ex capo alle cucine – lunga storia. Ma non sono l’unico. Mi hanno proposto il Miznon e ho accettato: mi basta poter lavorare bene e in pace.’ Netta mi racconta la storia di Merav, la bat kibbutz che si è fatta due anni a New York e dieci a Tel Aviv prima di tornare: al suo rientro Daddy, responsabile del Miznon, l’ha messa a capo del negozio al posto di Iris, e da allora non corre buon sangue. ‘Michi, invece, non è sposata, e tutti sanno quanto questo la faccia soffrire; Zachi, alle cucine, è stato piantato in asso dalla donna in America: gli ha rubato tutto ed è sparita, si è trovato d’improvviso senza niente. E’ tornato in Israele e ha trovato lavoro qui ma, lo vedi, è ancora triste.’ Più il tempo passa, più prende forma un personaggio della commedia, in questo spettacolare palco scenico di sassi e palme, al punto che risulta impossibile cambiare il proprio ruolo nella trama: questa condanna, forse, è la rabbia di un ragazzo bello, intelligente e volenteroso come Shaili.

Gli chiedo se conosce le fazioni interne al kibbutz. Si mette a ridere: ‘Conosco tutto di questo kibbutz, ogni amicizia, ogni astio, ogni storia. Mio padre è stato responsabile dei software della latteria, abbastanza in alto nella gerarchia. Ci sono i sudamericani, forti perchè tanti, di cui fanno per esempio parte Paula, Ygal e Yadid, fratello di Ygal, nonostante i suoi soli 20 anni. Ci sono i nativi, cioè i fondatori o i figli di fondatori, come ‘Ben Gurion’ – vecchietto con mascella possente e capello bianco sparato – ‘Popeye’ – altro vecchietto abbrustolito dal sole col braccio mozzato – e i due fratelli che sono saliti sul palco alla festa di compleanno del kibbutz, settimana scorsa. E poi ci sono i Morag, potente famiglia piazzata nei ruoli chiave, di cui fa per esempio parte Alona.’ Da quel giorno squadro i volti in sala da pranzo, come per bucarli e vedere a quale partito appartengono; tendo le orecchie, per carpire di chi parlano; memorizzo i posti a tavola e registro i cambiamenti; vorrei sapere quali sono gli interessi di ciascuno, i loro progetti, le loro idee di sviluppo, come si immaginano il kibbutz tra vent’anni, cosa si aspettano e cosa temono per questo delicatissimo ecosistema; è un gioco infinito e affascinante ma è un tentativo senza speranza: i segreti del kibbutz restano dentro il kibbutz, mentre io aspetto fuori.

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