Come tutte le lingue semitiche, anche l’ebraico consiste di sole consonanti: il sistema di puntini e lineette per vocalizzare i grafemi è un’invenzione postuma (o posticcia?) onde evitare di perdere la pronuncia e, ancor più importante, disambiguare le parole omografe. Ad oggi le vocali sono scritte solo sui libri per bambini e sulla Bibbia. Il tutto fa della letteratura ebraica un bel catch 22 in cui sai leggere solo se sai già cosa stai leggendo. A differenza delle nostre lingue, in cui una volta associato il segno al fonema basta scandire una per una tutte le lettere, il semitico richiede al lettore di sviluppare un’aspettativa sul testo e su ogni singola parola che lo compone, intuendo di conseguenza come legare una consonante all’altra. Per la verità, una volta allenato l’occhio è un meccanismo che mettiamo costantemente in atto anche nella lettura dei caratteri latini, dove intuiamo la parola appigliandoci ad alcune sue lettere ‘salienti’ senza soffermarci a scandirla; quel che conta, è il contesto: ‘sturttrua’, detto così, non è immediatamente riconoscibile, ma se inserito nel flusso di un periodo con una propria sturttrua semantica risutla mloto più faclie da rcinocsere al coplo d’occiho. Per questo a sentire uno leggere un cartello in ebraico si capisce già quanto conosce la lingua, a prescindere dall’accento. Questo fa però della cultura (estendendo i limiti d’influenza del linguaggio oltre il linguaggio) ebraica, o semitica in genere, un patrimonio di difficile accesso: quando faccio esercizio di traduzione mi trovo sempre ad avere bisogno di un lettore madrelingua che vocalizzi correttamente e mi insegni a leggere, prima ancora che a tradurre, in assenza del quale potrei confondere il verbo ‘aspettarsi’ col verbo ‘guardare a’ o ‘valore’ con ‘egli arrangiò’, scritti identici ma da pronunciarsi diversamente.
Oltre a questo, o forse in conseguenza di questo, noto sempre più la clausura della cultura ebraico-israeliana allo sguardo del turista. Le cose qui assumono un significato dopo un notevole allenamento mentale, esattamente come la lettura richiede lo sviluppo di un’elasticità percettiva: perchè mi ha chiesto gli ingredienti della minestra del giorno? Ah già, sta bevendo un cartoccio di latte. Perchè quel gruppo di operai mangia sempre in disparte? Ah già, sono arabi. Perchè non mettiamo su un po’ di musica? Ah già, è shabbat e Dor considera ascoltare musica ‘lavoro’. Perchè alla cena di Natale di ieri Alona non ha fatto il brindisi? Ah già, noi cristiani le abbiamo versato il vino. Perchè in quel gruppetto di cinque solo una non ha preso una birra? Ah già, è una soldatessa in licenza e ha il mitra a tracolla. Perchè ogni volta che mi presento mi chiedono il cognome? Ah già, vogliono sapere se sono ebreo. Mi è capitato di accogliere comitive d’italiani di passaggio al Miznon: fanno scalo a Eilat nella crociera per il Mediterraneo, e di rotta verso il Mar Morto si fermano da noi per rifocillarsi. Quel che senti è ‘Pensa te, un Autogrill nel deserto!’, e con noncuranza vanno in bagno, comprano del cioccolato, con indifferenza assaggiano il gelato (appena partiti dall’Italia, non si rendono conto di quanto sia prezioso un gelato in-differente da quello italiano nel bel mezzo del Negeve!), pagano e tornano sul bus salutandomi calorosamente, proprio come si fa negli Autogrill. Quel che non notano è due punti ristoro, uno per il latte uno per la carne, con due lavapiatti e due servizi da tavola; quattro copie del certificato di kasherut in bella vista e il vecchietto baffuto con kippah e cartellino al petto che controlla l’effettivo rispetto delle regole, girando tra noi in cucina; le frange appena sporgenti sotto la camicia bianca di quel distinto signore al bancone, la parrucca e le maniche lunghe di sua moglie; il copricapo a scacchi bianchi e rossi di quel beduino che, non è folkore, stasera torna col suo pick-up in un villaggio senza elettricità tra i kanyon e i sassi; i calendari e i turni di lavoro segnati su giorni che iniziano al tramonto, e non all’alba. Tra gli anonimi scaffali Coca-Cola, Loaker e Ferrero scorre un flusso ininterrotto di significati, di differenze e, inutile negarlo, di conflittualità: il fatto che anche noi del kibbutz possiamo non farci caso e lavorare come se fossimo davvero in un Autogrill sull’A4 si deve al fatto che siamo i padroni, quaggiù e per adesso. Non sono così sicuro che quel drappello di ventenni potrebbe starsene beatamente a pregare ondeggiando rivolti verso il sole, con kippah nera, tfilim e frange, nello stesso spiazzo tra i datteri ma in un altro tempo; come non sono sicuro che, sempre in un altro tempo ma nella stessa sala da pranzo, la lingua parlata dai soldati sarebbe l’ebraico, e solo l’ebraico.