Festa, festa, festa

Col tramonto di questa sera (sabato 15 dicembre), si è conclusa la settimana di festeggiamenti di Hanukah. Tutto è iniziato giovedì scorso, quando tutti insieme abbiamo costruito ciascuno la propria torcia armeggiando tra manici di scopa, colla, brillantini, bottiglie di plastica e barattoli di cetrioli vuoti, appositamente lavati in sala macchine e conservati nelle settimane precedenti. La festa celebra la memoria del duplice miracolo della sconfitta dell’occupazione greca nella rivolta dei Maccabei e del magico protrarsi dell’olio per la lampada del Tempio di Gerusalemme che, al posto che durare un giorno, bruciò ininterrottamente per otto giorni fino all’arrivo delle nuove forniture di olio, in seguito alla riapertura (‘Hanukah’, appunto) del tempio dopo la profanazione di Antioco. Detta anche Festa delle Luci, è una pacchia per i bambini. Candele, fuochi, fiammelle sono allestite ovunque, piccole menorah fanno da centrotavola di ogni tavolo in sala da pranzo, festoni e addobbi compaiono ad ogni angolo. Ma soprattutto, ci sono le Yotvatiadi. L’inaugurazione dei giochi è stata sabato mattina scorso, nel prato centrale, il tutto preparato da un efficiente staff di bne’ kibbutz tra i 15 e i 18, riconoscibili in maglia blu ‘צוות‘ (‘staff’). E’ una bellissima giornata senza una nuvola, un po’ come sempre, e nell’attesa della consegna delle magliette ci rotoliamo sul prato ancora provati dal venerdì sera. Ci sono tutti, noi ragazzi frementi nel cuore delle attività, famigliole con bambini piccoli nell’adiacente parco giochi, vecchi in disparte osservano, commentano e gironzolano sulle golf car, in gergo ‘Harley Parkinson’. Siamo divisi in squadre per posto di lavoro: datteri, Miznon, sala da pranzo, campi, latteria, manutenzione; le nostre magliette ‘Yotvatiadi 2012 – Miznon’ sono arancioni. Il primo gioco consiste nello stare appiccicati l’uno all’altro in sei in equilibrio su quattro ceste da datteri capovolte, e avanzare facendo passare l’ultima di mano in mano fino all’uomo di testa. Siamo veloci ma andiamo in diagonale, e a pochi metri dalla fine il piccoletto in spalla a Noga perde la presa facendoci rovinare tutti a terra. Nel traino del trattore ce la caviamo bene, con Noga che dà il meglio di sé arrotolato dentro le cinghie e incitato da tutto il kibbutz assiepato in due ali di tribuna: nonostante la stazza, ha solo 16 anni e compete con omoni barbuti temprati da una vita nei campi. Non è uno scherzo, al peso del trattore si aggiunge l’enorme cartone del latte-insegna pubblicitaria sul tettuccio, che oscilla pericolosamente ad ogni strattone. Tra i volti rilassati e i vestiti puliti si respira un’aria di assoluta spensieratezza e ilarità, siamo tutti lì per giocare e non esistono preoccupazioni di sorta: il lauto pranzo ci aspetta in forno dal giorno prima, quelli di turno di shabbat staranno già apparecchiando i tavoli, ci sono quasi 30 C°, gli uccellini cinguettano, per ancora 20 ore non si lavora, non ci sono commissioni urgenti e se ci sono sono da sbrigare a Eilat, per arrivare a Eilat sono 40 kilometri e di shabbat non ci sono bus, e se anche ci fossero di shabbat banche, uffici, negozi, stazioni, biblioteche sono chiusi. Tutt’altro dalle italiane domeniche di mestieri in casa e lavoro arretrato. Vincendo due partite di calcio su due, chiudiamo al quarto posto: primi i datteri, che il giorno dopo si presenteranno a colazione con magliette fresche di stampa in cui sbeffeggiano la loro vittoria. A chiudere la giornata, dopo il tramonto, nel piazzale della piscina va in scena una danza con canti rituali organizzata dai religiosi del kibbutz (prevalentemente lavoratori esterni) e spettacoli pirotecnici dalla cima delle alture, con lettere di fuoco stagliate nella notte: mi perdo tutto, chiuso a skypare nel bunker internet.

Ogni giorno della settimana, dalle 5 di pomeriggio fino a cena, è organizzato un’attività: caccia al tesoro, conferenze, una commemorazione presso la piscina abbandonata, canti sul palco allestito in sala da pranzo. Noi volontari siamo chiamati a partecipare, a ingozzarci di plumkake come tutti, ad accendere le nostre candele, ma è chiaro che non è la nostra festa: non sappiamo quali sono i piatti tipici del tempo di Hanukah, non abbiamo memorie di bambino di giochi col fuoco, non sappiamo e neppure comprendiamo i canti. L’attività più bella è stata di sicuro l’accensione dei falò sulle colline, divisi per gruppi per sentieri diversi: al termine, tre pallet di legno e una bottiglia di alcol; al segnale sei o sette pire illuminavano il cielo sopra il kibbutz.

Carrellata di etichette storiche del Choco Yotvata: dal vivo, rimane una donna affascinante.
Carrellata di etichette storiche del Choco Yotvata: dal vivo, rimane una donna affascinante.

L’eccitazione e l’allegria collettiva, però, abbiamo scoperto essere catalizzate da una ben più significativa ricorrenza: il compleanno della latteria di Yotvata, 50 anni! I preparativi della festa hanno impegnato tutti. Nel giardino davanti al refettorio sono stati allestiti tavoli con le migliori tovaglie e il miglior servizio buffet del Miznon, al Pashara è stato montato un gazebo-veranda con sedie di plastica della piscina, la sala da pranzo è stata tappezzata di vele di tessuto colorato, un maxischermo è stato posto nel centro del palco e tutti insieme, dopo cena, abbiamo spostato i tavoli per sistemare centinaia di sedie allineate. Il club al piano terra è allestito con cartelloni pubblicitari di choco-Yotvata degli anni ’60 e ’70, ingrandimenti di articoli di giornale, cartoni del latte delle varie ‘ere’ di sviluppo della latteria. Un grande tavolo, in centro, è ricoperto di album dalle foto ingiallite: documentano l’installazione delle nuove macchine mungitrici, le goliardie degli operai, le gite di gruppo, i balli in costume da mucca. A suon di rovistare, troviamo un ventenne Cino (l’arcinoto responsabile alla sicurezza), probabilmente appena arrivato dall’Argentina, con capello nero lungo raccolto in una coda, abbronzato mentre gioca a carte in un tavolaccio nei campi; Ioki, il duro responsabile della sala da pranzo, con lo stesso sguardo penetrante soltanto piazzato sotto una corona di capelli castani; Eitan, il cuoco pazzo, con occhiali a goccia e una fitta chioma di ricci neri afro in piena psichedelia anni ’70. I kibbutznikim presenti si chiamano, si riconoscono sulle foto in vestiti e tempi lontani ma sempre lì, nello stesso club in cui ci troviamo adesso, e ridono; ridono con noi, ci fanno vedere quando erano bambini. Conosco i genitori di una collega trentacinquenne al Miznon, quella che ha fatto due anni a New York e dieci a Tel Aviv: sono venuti a porgere il loro ossequio a Yotvata da un kibbutz nel nord; Yotvata, ricchissimo kibbutz autenticamente socialista, è fiore all’occhiello e orgoglio di tutti coloro che credono nell’ideologia. Prima di uscire getto un ultimo sguardo all’enorme cartellone pubblicitario da cui un’affascinante ragazza in bianco e nero mostra con un sorriso il suo cartoncino di choco Yotvata di 30-40 anni fa: è la sinuosa e ricurva donna dai capelli grigi nell’angolo, intenta a mostrare un’album di foto a un drappello di bambini seduti in cerchio per terra a gambe incrociate.

Nela e Mika a lavoro ultimato in sala da pranzo.
Nela e Mika a lavoro ultimato in sala da pranzo.

L’elettricità nell’aria è da serata di gala. Certo, non è la prima della Scala ma per l’occasione sfoggiamo tutti i nostri vestiti migliori, il piazzale della piscina è pieno delle macchine degli ospiti convenuti da ogni parte d’Israele: ex lavoratori, figli, amici del kibbutz e abitanti dei kibbutz della zona, siamo improvvisamente invasi di facce nuove. Si spengono le luci, resta solo la fioca luce di una delle otto candele dell‘hanukiah sul palco; scende il silenzio. Siedo con Karleen, la collega tedesca, circa a metà della sala, gli altri volontari sono rimasti indietro. Illuminata nel centro del palco, un’anziana kibbutznikit fa gli onori di casa: non capisco tutto, ma spiluccando parole e frasi qua e là posso tradurre a Karleen che sta ringraziando coloro che hanno creduto nel kibbutz e vi hanno investito energie, in particolare i fondatori. Sullo schermo scorrono foto di uno Yotvata in fase embrionale, senza palestra, piscina, senza i quartieri residenziali ma costituito di sei o sette casone di due piani, puntellate di bandiere d’Israele, affacciate su un unico, ininterrotto filare di datteri quadrato là dove ora sorge la sala da pranzo, il prato centrale, l’ambulatorio e il parco giochi. Appaiono facce sorridenti su trattori e schiene piegate in due nei campi, soldati con la zappa in una mano e il fucile nell’altra e bambini sguazzanti nel fango di shitafon passati. A turno vengono chiamati sul palco personaggi eminenti del kibbutz che, davanti al plauso e al tributo d’onore da parte della comunità, accendono una delle otto candele; ci raccontano che tutti i kibbutznik, prima o poi, sono passati per la fabbrica e che non c’era gita, colazione, vacanza senza una cassa di latte di casa. Arriva dunque il momento di una scenetta-musical il cui ritornello, cantato dai bambini di contraltare al balletto di cinque vecchietti in tuta blu e zappa in mano, recita significativamente ‘lavodah!’, ‘al lavoro!’; a seguire, altra coerografia dei bambini delle elementari, coordinati da sotto il palco dalle animatrici. Altri discorsi, altri ringraziamenti, con l’augurio che il legame tra il kibbutz e la latteria prosegua e si fortifichi per altri 50 anni, poi va in onda un breve documentario sulla fabbrica: tra le foto dei vari fondatori, quattro ragazzi che mungono mucche a mano, e le immagini dei nastri trasportatori carichi di bottiglie di plastica viene spiegata l’ammistrazione centralizzata dell’azienda, in opposizione al capitalismo grande concorrente nella produzione di latte, vengono intervistati i lavoratori alle macchine e perfino Daddy, il nostro capo al Miznon, che spiega quale gusto di latte tira di più in questo momento; vengono mostrati i numeri dello sviluppo fino ad oggi, con 70 milioni di litri di latte annui per un introito di mezzo miliardo di shekel (più di 100 milioni di euro!), e viene ribadito il legame col kibbutz, di cui ben 55 membri lavorano in fabbrica. Il pubblico è appassionato, orgoglioso, commosso dalla propria storia, e senza entrare nei dettagli il tutto si chiude con un trio di chitarre del kibbutz e un esilarante video dei bne’ kibbutz, ‘Op Yotvata Style!‘, sulle note della koreana hit disco del momento.

Ad accendere la candela sul palco genitori e figli kibbutznikim, a sugellare l'augurio della presentatrice di una trasmissione di valori di generazione in generazione.
Ad accendere la candela sul palco genitori e figli kibbutznikim, a sugellare l’augurio della presentatrice di una trasmissione di valori di generazione in generazione.

A seguire, tra i baci e gli abbracci, ci si sposta tutti, vecchi e bambini inclusi, al Pashara dove su un muro di balle di fieno è scritto un enorme ‘Tanti Auguri’: alcol gratis per tutti, musica rigorosamente israeliana, tavolini all’aperto e kibbutz al completo in modalità svago; non racconto i dettagli della nottata, un po’ per pudore un po’ perchè dopo il quinto giro di Jegermeister e la seconda Goldstar (birra di bandiera israeliana) non sono più tanto nitidi. Quel che è ci tengo a scrivere e portare con me per sempre, però, è il giorno dopo. Al bruch nel prato centrale ci troviamo tutti distrutti, spiluccando pollo al curry in ciabatte e occhiali da sole, bevendo litri di lemonana (limonata, menta e zucchero) e sorseggiando caffè nero (polvere di caffè in acqua bollente) sbocconcellando torta alle noci; ci si ritrova a poche ore dalla baldoria e ci si chiede come va con sorrisi ebeti, ancora troppo rincoglioniti per parlare: non c’è bisogno di raccontare, adesso, sappiamo tutti quanto ci siamo divertiti. Passano adulti che con una pacca sulla spalla ci fanno capire che, poco lontano dalla pista da ballo, si sono fatti due risate alle nostre spalle. Arriva l’amico indiano, ospite di noi volontari per una notte, riemerso da una ciucca atomica a mezzanotte e mezza; compare Omri, baldanzoso nella sua chioma fulva: è arrivato al suo letto trascinato di peso da due misericordiosi colleghi ai datteri, l’ultimo ricordo che ha è la tazza del gabinetto del Pashara. Il kibbutz è sottosopra, woodstock il giorno dopo: finita la festa, è tempo di risistemare. All’una iniziano le pulizie, che come i preparativi coinvolgono tutti: c’è chi smonta il palco in sala da pranzo, chi carica le luci nei furgoni, chi impila i tavoli, chi porta le tovaglie in lavanderia, chi raccoglie le posate; a noi ragazzi, per giusto contrappasso, spetta il Pashara. Respiriamo il tanfo dell’alcol rappreso sui tavolini e sule gradinate della sala, scrostiamo cannucce e pop-korn dal pavimento appiccicoso, raccogliamo centinaia di bicchieri di plastica della Carlsberg; con un’altra mi addentro nei bagni armato di un secchio di sapone da pavimenti e mocio, dalla sala arriva l’eco della musica raggae che accompagna, a basso volume, il nostro silenzioso e malinconico riassettare. Riempiamo decine di sacchi di spazzatura, inzaccheriamo di sapone e schifo le maglie larghe, i pantalocini corti e i sandali di cui siamo vestiti; allaghiamo di candeggina la pista da ballo e in squadre di tre buttiamo fuori sul piazzale litri di acqua nerastra. Lavoriamo per un buon due ore, tutti, nessuno è rimasto a casa dormire; lavoriamo di un lavoro giusto, equo, necessario, e nonostante lo schifo siamo contenti, agognando il momento di tornare alle nostre casette per collassare in un profondo sonno senza sogni. Ci congediamo con un saluto, qualcosa di insolito quaggiù dove non serve perchè comunque ci si rivede sempre nel giro di poche ore. Per ultimo, due bne’ kibbutz arrivano coi trattori a portare via le balle di fieno; con un trattorino da traino, invece, riportiamo alla piscina le sedie impilate sul cassone, e seduti in cima alla pila ci godiamo dall’alto della strada, che scorre sotto di noi a sobbalzi, il panorama di un formicaio intento a riordinarsi, a normalizzarsi per la settimana di lavoro che sta per ricominciare: d’altronde, non può essere sempre domenica.

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