Oltre al fatto di essere l’unico italiano e l’unico volontario che parla ebraico, la mia situazione è particolare perchè sono l’unico che ha cambiato lavoro. In effetti, nessuno dei colleghi ha idea di cosa facciano gli altri: ce lo si racconta, certo, ma non si conoscono i nomi, le facce, i caratteri, i capricci, i segreti, i rituali, gli orari di punta. Ripensando al lavoro in sala da pranzo, la divisione delle mansioni per compartimenti stagni è la maggior differenza rispetto al Miznon. Ci sono gli addetti al lavaggio verdure e gli addetti al trituraggio, gli affettatori e i due alle carni; le due anziane signore alle emulsioni e alle creme varie e la scorbutica mora sessantenne agli yogurt; c’è Eitan che canta nell’angolo…non mi sono mai chiesto cosa faccia Eitan, ma so che è un pezzo grosso. In sala da pranzo Ila, la responsabile, sistema le insalate, Lea e Or servono al banco nella pausa dalla pausa sigaretta, Carina è incaricata del rimpiazzo dei vassoi vuoti. In sala macchine Juan (pace all’anima sua, è partito due giorni fa per due mesi di lavoro in un Moshav in Galilea) e David mettono le stoviglie sui carrelli, Gun le ritira pulite; Bomi e il nuovo koreano fanno la spola nel sistemare il tutto tra cucina e sala. Ognuno ha la propria mansione e, salvo il margine di elasticità della sala macchine, ognuno fa il proprio. Può sembrare monotono, e lo è in effetti, ma si è una squadra: non per qualche sorrisino e una pacca sulla spalla a fine turno, ma perchè ciascuno è un ingranaggio indispensabile del meccanismo. Se metti in macchina teglie di acciaio (le peggiori sono quelle del pollo al forno) non scrostate a dovere con la paglietta, il vapore non riuscirà a pulirle e dunque Gun (o io, quando ero al suo posto), dopo averle comunque tirate fuori, dovrà rimetterle per un altro giro occupando un intero carrello che, nell’ora di punta dalle 8.00 alle 8.30 e dalle 11.45 alle 12.30, vuol dire coda per i commensali per depositare i vassoi: quel che è un servizio, diventa un disservizio…e dei più snervanti, pergiunta, quando vuoi solo mollare il piatto e farti un caffè prima di riattaccare al lavoro. Allo stesso modo impilare gli enormi scolapasta (un metro di diametro) insieme alla rinfusa con le marmitte d’acciaio vuol dire creare una scatola cinese che farà impazzire i cuochi, prima che trovino le marmitte e riescano a disincastrarle. In cima alla lista nera della sala da pranzo va sicuramente il temporeggiare coi carrelli dei bicchieri: tutti bevono, e il nastro ne vomita decine e decine, senza sosta. Due minuti di ritardo della spola vogliono dire accumulo: bicchieri sui vassoi delle tazze e delle brocche, nelle ceste delle posate, bicchieri sul tavolo, nelle ceste dei mestoli e così via su superfici sempre più lontane dal nastro, di modo che ogni secondo di ritardo moltiplica esponenzialmente la fatica. Piccoli accorgimenti, grandi responsabilità. Alla fine del turno, sporco e accaldato, in cuor tuo sai se hai lavorato bene e soprattutto lo sanno tutti gli altri, che in qualche modo dipendono nella loro fatica dalla tua buona volontà.
Il Miznon è tutt’altro. Ci lavorano molte più persone e ci sono molte più variabili, in particolare due: i clienti e le partite di rifornimenti. Poi il menu del giorno, le casse di tonno e maionese rimaste, i gusti del gelato, gli scaffali del negozio da riempire a seconda dell’umore dei consumatori. Una rigida distinzione dei compiti non può funzionare. Solo la lavapiatti, anche qui, e i tavoli sono mansione esclusiva dei volontari, gli unici effettivamente un gradino sotto. Ezbar, Ruel e Angelo, in realtà, preferiscono la sala macchine: musica in cuffia, wi-fi disponibile se non arrivano piatti, angoli bui in cui farsi una pausetta senza essere visti e, se tutto va bene, vista panoramica sulla sala da pranzo gremita di sedicenni, che siano scosciate o delle scuole religiose per l’occhio non fa differenza. Tutto sommato, non è un lavoraccio. Per quanto riguarda gli israeliani, a parte l’eccezione dei due cuochi a turno in cucina, fanno tutti tutto: refill dei frigo, taglio pomodori, lavapiatti del latte (l’area del chocobar serve solo prodotti latticini, con stoviglie da latte, forni e frigo da latte, lavapiatti da latte), caffè, pulizia tavoli, assistenza clienti, svuotaggio cestini, imbottimento panini, lavaggio pavimenti. Ad equilibrare l’assenza di indispensabilità (col favore del caos si può gironzolare in nullafacenza fino al richiamo puntuale di Guy, l’enorme cuoco dall’occhio di falco) arriva quindi l’uguaglianza di fronte a quello che c’è da fare: non esiste gerarchia di mansioni, non esiste il rifiutarsi di fare un lavoro degradante rispetto allo status che si ritiene di avere. Ho visto Shai, il trentenne da cui dipendono le mie ferie, lavare i gabinetti nel turno di notte; ho visto Daddy prendere il posto di Jun nello scarico di un camion, alla fine del suo turno; ho visto Hoshrit farcire datteri con noci, lavoro che mi è stato affidato il mio primo giorno. Hoshrit è una kibbutznikit con due figli all’asilo, è qui da non so quanti anni: non esiste l’esonero per anzianità, qui, e non esiste nemmeno il ‘perchè te lo dico io’, non esiste carriera, almeno nei termini di quello che fai. Certo, ci sono i responsabili che hanno l’ultima parola in caso di emergenza (i trenta del bus in sala da pranzo hanno finito il latte alla banana, resta solo quello già esposto in negozio perchè in magazzino è finito: che si fa?), ma l’andazzo è chiedere aiuto al primo che capita quando capita di avere bisogno: ‘Lorenzo, cosa stai facendo? Sei libero?’, ‘No sto andando a tagliare una cassa di cetrioli per Guy’, e nessuno si permette di sottrarti al compito che qualcun’altro ti ha affidato. Con i bne’ kibbutz di turno (una volta a settimana) o con noi volontari capita spesso che si lanci l’urlo ‘E’ di qualcuno Delek?’ Silenzio. ‘Bene. Delek, vieni con me’. Col fatto che so l’ebraico, e col fatto che Ygal e Shaul si ostinano a parlarmi in spagnolo dando a tutti l’impressione che io capisca, ma che in fondo sono un volontario mi si può chiedere tutto, con la differenza che si fa più in fretta senza traduzione. Negli ultimi due giorni sono approdato al banco del cibo, imparando i nomi in ebraico e i prezzi, nonchè i gusti della clientela: con un’approssimazione al 70%, posso dire se il cliente vorrà il piccante o meno con l’humus. Ho fatto anche un po’ ai gelati, che però richiedono un tocco di polso da maestro che non ho ancora acquisito, e alla macchina del caffè, più che altro per poter dire che è un caffè veramente italiano (La Favorita la macchina, Lavazza la polvere e Lorenzo il barista). Oggi ho fatto assistenza al negozio e lunedì cameriere a un pranzo riservato. Incredibile come poche parole in una lingua, peraltro facilmente traducibili in inglese, possano cambiare la fiducia e il rapporto tra le persone. Lavorare qui richiede tutta un’altra attitudine rispetto alla sala da pranzo del kibbutz, bisogna essere autonomi perchè nessuno si accorge, sul momento, quando sbagli o quando non fai niente; bisogna capire le istruzioni, in qualsiasi lingua vengano dettate, e sviluppare l’intuito per il bisogno altrui. Dare cinque minuti tra una cassa di latte choco e l’altra per pulire i tavoli devastati di schifezze del bar, anche se nessuno te l’ha chiesto, può bastare, a volte, ma non si è mai abbastanza allerta. Tutto sommato non è così facile lavorare bene, anche quando si tratta di fare il magazziniere.
Ciò che non sapevo, e che col senno di poi ha molto senso, è che lo stipendio dei kibbutznikim è uguale per tutti: dal responsabile dei campi al lavapiatti, guadagnano tutti uguale, mi ha spiegato oggi Ygal. Non ho avuto il coraggio di chiedere quanto, ma quel che succede quaggiù è veramente qualcosa di speciale.
Anche chi lavora fuori, qualsiasi lavoro faccia, consegna tutto al kibbutz e prende come gli altri.