Il giovedì è la giornata più dura, al Miznon. Sarà per l’imminente inizio del weekend, ma c’è un bel giro di turisti, scolaresche, escursionisti, lavoratori alla seconda carreggiata dell’autostrada per Eilat. Per la nostra oasi, l’unica ben fornita nell’arco di chilometri, passa di tutto di modo che per un occhio inesperto come il mio anche il riempire i frigoriferi del negozio diventa un’esperienza: russi ortodossi con una barbona lunga quasi quanto le loro toghe nere, copricapi quadrati e pesanti croci d’oro al collo, accompagnati da donnone tarchiate dal capo coperto con un foulard triangolare e i denti d’oro: non parlano una parola d’inglese, non sorridono, non accennano ringraziamenti, si siedono e si alzano tutti insieme seguendo il ‘patriarca’ della carovana; frotte di ragazzine del liceo, eccitate e spietate come tutte le loro coetanee nel mondo, se non per il fatto che vestono gonne lunghe fino alle caviglie e la divisa della scuola religiosa a cui appartengono, guidate da severe suore ebraiche che si rivolgo a me in malomodo; si misichiano ad altre sedicenni, ugualmente rumorose e anch’esse in divisa, questa volta leggins neri aderenti: tutte; coppie di arabi, lui torvo in volto lei incuriosita dai fanghi del mar Morto in vetrina; famigliole con ricciolini e kippah.
Se già è difficile vivere tutto, sicuramente è impossibile raccontare tutto. Propongo qui una selezione degli episodi più significativi qui al Miznon, per dare un’idea di in quale razza di posto mi sono cacciato.
1. Mamma e tre figlioli, due maschi grandi e una bambina che non arriva al bancone delle insalate. Hanno saltato a pie’ pari il reparto carni. Le chiede cosa vuole: patatine e mais. Mi ordina il piatto, ha i capelli raccolti sotto un piccolo turbante nero, poi il figlio maggiore mi ferma e indica alla mamma il certificato di kasherut sul muro alla mia destra. Sono tutti scuri, sia in pelle, che di occhi, suppongo yemeniti. Lei prende il telefono, chiama un uomo (in ebraico c’è una seconda persona maschile e una femminile), suppongo il papà fuori in macchina o a fumare una sigaretta, e chiede conferma che il certificato gli vada bene: gli legge la ‘marca’, cioè la scuola rabbinica che certifica il nostro ristorante, e mette giù con un beseder. Cancella l’ordinazione, prende solo cinque baguette, vuote.
2. Scolaresca di ragazze ultra ortodosse, maniche lunghe e capelli raccolti. Nonostante l’apparenza, hanno uno schietto accento americano: mi fa sorridere. Sto scopando il pavimento, sento che due si interrogano su come si dica ‘mucca’ in ebraico, parah, rispondo. Thank you, e continuano il loro bazzicare per gli scaffali. Vedo la loro responsabile attorniata da alcune piccoline, avranno 12 anni: giusto per sentir parlare un po’ di sano inglese americano, le chiedo di dove sono. ‘Mayne’, si girà e se ne va con astio spingendo via le bambine. Resto a guardare la sua parrucca: le religiose vere si rasano i capelli a zero per poi coprirsi con un tipico caschetto lungo sintetico, tutte uguali. Stizzito, racconto l’episodio ad Avi: già tanto che ti abbia risposto, quelle come lei non possono né guardare né toccare un uomo che non sia il marito!
3. Aiuto Jun, l’eritreo, e Shaul, l’argentino, a scaricare casse di coca e spirte nella cella frigorifera. Sono in mezzo, ricevo il pacco dal montacarichi dalle mani di Shaul, faccio due passi da 15 C° di sbalzo e lo deposito nelle mani di Jun, che lo sistema negli scaffali gelati. Interrotte dai due passi, in senso inverso, intrattengo due conversazioni parallele: con Jun, sul significato del modo di dire ‘Da mille miserie un grammo di fortuna’, con Shaul, sul perchè la filosofia ebraica non è entrata nelle università occidentali.
‘Ma dove l’hai imparato?’
‘L’ho sentito dire.’
‘Forse perchè in Europa non ci piacciono gli ebrei’
‘No, no. Non credo, ci sono sempre stati ebrei nelle vostre università.’
‘E allora perchè?’
‘Dove l’hai sentito dire?’
‘In Etiopia molti parlano italiano, ci avete colonizzato. Ma cosa sono le ‘misterie’?’
‘Perchè è una filosofia priva di logica, non è scientifica.’
‘Intendi spirituale e non fatta di premesse e conclusioni?’
‘No, no, ‘miserie’, ‘mi-se-rie’, vuol dire…sfortune.’
Shaul, da fuori: ‘Te lo dicevo, Jun, che non era giusto come lo dicevi tu!’
‘Comunque sì, perchè è Kabalah, è mistica, non è precisa. Non studiarla’.
4. Iris, responsabile del negozio, bassa occhi chiari capello rasato brizzolato, stiamo sistemando insieme il silan, sorta di miele estratto dai datteri. Una cliente ci interrompe senza chiedere scusa, ha una scatola da chilo di datteri in mano: ‘ma vanno lavati prima di mangiarli?’. Iris: ‘Io li ho sempre mangiati così.’
‘Ma li lavate prima di impacchettarli?’
‘No, vengono così dall’albero.’
‘Ma non conviene lavarli?’
‘Cosa vuoi da me, io non li lavo e sto bene’, spazientita.
‘Io credo che li laverò’, la cliente non demorde.
Non sono cattive maniere, solo una normale conversazione tra israeliani…e abbiamo risparmiato trenta secondi di convenevoli.
5. Sono le due di notte. Passano solo di tanto in tanto soldati infreddoliti, lavoratori che hanno finito il turno, viaggiatori solitari. Uno di questi è un arabo con la maglietta azzurra aderente, muso scolpito, occhi rossi. Mi ordina una baguette con cotoletta con aria di sfida, e si prende qualche secondo per rispondere quando gli chiedo se vuole il piccante: lo vuole, ma solo un po’. Mi osserva spalmare l’humus, in silenzio, poi se ne esce: ‘devi fare palestra’, ma non capisco. Gli chiedo di ripetere, non conosco il verbo. Fa segno con le braccia come per fare pesi: ‘Staresti bene, grosso. Perchè hai quelle spalle?’
‘Ho fatto nuoto, quasi dieci anni. Ma sto bene così.’
‘Ti ci vorrebbe poco.’
‘Non ho tempo.’
‘Eh, sempre così: trovalo.’
‘Ti giuro, sto bene così. Eccoti il panino.’
‘Buon lavoro.’
‘Buona notte.’
