L’elemento di maggior disturbo quaggiù a Yotvata è stato fin da subito la prolificazione del tempo. Cresciuto di corsa, mi sono trovato improvvisamente a non dover scegliere: calcio o studio? Birra al Pashara o arak nel bunker? Film o pisolino? Non c’è problema, ci sta sempre tutto, anche la nullafacenza. Fin da subito ho cercato di scovare il segreto, e ben presto l’ho trovato: il socialismo manleva dalla responsabilità del singolo una discreta porzione di autonomia, decidendo per lui il lavoro, la casa, i giorni di ferie, pagando per lui le bollette, gli studi dei figli, i viaggi. Responsabilità vuol dire pensieri di notte, appuntamenti dal commercialista, annunci su internet, lettere al sindacato. Nel kibbutz non serve l’agenda. La regola d’oro delle otto ore di lavoro vale per tutti, dal responsabile all’ultimo volontario; al di fuori delle otto ore, la libertà. Per noi di dormire, bere, giocare, leggere, per gli adulti di giocare coi figli, scolpire o dipingere, per i bambini di andare in bici, suonare in sala musica o andare ad allenamento. E’ uno spettacolo meraviglioso, un idillio di pace perdipiù in un Paese perennemente in guerra. Qualcosa di speciale.
Tuttavia, non mi ha mai convinto. Col cambio di lavoro al Miznon ho iniziato a focalizzare. Il ristorante-negozio-bar-gelateria ospita gruppi di turisti, organizza pranzi privati, riserva la sala da pranzo per comitive di studenti di passaggio. A differenza dei servizi per il kibbutz (cucine, lavapiatti, lavanderia, supermarket, manutenzione) che sono erogati con la regolarità dei bisogni primari della sopravvivenza di noi abitanti, i servizi del kibbutz (datteri, centrale del latte, Miznon, piantagioni) rispettano scadenze, partite, ordini, agende dei clienti che li richiedono. In un mondo normale, il mondo in cui ho imparato a lavorare e in cui sono stato da sempre immerso fino a meno di due mesi fa, l’imperativo è aumentare questa richiesta. Lavorare di più, guadagnare di più, comprare di più col minor investimento possibile. Qui no. Ma sul serio: non esistono turni extra, non esiste il rischiare qualcosa di proprio in vista di una maggior utilità futura. Ho apparecchiato i tavoli e cucinato un barbecue per un ricevimento nel ranch del kibbutz, in mezzo ai cavalli, i falchi e le piantagioni di datteri; ho visto una location che, con poche migliaia di euro d’investimento in stoviglie di classe e un buon maestro di sala può diventare il ristorante più chic dell’intera provincia; ho visto Shai e Daddy, i responsabili, scaricare il camion e lasciare noi ragazzi a chiudere i tavoli, andando via senza ricevere i complimenti e le domande dei commensali, la parte più importante del lavoro: le loro otto ore erano finite. Tanti dettagli del genere, tante occasioni mancate per ‘aumentare’, sfruttare ciò che in potenza c’è già e a cui serve solo una spintarella per prendere il volo, e mi viene il nervoso. E’ gente che ha viaggiato, che parla almeno tre lingue, gente che ha studiato in Germania o lavorato a New York, è gente a cui non manca l’intelligenza progettuale e ne ho avuto prova parlando proprio delle possibilità del ranch. E’ gente a cui nessuno vieta di lavorare di più, di aggiungere comitive di paganti anche la sera oltre che a pranzo. E’ che manca loro l’intenzione capitalista, l’iniziativa individuale di scomettere su una propria idea. Tutto, anche l’imprenditoria, passa per i piani di stabilità votati democraticamente dal collegio del kibbutz, materializzati infine nelle otto ore individuali. Mi ci è voluto un po’ per realizzarlo, e ancora non l’ho accettato.
Quel che ho infine capito, guardando i bambini inaugurare la festa di Hanukah con le candeline in mano, è che il kibbutz è un circolo, non una spirale: la famiglia, non l’uomo in carriera, è la sua anima; la conservazione, non il miglioramento, la sua finalità. Il collettivismo è essenziale a questa logica: in primo luogo, perchè solo grazie a un’equa distribuzione del lavoro e dei servizi è garantita a priori la sopravvivenza di tutti; in secondo luogo, perchè il miglioramento non è mai relativo, ma assoluto: non c’è la possibilità di un aumento di stipendio che ti permetta di andare in palestra mentre non vale lo stesso per il tuo vicino di casa. Al più, il kibbutz è abbastanza ricco da costruire e mantenere una palestra, sia per te che per il vicino, entrambi lavoratori a otto ore. Quando parlo di Maagan Michael, il kibbutz in cui mi trasferirò a febbraio, mi rispondono ‘ah, sono ricchi là!’. Non perchè sappiano quanto guadagnano i kibbutznikim di Maagan Michael, ma perchè i servizi erogati dal kibbutz sono molti e di alto livello, per tutti, rispetto alle ore di lavoro richieste. Credo che la maggior parte delle persone al mondo, e sicuramente ancor più da una certa età in poi, cerchino questa vita: semplice, fuori dal vortice. Alcuni colleghi di lavoro sono arrivati, o tornati, al circolo del kibbutz dopo decenni di spirale. Mi continuo a chiedere quanti padri e madri di famiglia a Milano, New York, Londra, Berlino vorrebbero soltanto garantire sicurezza e aria fresca ai propri figli, vestiti e amici e invece sono costretti a lottare nella giungla della crisi economica, dei debiti, del licenziamento, del nuovo impiego. Il capitalismo non è la forma di vita per chi vuole reiterare la vita, cioè procreare. E’ così semplice, il kibbutz. Tanto semplice, che Sol a 17 anni ha già capito che dovrà lasciare la comunità per diventare una stilista, trasferendosi a Milano, New York, Hong Kong, appunto, dove da un giorno all’altro devi cambiare casa, telefono e amici per inseguire quel ‘miglioramento’ relativo della tua condizione (cioè nonostante o a scapito del vicino di casa) che il kibbutz non ti permette.
Per me è ogni volta una sofferenza: limitarsi a riprodurre l’identico, quando si potrebbe creare l’inedito. Ma pensandoci meglio, perchè mai? Perchè lavorare di più, guadagnare di più, quando oltre un certo limite non si può spendere di più? Forse vestiti firmati da Eilat, televisori più moderni da Haifa, cibi più pregiati da Tel Aviv…in un posto senza macchine, non c’è molto da comprare. Ma basta guardarsi intorno: questa gente non vuole beni di consumo, è più felice spalando sterco di mucca e giocando con gli aquiloni il sabato. E’ gente che ha scelto ed è stata scelta, che è adatta ad abitare qui, lontano dal consumismo. Tutto sommato, la vita è semplice perchè fatta da persone semplici, e il torto più grande che Shai e Daddy potrebbero fare sarebbe innescare la spirale del rischio e del profitto sulla loro pelle, scambiando biglietti da visita dopo l’orario di lavoro. Dopo un mesetto, già capisci che affinchè il gioco funzioni otto ore non sono soltanto il minimo, ma anche il massimo di lavoro richiesto.
Quel che bisogna capire del kibbutz, però, è che è una scelta: ciascuno dei suoi abitanti ha bene in mente che l’ottimo livello di sopravvivenza qui garantito è appeso al filo della fiducia reciproca e quindi, in ultimo, alla fede nel kibbutz. Non si può imporre a nessuno di vivere così, non si può imporre a nessuno di non rubare bici, vestiti, cibo, stoviglie, palloni, telefoni quando non esistono lucchetti e recinti. Oggi ho chiesto cosa succede in caso di furto: un ‘ma no, al massimo qualcuno prende in prestito’ mi ha fatto intuire che non c’è normativa (precedenti o legislazione a seconda del modello giuridico) al riguardo. Lo sforzo va quindi nell’aprire il ventaglio di possibilità per i propri figli e nel mostrare loro che questo non è uno stile di vita scontato, anche a costo di allontanarli dall’esempio dei genitori mettendoli a vivere in un quartiere a parte, all’età di 16 anni. Non è filantropia, ma strategia di sopravvivenza. L’etereogeneità dei membri del kibbutz (immigrati sudamericani, ex manager, medici, ex carcerati, laureati, scapestrati) è dunque stimolo alla devianza e contemporaneamente testimonianza di condivisione della scelta di vita di cui questo posto balzano consiste.
E’ vero, si può vivere così, ma c’è qualcuno che ha progettato, costruito, sperimentato quel sistema.
Il progresso nasce dalla spinta di qualcuno a cercare l’inedito.
Vista dall’interno ciascuna comunità offre ai mediocri (nel senso nobile del termine) sufficienti possibilità per forzare i propri limiti, avendo confini molto più ampi rispetto alle ambizioni del singolo medio; ma vista come macrosistema, la comunità si evolve e cresce e trova un suo posto accettabile nel mondo, solo se dall’interno qualcuno ne forza i confini, solo se qualcuno non si accontenta dei cammelli ma cerca un modo per irrigare il deserto e produrre datteri.
Anche il socialismo ha bisogno dell’imprenditoria.
E’ una fortuna che per qualcuno questo sistema resti inaccettabile, sarebbe la fine del sistema altrimenti.