Dopo aver capito che il giorno ebraico inizia col tramonto e non con l’alba, ieri sera (domenica) mi avvio al Miznon per il mio primo turno di notte. Sulla strada becco Dor, mio collega, con cui prendiamo uno strappo sul pick-up di altri lavoratori etiopi che escono a farsi un giro. Dor ha 21 anni, è alto come me e magro come uno stecchino, ride sempre con una dentatura tutta storta e un anello sull’orecchio sinistro. Prima di ogni bicchiere di pepsi o di un croissant (gli israeliani lo chiamano ‘coraçon’) si mette un tovagliolino di carta in testa e, tenendolo goffamente fermo con la mano, recita una sbrigativa benedizione. Non sta mai fermo, o balla o canta o fischietta o si mette a preparare qualcosa: ieri sera, una pizza improvvisata con la pasta fresca delle baguettes. E’ un ragazzo sveglio, lavora qui ormai da un anno e tutti fanno affidamento su di lui: sa come si lavora e mette di buon umore la truppa. Il turno di notte è fantastico: i pochi clienti sono solo i soldati del posto di guardia, che vengono a farsi un caffè, qualche ortodosso di passaggio e i vari kibbuznikim/lavoratori che finisco il turno di notte e vengono dare la buonanotte. Di notte si prepara per il giorno, lavando la verdura per i panini e le insalate, ripulendo le piastre e i forni, aprendo scatole di tonno, lavando i pavimenti, controllando che ogni cosa sia al suo posto.
Dor è nato e cresciuto a Ben Yamina, un moshav: insediamento ebraico, si distingue dallo cfar che denota in genere un villaggio arabo, almeno in origine. La sua famiglia, come molte altre, è scappata dalle persecuzioni innescate dalla fondazione dello Stato d’Israele, attraversando a piedi il deserto che si stende tra Etiopia, Sudan ed Egitto. Solo pochi fortunati sono stati prelevati dagli aerei appositamente inviati dal governo israeliano. Dei 13 fratelli di suo padre, due sono morti di stenti nell’esodo. Anche lui vuole avere almeno 6 figli, ‘la pancia della moglie sempre gonfia, così deve essere!’, ma non adesso: prima deve trovare un’idea geniale per fare un fracco di soldi. Prende uno stuzzicadenti: ‘Guarda, ti basta prendere un bastoncino e affilarlo per bene, e sei a posto tutta la vita. Bisogna osservare, capire di cosa la gente ha bisogno’. Mi spiega che Yotvata ha attivato un programma educativo speciale per gli etiopi, che si trovano qui in gran numero per studiare e lavorare, costruendosi una posizione sociale generalmente a loro preclusa. Dor è nato nel cuore d’Israele, parla solo ebraico e non una parola di amarico, ha fatto le scuole qui, non ha mai viaggiato all’estero, è ebreo pure medio-praticante…cosa lo rende etiope? Certo, è nero. Ma in uno stato normale questo non è sufficiente per potersi iscrivere ad un programma per soli ‘etiopi’. E’ abbastanza semplice comprendere come l’identità culturale non passi solo per il luogo di rilascio del passaporto ma anche per il cibo con cui si è cresciuti, la musica sull’IPod, i modi di dire ereditati dai nonni, i libri sugli scaffali di casa; meno semplice è immaginarsi come possa uno Stato democratico e ultramoderno individuare tutto questo, la ‘mentalità’ dei suoi cittadini, senza criteri ufficiali ma con ferrea accuratezza. Dor, come Moshiko e Malako, è etiope; Aharue e Alon sono russi; Omri, nonostante le sue ben 13 generazioni in terra di Palestina, è polacco; Carasso è spagnolo. Tutti questi, giunti in Israele spinti da pogrom e persecuzioni operate da governi e vicini di casa diversi ma con la stessa violenza, sono a pieno titolo israeliani, cioè cittadini dello Stato del e per gli ebrei, ma ciò non cancella la loro identità culturale. E nonostante l’odio, il ribrezzo, il risentimento per la terra natia che li ha scacciati e umiliati, nessuno di loro rinnega la propria matrice ma anzi la coltiva, chi dandomi su un pezzo di carta il nome di una regista eritrea attiva in Italia, chi mangiando gefiltefisch a capodanno, chi iscrivendosi ad un programma per etiopi, appunto.Questa continua tensione tra appartenenza ed esclusione compone il meraviglioso mosiaco dell’identità israeliana.
Sull’Haaretz di qualche settimana fa leggevo del razzismo verso gli arabi: in moltissimi ristoranti e hotel alle prenotazioni a nome arabo si risponde ‘tutto occupato, ci dispiace’. Quand’anche il gestore non sia nel suo intimo razzista, si piega comunque al mercato per cui un locale frequentato da arabi è meno raccomandabile, di minore qualità. Il giornalista giocava di fantasia immaginando arabi che chiamano i propri figli con nomi ebraici ed ebrei che prenotano con nomi arabi (‘in fondo è facile, te la giochi sempre tra Mahmud o Ahmed’, sdrammatizzava), ma chiudeva con l’amara constatazione che non accadrà mai. Non accadrà perchè qui nessuno cede; nessuno si conforma alla maggioranza di turno per trarne un beneficio, o se non altro una tranquillità, sotto un camuffamento. E la malattia è infettiva: mai mi sognerei di mentire o omettere la mia non-ebraicità, nonostante il disagio che questo talvolta causa (ironico, sentirsi in minoranza nella minoranza per eccellenza!). L’orgoglio è forte, ed è insieme fascino e rovina di questa terra. Fino a poco tempo fa i mizrachim, gli ebrei di nordafrica e paesi arabi in genere, erano emarginati quasi quanto lo sono oggi gli arabi. Ci sono volute generazioni per aprire il programma d’integrazione di Yotvata e comunque, anche oggi, restano ‘gli etiopi’, alloggiati in un quartiere tutto loro con ritualità tutte loro. Entra nel ristorante un ragazzo di Yotvata, figlio di kibbutznikim: è la sua ultima settimana prima dell’esercito. Uscito, Dor mi sussurra eccitato che andrà nelle forze speciali: ‘quello è uno in gamba, ne prendono cinque su cento che fanno richiesta, capito? Cinque su cento! Devi essere intelligente, forte, resistente, ti mandano a raccogliere informazioni nel territorio nemico. Operazioni velocissime, mirate, in squadre di cinque o sei. Sono orgoglioso di lui’. Sull’onda dell’entusiasmo, si lancia in un’arringa sionista: ‘Tu lo sai che tutti gli arabi ci odiano, qua intorno. Ma tutti ci temono, e sai perchè? Perchè io sono pronto a morire per questa terra.’ Sono le stesse parole di Omri, ben più posato e moderato studente ashkenazi, ebreo europeo, qualche sera fa. ‘Ci hanno scacciato dovunque, voi dall’Europa, poi dalla Russia, poi dal mondo arabo e l’Etiopia, il paese dei miei nonni, li ha quasi uccisi e gli ha tolto tutto. Sono partiti a piedi nudi. E io dove vado? O qui o in mare. Israele non vuole la guerra, ma se mi tocchi questa terra io t’ammazzo con quello che ho, a mani nude, non ho paura. Con ‘sta bottiglia piuttosto’ e brandisce la Pepsi ridendo. In fondo, è un tamarro, un arsi, si dice qui. Da noi sarebbe uno di quelli che facendo lo spaccone fuori dal locale apostrofa l’indiano che vende gli accendini con un ‘negro di merda’; qui è uno di quelli che non vuole mandare i figli a scuola con gli arabi. Rifletto sull’apparenza di Dor: da noi, in Europa, sarebbe discriminato per la pelle, e tanto basterebbe. Qui in Israele il razzismo è sempre sull’invisibile: su cosa credi, da dove vieni, qual è il tuo DNA, verte sempre sul metafisico, sempre più vicino al ‘chi sei’ che tendenzialmente è scolpito nel tuo nome. L’apparenza è pressochè irrilevante: ci sono ebrei israeliani identici ad arabi, all’occhio, che pure non hanno accesso al militare e ad alcuni luoghi sacri o che, se chiamano al ristorante, trovano tutto occupato. Tutti ti chiedono il nome e, spiazzati da un latinissimo ‘Lorenzo’, il cognome: la risposta è ovvia, non sono ebreo.
Finito il turno, alle tre e mezza del mattino ci incamminiamo verso casa. Barcollante per il sonno guardo Dor: sembra un africano, pensa come un arabo e prega come un ebreo, ma nella più totale ingenuità sta perpetrando, con la maggioranza degli israeliani, lo stesso razzismo dell’invisibile che nei secoli ha colpito il suo popolo nella diaspora, al punto che qualcuno dovette inventare una stella gialla per ancorare quest’odio a un segno visibile. E, mi chiedo, in un posto così regnerà mai la pace?