Per la prima mattinata di lavoro al Miznon il mio boss è stato un ragazzino di 14 anni, di cui chiaramente non ricordo il nome. Mi ha insegnato a controllare i codici a barre delle confezioni e a impostare la macchina per appiccicare i prezzi, mi ha fatto vedere il magazzino e mi ha dettagliatamente spiegato le quattro possibili posizioni della leva del montacarichi. Io e Nela, la mia nuova collega tedesca fresca di giornata, ci guardiamo stupiti e ammirati dalla professionalità di questo pivello che pare il perno del negozio: dove posare gli scatoloni, quanti scaffali di pistacchi riempire, dove sono i cioccolatini, tutti chiedono a lui per qualunque direttiva logistica, e lui prontamente dirige. ‘Continua con ancora tre stock di semi di girasole, sai come si fa. Io vado ai gelati che hanno bisogno’, ‘Ok lascia fare a Nela, vieni con me che ti faccio dove buttare i cartoni’. A me si rivolge in ebraico, a Nela in inglese finchè non scopre che parla meglio il francese: lui è di nascita francese. Come tutti i ragazzini del suo anno, al posto che lezione il martedì è giorno di lavoro, chi al Miznon, chi nei campi, chi nelle cucine, chi al giardinaggio. I piccoli kibbutznikim crescono in fretta, chiamati di qua e di là a seconda dell’evenienza, conquistandosi ben presto rispetto e, i più svegli, responsabilità. Per il resto della giornata imparo come si aprono, puliscono, imbottiscono e confezionano i datteri, imparo i loro prezzi (un chilo 45 shekel (dieci euro), una confezione da dieci farciti di noci 23 shekel); imparo la loro consistenza, appiccicosa e malleabile, e imparo il loro lieve odore dolciastro; imparo come si dice scatola (qufsah); imparo a usare una nuova lavapiatti; imparo e dimentico istantaneamente i nomi dei colleghi e dei boss; imparo a non stare d’intralcio all’enorme cuoco mattacchione, perchè se ti pesta un piede nelle sue transatlantiche giravolte resti a letto due settimane. Imparo moltissime cose e parlo praticamente solo ebraico, con grandissima soddisfazione mia e dello staff, a cui finalmente capita un volontario speciale: sono il primo da anni che parla la loro lingua. I turni sono variabili, e assegnati di settimana in settimana: ieri ho iniziato alle 10, oggi alle 8, domani alle 13 e dopodomani alle 5.
Il Miznon è l’ultima evoluzione storica dell’oasi: dalle prime pozze d’acqua si è passati alle tende per passare una notte, poi a piccoli villaggi dove fare rifornimenti e infine, oggi, a una specie di autogrill con ristorante self-service, souvenir, caffè espresso Lavazza, benzinaio e punto di ricarica delle macchine elettriche, area pic-nic, sala congressi, parco naturalistico, belvedere, tabacchino. La clientela, come in ogni oasi che si rispetti, va a ondate: non più a seconda delle carovane di dromedari, ma su bus da 60 posti con aria condizionata. Sono perlopiù scolaresche, dirette o di ritorno da camminate sulle alture ai piedi della penisola del Sinai, inzaccherati di sabbia bianca e rossa fino alle orecchie, ma non mancano francesi, tedeschi, israeliani, escursionisti di vario livello, comitive di filippini, sudamericani, russi, oltre che gli operai che stanno lavorando alla seconda carreggiata della superstrada verso Eilat. Entrano, consumano, sporcano ed escono; noi, a seconda delle mansioni, controlliamo che i ragazzini non scippino niente (pare essere un rituale delle gite di classe internazionale), serviamo e puliamo. La vera attrazione del Miznon è il gelato, prodotto col latte di Yotvata, gusti importati dall’Italia e la mano di due gelatai che a loro volta sono stati in Italia a imparare l’arte: il risultato è più che soddisfacente! I ragazzini di Yotvata lavorano prevalentemente al gelato, spiluccando ogni due per tre.
Oggi ho condiviso la pausa pranzo con il volontario ecuadoriano Angelo, il barista anch’esso nato in Ecuador e poi trasferito a Yotvata e la sua migliore amica d’infanzia del kibbutz, entrambi trentacinquenni. Lei mi parla in un ebraico più forbito del solito, sarà per l’argomento: non capisce come mi sia venuto in mente di studiare in Israele, ma poi mi confessa che dopo l’esercito, a 21 anni, si è trasferita qualche anno a New York, poi dieci anni a Tel Aviv e infine è tornata a Yotvata, dove adesso ha due figli sui dieci anni. Le espongo le mie impressioni sul kibbutz, sul clima che percepisco e intavoliamo una bella discussione: lei sostiene che in ogni città, in realtà, l’individuo serve la comunità e la sua ricerca del profitto personale è un’illusione dettata dall’ignoranza di una visione d’insieme. Esattamente come nella nostra sala da pranzo sono presenti i datteri prodotti da Omri, raccolti da Kaleen, snocciolati da Ezvar e impacchettati da me stamattina, i piatti lavati da Juan e il pollo preparato da Eitan con i pomodori annaffiati da Yoni, allo stesso modo lei crede che nella città ci serviamo della manodopera reciproca, con l’unica differenza che non ci conosciamo di persona. Il mio punto, le rispondo, è che il kibbutz elimina ogni possibile passaggio intermedio tra la produzione e il consumo, ottimizzando le risorse a costo di eliminare la concorrenza: non esiste la pubblicità, nel kibbutz. E’ vero, non possiamo sceglierci il menu e mangiamo quel che passa il convento, ma questo è il prezzo per non dover pensare alla spesa; viviamo nell’appartamento assegnatoci dal kibbutz, senza possibilità di appello, ma è questo il prezzo per non doversi rivolgere all’agenzia immobiliare; lavoriamo dove Alona ci piazza, ma è questo il prezzo per non dover mettere annunci su internet e mettersi in macchina per raggiungere l’ufficio. Per tutto il pomeriggio medito sulla cinica simmetria fra economia e perogativa individuale: giungo alla conclusione che il prezzo per la pace e la spensieratezza che regnano nel kibbutz è una spietatata, implacabile sottomissione alla comunità; l’assemblea decide per l’individuo, da una parte dominandolo e dall’altra sgravandolo di noiosi grattacapi e incombenze. E’ un accordo, prendere o lasciare, la cui posta in gioco è il concetto di libertà: come autodeterminazione (libertà da…) o come tempo ed energie a disposizione (libertà di…)? Provvidenzialmente, poco dopo mi trovo a scambiare due parole sulla repubblica di Platone con il manutentore argentino, anch’esso immigrato al kibbutz: per hobby, leggiucchia di filosofia. ‘Non ho finito di leggere La Repubblica, ma anche Platone dice qualche gran stupidata. Sostiene che i soldati siano una classe tra le più nobili.’…fossero tutti così, gli spazzini! Lo stesso spazzino che poco dopo mi presenta un vecchietto sdentato ansioso di parlare italiano: negli anni ’40, dopo essere scappato dal ghetto di Budapest appena in tempo, si è rifugiato in Italia per infine approdare in Israele, con la moglie sposata a San Marino (le pratiche per l’erogazione di nuovi documenti per i profughi di guerra non erano ancora attive in Italia). Le sue memorie, espresse in un ottimo italiano, considerata l’età e gli anni di distanza, vanno alle colline fuori Roma su una moto Guzzi che ha finito per regalare al fattorino della macelleria kosher del suo quartiere, un cristiano!
Per il resto, qualche episodio simpatico: la cassiera che mi fa ‘Ah, sei tu Lorenzo! Sei famoso in casa mia, mio figlio parla sempre di te da quando l’avete messo in mezzo a una battaglia d’acqua alla lavastoviglie’. L’ho conosciuto alla partita di pallamano Italia-Israele, è un piccoletto con degli enormi occhiali elasticizzati, mi salutava con un cinque nonostante le mani sporche di humus in sala pranzo; il cuoco Guy che mi chiede se davvero in Italia si controlla la cottura della pasta lanciandola sul muro. Mi metto a ridere, poi mi fa alzare lo sguardo sul soffitto e uno spaghetto penzola allegramente; mi faccio serio e lo minaccio di non farlo mai più in mia presenza. Paula che mi grida dal fondo della sala di venire in cucina per sentire una canzone: è ‘Più bella cosa non c’è’ di Ramazzotti, famoso in Israele, e mi chiedono di tradurla; il tuttofare eritreo Jun, che si congratula della presenza di un italiano, ex colonizzatore della sua terra. Mi scrive su un pezzetto di carta il nome di una regista eritrea che lavora in Italia: ‘Guarda tutti e 20 i suoi film!’. Aveva ragione Alona, mi trovo bene.