Mentre seguiamo Sol, bat kibbutz di 17 anni mezza brasialiana mezza israeliana, a casa sua per prendere in prestito il pallone da calcio, sia io che Juan Carlos, collega trentenne di una penetrante profondità di sguardo, avvertiamo una tensione del tutto insolita, come una interferenza disarmonica in quello che ‘dovrebbe essere’. Giunti alle scalette d’ingresso di una graziosa e (stranamente) bentenuta villetta su due piani, Sol ci dice senza complimenti che noi aspettiamo fuori: siete volontari. Sbigottiti, sul momento non abbiamo la prontezza di reagire, ma non appena torna fuori col pallone le chiedo spiegazioni: i kibbutznikim ci considerano poco più che bestie assettate di alcol, sesso e droga, gente poco raccomandabile da usare ma con cautela. Barbari che parlano quella lingua grottesca che è l’inglese, turisti a tempo pieno estranei alle logiche comunitarie, rumorosi festaioli senza alcuna credibilità. A chiudere la doccia fredda fa segno di dislivello con le mani, una in alto e una in basso: noi siamo qui; voi qui. Alla faccia dei 17 anni! Sdrammatizziamo con una risata, ed entrambi abbiamo la dignità di non provare a convincere una ragazzina della nostra dabbenaggine; ma entrambi siamo feriti.

Ai ragazzi del kibbutz è vietato entrare nel quartiere dei volontari: una circolare interna lo proibisce. Oggi Eva si mi ha chiamato dal fondo del vialetto per invitarmi a giocare a calcio, e finalmente ho potuto buttarla lì: ‘cos’è, un confine?’, e tentennando mi risponde di sì. Ieri sera, in effetti abbiamo per l’ennesima volta confermato lo stereotipo e giustificato le precauzioni: dopo un inizio di serata con balli davanti a un fuoco nella piscina abbandonata e qualche bottiglia di arak sotto le stelle, a mezzanotte ci trasferiamo al Pashara che sta giusto aprendo. La maggior parte di noi dà una pessima prova, ballando convulsamente per poi trascinarsi fuori dal locale a smaltire la sbornia. Io me ne sto modestamente in disparte con Omri, Neta (altra lavoratrice israeliana) e qualche sudamericano che con noi aspetta il defluire del degenero per ballare con più tranquillità. Perdo una scommessa su quanti morti russi ci furono nella seconda guerra mondiale (26 milioni tra civili e militari!), scopro che i lavoratori quaggiù raccolgono crediti formativi da spendere in università o esperienze istituzionali future, tento per l’ennesima volta di spiegare che l’italiano è una lingua diversa dallo spagnolo…con scarsi successi: è un continuo ‘hola!’, ‘amigo’, ‘vamos a bailar’, con qualche eccezione di ‘spaghetti’ e ‘mafia’.
Qualche giorno fa lo stesso Omri, intuita la mia priorità di parlare ebraico e integrarmi nella vita del kibbutz, ha di testa sua chiesto al suo capo Ran se c’è bisogno di manodopera nei datteri. Il giorno dopo Ran mi ferma in mensa e senza i convenevoli incalza: ‘Sei tu Lorenzo? Come mai parli ebraico? Senti, la situazione è delicata. Ho parlato del tuo trasferimento con Cino e Alona, ed è lei l’osso duro. Lui tra poco torna in Argentina per una visita alla famiglia, quindi non è una pedina importante. E’ un’operazione delicata, non è facile. Aspetta domenica per parlare direttamente con Alona, spiegale che sei venuto qui per lavorare nei campi…’. Al che, per quanto intimorito da quest’ometto muscoloso, asciugato dal sole nelle sue rughe quanto nei suoi modi, azzardo: allora c’entra la politica? ‘Qua è tutta politica’, e se ne va. Non è scortese, è solo di poche parole. Anzi, considerando che tendenzialmente ai datteri vanno solo ragazze per raccogliere e impacchettare mentre il potaggio e la cura è prerogativa di kibbutznikim e lavoratori regolari, sta facendo un bel salto mortale per me. Il mio ringraziamento va a Omri, che mi ha capito al volo e che ha preso l’iniziativa là dove io, infimo volontario, non potevo arrivare.

A dir la verità già il giorno prima avevo esposto le mie ragioni ad Alona, la nostra responsabile, spiegandole che sono l’unico a parlare ebraico e dunque il lavoro nei campi, con solo israeliani, è la cosa più logica tanto per me quanto per gli altri volontari che si sentono puntualmente emarginati. Secondo, tutti i volontari ambiscono al Miznon o alla sala da pranzo, dove il tempo libero abbonda e le intemperie scarseggiano: anche qui, logica vuole che io faccia cambio con Mika, ad esempio, che non ne può più di rastrellare rami di palma intorpidita dal freddo alle 7 di mattina. Io ci metterei la firma per spaccarmi la schiena nei campi con l’alba sui monti giordani! Infine, Ran cerca manodopera. Ad ogni modo, le mie argomentazioni (forse perchè espresse in un ebraico stentato) non hanno sortito alcun effetto sulla lunatica e impenetrabile Alona, unico spettro della nostra permanenza qui. Anzi, forse proprio l’ultimo punto è il nervo scoperto di tutta la questione: la manodopera. Cosa s’intende per ‘politica’, quaggiù? Perchè qualcuno dovrebbe opporsi ad un nuovo lavoratore nei datteri? L’unica risposta a cui sono arrivato nelle mie elucubrazioni dietrologiche è che, in un luogo come questo, produrre è potere. Forse chi più fa per il kibbutz più è influente in sede decisionale, dunque l’avversione di Alona non è altro che una mossa sullo scacchiere clientelare. Non lo so e, seguendo il consiglio di Omri, non voglio saperlo. La mia unica arma dialettica, al momento, è smentire l’obiezione di Alona per cui non servono lavoratori nei campi e Ran vuole solo ragazze: lui in persona mi ha cercato per propormi il lavoro. Ma oltre a questo, sono in balia delle contrade locali con il solo appiglio del mio fidato Omri, che peraltro non è un kibbutznik.

Mal che vada, resterò coi miei rilassatissimi ritmi tra cucina, sala da pranzo e lavapiatti, con le mie pause thè, i miei spiluccamenti e le mie improvvisate lezioni di salsa con Juan Carlos. Se c’è però una cosa che ho imparato, in queste due settimane, è che la lingua è un muro: quest’universo di accenni, confessioni, allusioni, commenti giace sotto una spessa scorza di grammatica, sintassi e semantica. L’unico pertugio per sfondare il muro, questa volta morale, che al momento mi confina tra quelle bestie che sono i miei amici volontari è saper comunicare nella lingua dei kibbutznikim, capire le loro battute, buttare lì il commento giusto, non sbagliare le coniugazioni dei verbi, fino ad emanciparmi dalla condizione di barbaro, colui che non sapendo parlare balbetta suoni incomprensibili. E’ un lavoro lungo che non potrei completare neanche in una vita intera quaggiù, ma è quello per cui sono qui. Modestamente, qualche bel passo avanti l’ho già fatto: dai ragazzini che mi hanno invitato per tutta la settimana alla partita di pallamano di stamattina, a cui sono andato; da Corasso che saluta solo me, tra tutti, all’ingresso del Pashara; dalle battute di saluto oltre il shabat shalom di ieri sera con facce note qua e là; dai gossip freschi di giornata con Neta e Omri su cosa ieri sera ha fatto Mika o Gaan, etrambi seduti a tavola con noi….ma dall’altra parte del muro.
In tutto questo il mio pensiero va puntualmente a Andrew, storico rommate americano compagno nei giorni del grande salto nella vita adulta, e alla sua instancabile tenacia nel farsi strada in quel nuovo universo che è una lingua straniera. Vorrei avere anche solo metà della sua perseveranza, per acquisire almeno un quarto del suo successo. Solo ora capisco la sua smania, quando io e la Cippa provavamo a fargli dire la doppia ‘r’ di ‘azzurro’ e ‘birra’, e solo ora mi accorgo che con ogni mio cedimento all’inglese gli ho fatto un torto imperdonabile.