Grattando la superficie

Il tempo del kibbutz, misurato nella morbida alternanza tra lavoro sodo e riposo totale, inizia a trasformare gli abitanti che mi circondano in funzioni: l’identità personale, prima di tutto, passa per il ruolo svolto per la comunità. C’è il responsabile della sicurezza, l’allenatore di basket, il giardiniere, il raccoglitore di datteri, il cuoco, il muratore, il lavandaio e soprattutto i bambini, il futuro se non del kibbutz se non altro della nazione (questa appartenenza si sente), e solo dopo tutto questo c’è un nome, un fratello, una voce, un carattere, una storia e delle aspirazioni. In un microcosmo circondato dal nulla che,  illuminato dai lampioncini gialli o bianchi, si abbraccia nella sua totalità in uno sguardo dalla collina, sai che tutti quelli che vedi di giorno dormono sicuramente in una di quelle casette e torna puntuale la domanda: tu cosa sei? Io, fino a oggi, lavapiatti, ma domani Ran, il responsabile del lavoro nei datteri, vuole parlarmi e non vedo altro motivo se non per chiedermi di lavorare con lui. Mi piacerebbe molto.

La mia aspettativa naive di un’esotica esperienza d’isolamento e ritiro spirituale in una comunità di asceti è ormai decaduta. L’inganno, perpretrato dalle tre ore di strada tra sassi, sabbia e kanyon per giungere quaggiù, dallo spesso buio che assedia il kibbutz da dopo il calar del sole, dal silenzio su cui vanno in scena il canticchiare degli uccellini e il ridere dei bambini, dal profumo di mucca che puntualmente ci ricorda che siamo la latteria d’Israele (qui le pubblicità del latte di Yotvata!), è ormai stato svelato. Dai bambini che mostrano orgogliosi il loro diario alla moda, dalle ragazzine che guardano le telenovelas alle 4 del pomeriggio, dalle uscite a Eilat per fare shopping, dalle visite a Grofit, Ketura o Elifaz per questa partita di calcio del torneo nazionale o quel settimanale corso di ballo. I kibbutznikim non vivono di soli melograni e palme, hanno anche loro bisogno di vestiti alla moda, gossip, compagnie d’amici, cinema, teatro, musica, birra del dopo lavoro, competizione, farsi un giro, feste di compleanno, e di tutto quello che chiamiamo società. Società tanto vicino alla nostra, con tutte le sue dinamiche che solo nel loro capriccio riescono a soddisfarci, quanto lontana dal normale setting su cui siamo abituati a vederla. La normalità del kibbutz si serve del comunismo per fornire i servizi della città capitalista: la lavanderia comune, la lavapiatti industriale, il negozio senza moneta, le bollette detratte dallo stipendio mensile, l’assenza di cancelli, il bus gratuito ad Eilat, la porta della palestra senza chiavi non sono il fine del kibbutz, in quello che altrimenti sarebbe un malsano crogiolarsi nell’ideologia, ma sono il mezzo per far stare bene, o anzi meglio, le stesse persone che nel resto del mondo sbrigano i propri affari da sè, con un’enorme dissipazione d’energia. Io che mi figuravo un mondo popolato da persone dotate di grandissima motivazione, di comune background culturale, di insolita forza d’animo (come tuttora credo fossero i fondatori dei kibbutz) per sopravvivere alle intemperie, mi accorgo invece che vivere quaggiù, nel ricco kibbutz Yotvata, è facile: è la più naturale scelta di vita per coloro che, cercando di costruire una bella famiglia in un ambiente sereno, non hanno mire di conquista del mondo…altrimenti sarebbero a Tel Aviv. Ora dal momento che le persone semplici, che cercando di vivere bene senza farsi male reciprocamente, sono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, perchè non viviamo tutti in un kibbutz?

Il kibbutz, nella sua mirabile e coordinata efficienza, sa essere crudele. Per diventare membro della comunità a tutti gli effetti (diritto di voto nell’assemblea generale), è necessaria una preliminare permanenza di almeno due anni alla mercè del kibbutz che ti fornirà alloggio, vestiti, stipendio a seconda del lavoro che offri alla collettività. Al termine dei due anni, in cui generalmente qualche conoscenza interna s’incarica personalmente della ‘presentabilità’ del candidato, l’aspirante kibbutznik può inoltrare una richiesta ufficiale d’accoglienza, vagliata e infine votata dall’assemblea plenaria. Non è infrequente il rifiuto: fatti questa competenza e torna; non lavori abbastanza; non riusciamo a sostenere il tuo costo come interno, possiamo assumerti solo come esterno; insomma, tante declinazioni di una stessa, tagliente verità: non servi alla comunità, non sei un buon investimento. Tra pochi giorni c’è il voto per una mia collega in sala da pranzo, e nonostante gli sforzi di Ila, la nostra capa che intercede per lei, pare non ce la farà. Fortunatamente i tempi e le necessità cambiano col tempo, quindi non è detto che un domani il verdetto si ribalterà. Per il rito d’iniziazione, che ad un livello globale è un passo della strategia economica della comunità-azienda, ci devono passare tutti, compresi i ‘bne Yotvata’, i figli dei kibbutznikim. Il fatto è che questa scelta aziendale comprende tra le voci di bilancio i costi di piscine, sale musica, gite, vacanze pagate, palloni, vestiti, libri e tutto ciò che concorre a dare il tenore di vita del kibbutznik. Come è chiaro, un’ingerenza tanto massiccia della collettività sulla vita individuale mal si concilia con l’impostazione familiare tipica del mondo esterno: sarà per questo, sarà per una diversa concezione di ‘maturità’, a 16 i ragazzi sono spostati a vivere in un quartiere a parte, tutto loro, in case da quattro. La loro indipendenza dalla famiglia diventa immediata ed effettiva, non sussistendo nel kibbutz la necessità economica: continuano ad andare a scuola, a trovare i libri di testo sul banco il primo giorno, ad andare ad allenamento, a mangiare in mensa, a ballare al Pashara il venerdì sera. A sancire il rito di passaggio, un giorno alla settimana lavorano per il kibbutz, chi nei datteri chi al Miznon (l’hotel-ristorante di proprietà del kibbutz). Ad ogni figlio del kibbutz spettano, qui a Yotvata, tre anni di studio accademico pagati, il cui rinnovo per specialistiche o dottorati è a sua volta sottoposto al voto dell’assemblea. Il fondo non è vincolante, e molti vanno in giro per il mondo dopo aver conseguito una laurea pagata dal kibbutz: ‘molti tornano per far famiglia’, mi dice ridendo un pensionato in sala pranzo, ma è degli immigrati che vive la comunità. Qui sono prevalentemente sudamericani (sono arrivati come volontari e non se ne sono mai andati), ma non mancano gli europei e israeliani di varia provenienza.

L’efficiente ottimizzazione delle risorse umane si scontra quindi con i legami familiari, e la tensione risulta evidente nel caso dei bambini con problemi fisici o mentali. In questi casi, pochi ma appariscenti, il baco del sistema salta fuori prepotentemente, scatenando in me una lucida compassione nel rintracciare i meccanismi che producono questa sofferenza. Eviatar, tondo ragazzone di ventun anni storpio sul braccio destro e ritardato, è un figlio di Yotvata. Gira da solo, col suo minuscolo e spettacolare cagnolino di tre mesi e il suo cappellino perennemente girato al contrario, per il kibbutz deserto nelle ore del giorno: chi lavora o chi studia, tutti sono occupati. Ogni volta che lo incrocio mi fermo per due parole, rigorosamente in ebraico perchè non parla inglese (qui dove i bambini di 7-8 anni lo parlano disinvoltamente, seppur semplicemente, spesso in alternanza a un basilare spagnolo): sorriso ebete, ogni volta mi attacca una filippica sull’inammissibile non-religiosità del kibbutz in cui il cibo è kosher solo per modo di dire, mentre invece l’intera cucina dovrebbe avere il certificato (una cucina kosher minimale richiede un doppio servizio di….tutto, per carne e per latte, più un servizio ad hoc per la pasqua che non deve mai e poi mai venire a contatto con lievito, un trattamento speciale per la carne e un commissario di controllo della regolarità del tutto, nonchè la garanzia che nessun goy, un non ebreo, tocchi il vino rosso), sull’assenza di una decente sinagoga, sul fatto che gli arabi vanno a pregare lassù dove c’era il Tempio. La deviazione più significativa delle nostre conversazioni, in cui tra le righe gli ho fatto notare che tutti noi volontari nelle cucine siamo non-ebrei, è stata sul calcio italiano. La tragedia di questo goffo e inoffensivo personaggio, che abita da solo nelle case dei ragazzi, è la sua inutilità. Nessun bullismo, nessuno snobismo, nessuna denigrazione da parte della comunità, solo una totale, insanabile inadeguatezza alla situazione: ironia della sorte, il contrario di quella kasherut (‘conformità’) che tanto pretende. Non ha fatto il militare, non lavora, non so da quanto non studi più; ciondola, lo vedo in sala da pranzo la sera con sua mamma e altri anziani, gli unici con cui condivide quella che per lui è la condanna, per loro il diritto, a non far nulla. Nonostante la comunità lo nutra e si prenda cura della sua sopravvivenza, rimane un emarginato di questa macchina di cui ciascuno deve essere un ingranaggio, e lo rimarrà finchè non gli troveranno una funzione, per quanto irrisoria, che dia senso alla sua presenza qui. Ma fino a quel momento, alla domanda ‘tu cosa sei?’ la prima risposta sarà sempre ‘niente’.

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