Guerra di stato, battaglie di fango

La giornata di oggi, inziata mezzora in anticipo per avere il tempo di leggere il giornale con calma, si è rivelata la più sbalorditiva della mia vita…e non è ancora finita. Fino a mezzogiorno tutto normale, piatti e pentole imbrattati di cumino e curcuma come al solito, nell’ora di punta a testa bassa dietro la macchina come al solito. I primi avventori, stamattina, sono un drappello di ufficiali, probabilmente di passaggio verso le basi al confine del Sinai: parlottano mangiando in fretta, i mitra appesi alla sedia come cappotti. Alla seconda pausa colazione, alle 9 e mezza, al solito commento delle notizie del giorno prima Or mi racconta il criterio di richiamo delle riserve: prima per tipologia (se servono carristi o artiglieri), poi per età (i più freschi di addestramento sono i primi). Lei, mi spiega, ha servito come intelligence a Hebron: trasmetteva i messaggi dal campo al quartier generale; non verrà chiamata per Gaza. In quel momento Moshiku, il nostro collega etiope, ci passa davanti in bici dicendo che tornerà in cinque minuti: dove vai? a controllare se mi hanno richiamato alle armi. Ok, risponde semplicemente Or, e ricomincia a sorseggiare il suo caffè. Non dico niente, non chiedo niente: non voglio essere un turista, neanche in queste situazioni d’emergenza. Lei mi guarda, mi legge dritto negli occhi e sbrigativamente liquida la questione, una volta per tutte: ‘Tutte le televisioni sono accese sulle notizie dalla mattina alla sera, in ogni casa. Siamo preoccupati, ma non c’è niente da dire. Ieri hanno intercettato altri due missili diretti a Tel Aviv: questa guerra andava fatta, prima o poi. E’ sempre stato così…e comunque, passerà in fretta.’ Dopodichè se ne torna di nuovo al suo caffè. Non c’è eccitazione sul suo volto, nè preoccupazione: sono una maliconica, triste rassegnazione, giusto incrinata da una punta d’odio per gli arabi.

Indaffarati e sudati tra i piatti roventi, notiamo soltanto una luce più fioca del normale inondare le finestre: nubi nere si ammassano sopra di noi. Non ha ancora iniziato a gocciolare che, alzando gli occhi dal nastro, mi si presenta davanti una faccia nota, una delle tante che vedo passarmi davanti tre volte al giorno per depositare il vassoio. Il solito cordiale ‘shalom’, solo che stavolta è vestito in braghe verdi e porta il mitra a tracolla. Non faccio in tempo a realizzare, a formulare nè tanto meno chiedere, che già è uscito dalla sala macchine, e già ne è entrato un altro, poi un altro ancora e infine un drappello di una dozzina: sono tutti kibbuznikim, quelle facce abbronzate dalle mani callose che sono abituato vedere in tuta da lavoro blu, e non in bermuda verdi. I mitra legati alla cinghia con cordini di vario tipo, stringhe delle scarpe, fiocchi, non li fanno comunque sembrare giocattoli. Di M-16 ne vedi tanti, in braccio a ragazzini più giovani di me addormentati sul bus che li porta da Gerusalemme a Tel Aviv per il weekend di licenza, per le strade o in stazione a Beer Sheba. Ma stavolta è diverso: mi faccio suggestionare dall’idea che questa volta sono in mano a omoni che hanno già fatto il Libano e hanno visto altre crisi di Gaza, hanno già puntato per uccidere e magari hanno ucciso. O magari no, e mi sto solo sollazzando con macabri pensieri. Vanno a campi di addestramento per una rinfrescata, e prima che siano pronti per il fronte la guerra sarà probabilmente già finita. Ma quelle facce note, strappate ai campi, alla latteria, ai datteri, che con la stessa rude cordialità mi salutano da dietro il nastro, mi impressionano. C’è anche l’allenatore di pallamano, con cui sono andato a vedere Italia-Israele a Eilat: è serio, concentrato. E’ alto, grosso, suo figlio se ne sta in sala a mangiare con gli altri bambini, e nessuno dei due sembra spezzato dall’angoscia. Anzi, proprio no: in sala tutto è normale, chi lavora e chi si prepara alla guerra, chi è tornato da scuola e chi sta per andare ad allenamento. Niente scenate da panico, benedizioni  a mani giunte da qualche rabbino locale, niente piagnistei di donne che si battono il capo vestito di nero, niente bandiere palestinesi bruciate, niente maledizioni su Hamas; solo un composto, ligio, sommessamente addolorato senso del dovere per uno Stato che dà e che chiede molto. Omri, lavoratore dall’enorme cappigliatura fulva e dunque noto come ‘Disco Stu’, non è stato richiamato: mi dice che andrebbe al fronte a scovare le piattaforme di lancio che minacciano i suoi amici a Beer Sheba, ma a quanto pare non tocca a lui; resterà a raccogliere datteri, seguendo la guerra sui giornali. Anche in questo, Israele mi mostra quell’efficienza e volontà che manca agli arabi, pronti a scagliarsi in massa al fronte del Sinai senza riserve d’acqua o in piazza a Gaza sparando all’impazzata, generando disastri. Anche la sproporzione di mezzi è considerevole, e i 65 morti palestinesi, di cui circa metà vittime designate dall’intelligence, contro i 3 israeliani dei 500 missili partiti alla cieca da Gaza ne è testimonianza: ma, mi chiedo, se non fosse per le contingenze materiali chi ucciderebbe di più?

Carosello sotto il diluvio.

Tuoni, tuoni potentissimi spaccano il cielo e fanno tremare le finestre. In due minuti viene di uno scuro che sembra sera, e attacca un diluvio apocalittico. L’acqua scroscia da coprire lo scroscio della lavastoviglie…e ce ne vuole. La mia mente va subito agli shitfonot che già si stanno creando sulle montagne. Altro che guerra, questo sì che è eccitante: a turno i colleghi di sala fanno una capatina alla nostra finestra aperta, ad odorare il bagnato, poi grida di gioia da fuori: ‘Geshem! Geshem! Geshem!’ Pioggia! Pioggia! Pioggia! I bambini sono in visibilio: fradici sotto il diluvio e i fulmini in lontananza, danzano alla rinfusa nel piazzale guidati da Silvio, l’altro allenatore di pallamano. E’ una festa, una vera e propria danza della pioggia spontaneamente lanciata da bambinetti di dieci anni. Scorazzano e si tuffano nelle pozzanghere immediatamente formatesi, in mezzo ai loro padri col mitra a tracolla che, al riparo della tettoia, li guardano divertiti aspettando il bus che li porti a nord, alla base. Ultimo fotogramma di questa scena d’altri tempi, in cui la guerra esisteva e l’acqua era un lusso, è Cino, il nostro responsabile della sicurezza, trotterellante dietro il drappello dei kibbuznikim col suo capello ingellato e il brillantino all’orecchio, anche lui dentro i suoi scarponi neri e il suo enorme mitra a tracolla.

Alle due la sala si svuota più in fretta del solito: gli adulti sono scappati a casa, i bambini sono festanti nelle pozze. Rimasto solo con una signora di palesi ascendenze sudamericane, che per la prima volta mi regala lo straziante spettacolo della disperazione per suo figlio che tra pochi mesi entra nel servizio di leva, e un vecchietto israeliano che a dodici anni ha lasciato casa per iniziare a girare per kibbutz, l’acqua ci assedia: dal soffitto, dalle porte a vetri, dalle finestre, non è che un inesorabile infiltrarsi, dilagare, stendersi per tutto il salone. Saltano le luci, è penombra. Arriva provvidenzialmente Moshiko, e iniziamo a spazzare l’acqua verso lo scolo della sala macchine. Arrivano i ragazzi dei licei, finita scuola, già zuppi e anche loro eccitati: tangugiano il cibo e mi invitano alle 4 alla ‘piana’. Tornata l’elettricità e chiuso il salone, ha smesso di piovere. Il sole sbuca qua e là più intenso di prima, anche se ormai vicino al tramonto. Con David, Mika e Shirley raggiungiamo i ragazzi che ci stanno aspettando, e finalmente ci incamminamo verso lo shitafon. Nell’attraversare il kibbutz una derilante anarchia regna ovunque: solo bambini, in ogni angolo, immersi fino al ginocchio in buche e pozze fangose, biciclette che surfano piscinette naturali, gare di salto in lungo rigorosamente nell’acqua. Giunti alla piana dietro il campo da calcio, che si apre sulla vallate e i kanyon del deserto di cui non vedi la fine, un reticolo di fiumi e fiumicciattoli marroni tagliuzza la sabbia generando fenomeni tra i più singolari nel giro di pochi metri quadri: una sabbia mobile qua, dove a camminare rischi di lasciarci lo stivale, una profonda rapida là, una vasca di morbido fango mellifluo laggiù. Ora capisco l’eccitazione dei bambini: il gioco è tirarsi palle di fango, possibilmente nei capelli, e imbrattarsi a vicenda di questa specia di argilla che, asciugata, diventa una solida crosta croccante. Dopo qualche tentennamento, non posso che buttarmi anch’io nel fango aizzando i maschi, soccombenti, alla riscossa contro il gentil sesso.

Reduci.

Tornando verso la doccia che mi aspetta nella mia casetta, voltandomi a guardare gli ultimi bagliori del tramonto su quei ragazzini inzaccherati fino alle orecchie, mi si presenta d’improvviso la strana intimità dello shitafon, questa tanto attesa alluvione che deturpa completamente il paesaggio altrimenti immoto, e la guerra con gli arabi che, puntuale nella sua casualità, arriva: prima o poi, non c’è che da aspettare. Come le piogge, è una calamità naturale per cui bisogna passare e alla cui ineluttabilità non si può che arrendersi, cercare di sopravviverne la violenza e infine ringraziarla per la rigogliosa stabilità che garantirà per altri 5? 10? 30 anni?

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