Il venerdì del villaggio

All’uscita del refettorio, dopo cena.

Ieri sera, entrato lo shabbat col tramonto, inizia la festa. I saluti si fanno calorosi, i tempi più rilassati, i sorrisi più frequenti, i capannelli di chiacchiera al parco giochi o fuori dalla mensa più gustosi e perfino i bambini più giocosi. In questo clima da festa di paese, con i giornali del mattino ancora spiegazzati qua e là agli angoli del tran tran quotidiano, i cordiali shabat shalom, letteralmente ‘sabato di pace’, suonano proprio come una preghiera o piuttosto, visto il contesto, una speranza. Infatti il kibbutz è davvero una realtà laica, al limite dell’ateismo, in cui il rito del sabato è segnalato da un misero cartellino appeso alla bacheca con una freccina indicante il basso, verso una saletta adibita a sinagoga. Il cuore della ritualità è invece il club, un open bar di the, caffè e torta la cui apertura inaugura il dì di festa: dopo la fastosa cena con ogni prelibatezza, la cui kasherut si limita all’assenza di carne e latte nello stesso piatto e l’assenza di maiale, ci si stravacca infine su divanetti e sedie di plastica, panchine e gradini sbocconcellando tortine al cioccolato e sorseggiando aborrevoli, per noi italiani che dalle 11 del mattino in poi sono vietati, cappuccini. Le tute da lavoro sono sostituite dai vestiti ‘della domenica’, il sudore del lavoro nei campi da profumi, gli stivali di gomma e gli scarponi di pelle da infradito e sandali.

Alle 7 e mezza, con un the alla menta in mano in giro per il kibbutz, la nostra notte è giovanissima. Il Pashara, il locale del kibbutz, apre alle 11 con uno spettacolo di musica dal vivo: abbiamo tre ore abbondanti a disposizione, chi per dormire, chi per bere, chi per guardare un film, chi per leggere, chi per fare jogging. Con il tramonto alle 4 e mezza e la cena alle 6 e mezza, è come avere due notti da vivere. Dopo una capatina dagli esagitati lavoratori etiopi, sempre immersi tra fiumi di vino e musica ebraica dal forte accento arabeggiante dello Yemen, del Sudan o dell’Iraq, ci facciamo una partitina a carte, portiamo a casa uno delle prime vittime della notte, ubriaco alle 10 tanto da non sapere se sta parlando in inglese o ebraico, e ci rechiamo infine al locale. Stupefatto, noto già dai tavolini all’ingresso uno strabiliante miscuglio di avventori: kibbuznikim di 60 anni con la birra in mano, africani neri neri neri con l’arak, tipo sambuca ma più forte, in mano, soldatesse a casa per il weekend con la sigaretta in mano, ragazzine del kibbutz di 15 anni con le mani in mano, intimorite e eccitate dal vociare senza ritegno. Poi attacca il gruppo, tutti del kibbutz: basso, batteria, chitarra e due voci, lei tonda e potente, lui giovane smilzo e gracchiante, spaziano dal sound rock classico allo ska, a qualcosa d’indefinito con un beat che ti entra nelle ossa. Sia cover che canzoni loro, tutto rigorosamente israeliano, la gente si scatena in balli convulsi ciascuno prendendosi il proprio spazio, disponibile sotto il palco. Vedo subito ‘Corasso’, famigerato ballerino scatenato la cui la fama lo ha preceduto presso di me: avevo sentito parlare del suo piglio deciso e dei suoi 120 chili di mezzo brasiliano-mezzo iracheno-mezzo polacco-mezzo spagnolo (ma quanti mezzi sangui hanno gli ebrei?) dal nome italiano per quando la sua famiglia, sotto Isabella di Castiglia, dovette scappare vicino al lago di Como da Madrid, quasi cinque secoli fa. Una massa di pelo brizzolato e sudore, si agita in mezzo alla pista senza alcuna vergogna, peraltro muovendosi molto bene. Le quindicenni saltellano qua e là bisbigliandosi di tanto in tanto nell’orecchio, i ragazzoni israeliani cantano a squarciagola in prima fila, la vecchia guardia li osserva compiaciuti dalle retrovie con una Goldstar media alla spina in mano, tutti ondeggiando ritrmicamente, io e i koreani ci facciamo gradualmente prendere dall’atmosfera di fai-quel-che-ti-va-di-fare della situazione. Gli africani restano fuori a sbellicarsi di risate in un ebraico strettissimo tra i fumi dell’arak.

Dopo innumerevoli bis, all’alba dell’una dopo quasi due ore filate di buona musica, il gruppo cede il passo alle casse e i woofer della discoteca: entrano gli africani. Mimetizzandosi nell’oscurità, sarà per le quattro birre, vedo solo i loro occhi e denti brillare ai flash delle luci psichedeliche. E’ il momento di noi volontari, a nostro agio tra musica finalmente internazionale e, per quanto banale, nota a tutti: si balla a caso, anche io e il mio nuovo coinquilino che siamo di indole riservata, girando nella sala facendosi tirare per il colletto di qua e di là da tal collega svedese o tal sconosciuto etiope. Nelle boccate d’aria all’esterno ai noi nuovi vengono presentate decine di facce note con appioppato un nome da cane, che non c’è verso di ricordare: Or, Ori, Dor, Dror, Shirli, Shiri, Ziv, Iaziv, Dan, Dani, Sol, Ilan, Ilana, Yail, Yael, Avi, Aviel, Ariel, Ari, Amit, Amir…su quattro o cinque lettere di nome, di cui generalmente in ebraico solo tre sono scritte, a far la differenza è una vocale rosicchiata. Seduto tra i tavolini, in compagnia di un mio collega israeliano in cucina, scorgo la possente massa di Corasso in una pozza di sudore. Nell’euforia della serata, mi lancio in ebraico: ‘Fammi indovinare, tu devi essere Corasso’. Dopo un attimo di sbigottimento, quando lo informo della sua fama, si fa una risata imbarazzata e mi chiede di dove sono (l’accento piatto dell’italiano e la mia ‘r’ naturalmente moscia si prestano a dare la sbagliatissima impressione di essere israeliano, mettendomi nella scomoda situazione di chiedere di ripetere la battuta più lentamente). Stupito dal mio non essere israeliano e neppure ebreo, informazione cruciale che butto sempre immediatamente sul tavolo a scanso di equivoci, inizia il solito giro di domande: ma che ci fai qua? cosa ci trovi d’interessante in Israele? Ah, quindi Gerusalemme? Dove hai studiato l’ebraico? E quanto ti fermi qui a Yotvata? E di dove in Italia? Pensa, ho uno zio sposato con figli a Milano, sono andato a visitarlo l’anno scorso! (c’è sempre un qualche amico o parente che si è trasferito in Italia, gli israeliani sono ovunque) per chiudere infine con un classico col hacavod, ‘ogni onore’, per il mio ebraico e la mia scelta.

La serata finisce alle 3 e mezza, col locale che ci butta fuori sotto il solito cappello di stelle e il silenzio delle montagne, appena rischiarate in lontananza. Mentre a Gaza infuria la guerra, come si può non andare a letto in pace, col mal di gambe che già si fa sentire?

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...