La vicinanza a persone che vengono da molto lontano, sia spazialmente che culturalmente, non lascia indifferenti. Cosa porta una cinese di un villaggio sperduto nelle colline e un colombiano di Bogota, 9 milioni di abitanti più favelas, nello stesso kibbutz nel profondo sud d’Israele? Non hanno nulla in comune, neanche nello svolgere le più basilari attività per la sopravvivenza: mangiare, dormire, vestirsi…comunicare. E io? Cosa c’entro con loro? Nessuno di noi, tranne un argentino, è ebreo, ma tutti gli altri non hanno il minimo interesse storico-antropologico per Israele (o meglio, non ce l’avevano: le due svedesi e un ecuadoriano mi anno bombardato di domande quando hanno saputo della mia minima conoscenza del posto): c’è chi è qui per pausa dallo studio, chi per godersi la vita prima di iniziare la normale esistenza, chi semplicemente per noia. Eppure tutti noi, nella nostra assurda diversità, saremo indissolubilmente uniti da questi, relativamente pochi, giorni: dal profumo di fiori a novembre inoltrato, dai divani sfondati all’aperto, dall’alba sulle montagne giordane dalle finestre della cucina, dal ballare salsa in pigiama sull’erba, dalle banane pucciate nel latte al cioccolato, dal silenzio delle stelle e dei grilli mentre si torna a casa a piedi nudi sulla sabbia, dall’addormentarsi con la sensazione che i problemi della vita siano ad almeno 300 km di distanza in ogni direzione.
Il passo successivo è chiedersi cosa significhi questa esperienza per ciascuno. Cosa vuol dire per David, laureato in ingegneria civile a Quito, essere arrivato fin qui? E per Lisa, neo maturata da Goteburg? E per Omri, da Netanya? E per Dor, nato e cresciuto qui con la prospettiva di restarci? Realizzando la varietà di background di noi abitanti con le nostre aspettative e proiezioni, viene da chiedersi se l’esperienza kibbutz abbia un valore intrinseco indipendente da ciò che ci porta a viverla. E se sì, chi si azzarda a individuarlo, cioè a descrivere la nostra vita qui con pretese oggettivistiche? E come per me adesso, cosa significava per i miei coinquilini americani abitare 4 mesi a Milano, nel cuore dell’Europa? Ora capisco l’eccitazione, lo shock, la paura e la voglia di restare per sempre. Ma se non il luogo di residenza, con tutto ciò che facciamo diciamo pensiamo scriviamo vediamo in esso, dov’è il valore assoluto su cui calibrare i successi e gli insuccessi della nostra vita? Per Dor non è una conquista comprendere e adattarsi alla vita di Yotvata, come per me non è una conquista abitare a Milano. Forse il valore assoluto è da intendere come intervallo matematico, cioè l’ampiezza del salto da dove si parte a dove si arriva e quindi dello sforzo richiesto dall’adattamento, un po’ come il tempo è la misura del cambiamento e non il suo contenitore a priori. Addentrandosi nelle immedesimazioni, nelle congetture e nelle proiezioni del sentire altrui ti senti mancare la terra sotto i piedi: quanto di queste palme, rocce, casette, biciclette, stoviglie è reale? Cosa, di tutto questo mondo che si svolge in dose massicia dentro le nostre scatole craniche, è il comun denominatore che unirà le nostre memorie per sempre e che ci riporterà tutti nello stesso posto, a poche miglia dal mar Rosso, all’imbattersi nel profumo di datteri?