Prima di tutto, lavoro.

Albero dalla forma assurda nel giardino davanti al refettorio.

Consegnato da Alona nelle mani del colombiano Juan, mia guida nei primi giorni di lavoro, per prima cosa ci siamo recati nel bunker dei vestiti. Il kibbutz, fondato nel ’57, scopro essere costellato di rifugi anti missilistici degli anni settanta, sia all’interno che sulle colline che lo circondano. In tempo di pace molti bunker sono stati adibiti a mansioni civili, nonostante la continua manutenzione dei sistemi di areazione e idraulici: non si sa mai. Il bunker in questione è ora deposito dei vestiti per i lavoratori, volontari e non: scaffali su tutto il perimetro tracolmano di magliette di ogni colore e forma, taglia e stato di usura: dalle giacchette antivento fosforescenti ai top a fiorellini ai pantaloni per lavorare nei campi. Faccio il pieno di magliette e due pantaloni lunghi: farai fuori una maglietta al giorno, sogghigna Juan, vedrai.

Mercoledì mattina, alle 6 in punto in refettorio, capisco: Iazik, responsabile dei ‘lavandini’, mi porta in giro per la cucina mostrandomi sommariamente la logistica e la divisione dei compiti, alle 6 e 15 mi rimette nelle mani di Juan che mi aspetta con un paio di guanti di lattice. Così, di punto in bianco, ancora tramortito dal sonno, mi ritrovo inaspettatamente a fare un lavoro di alto profilo filosofico, cioè organizzare per categorie ontologiche generali ed esaustive a priori l’intero inventario di una cucina da 600 persone: svuotaggio lavastoviglie. La macchina è un nastro trasportatore circolare con 18 carrelli semicingolati su cui i commensali posano le stoviglie sporche che, entrando in un parallelepipedo metallico rumoroso, ustionante e fumoso, vengono lavate con getti di vapore a quasi cento gradi. Noi le aspettiamo all’uscita per metterle a posto su scaffali e carrelli di spola con le cucine nella stanza accanto. Piatti, tazze, coppe, coppine, coppette, forchette, coltelli, cucchiaini, teglie, vassoi, bicchieri, terrine, coperchi, brocche, fruste, mestoli, lame di ogni forma e

Il mio regno.

pericolosità, barattoli, tutto inesorabilmente trangugiato e rigurgitato dalla macchina: ho fatto due giorni di lavoro e finalmente ho capito Marx, l’alienazione dell’operaio, la tecnocrazia, la lotta di classe, la rivoluzione permanente e il potere della lobby ebraica. Quando Julian, altro colombiano, ferma il nastro per le pulizie degli ingranaggi di metà mattina vedo i carrelli tornare indietro, mi spavento. Juan scoppia a ridere: certo, dopo circa due ore che lavori la percezione è alterata, e lo stop sembra un’inversione di rotta. Minchia. Eì proprio vero che non ci sono limiti all’adattamento umano. Il nostro peggior nemico è l’humus, tipica pasta di ceci del vicino oriente, che nella sua densità appiccicosa resiste a qualsiasi lavaggio. La noia, invece, è facilmente messa k.o.: in primo luogo cercando di lavorare bene, coordinati, ottimizzando le energie e raffinando le categorie di smistamento fino ad arrivare all’equilibrio perfetto di dettaglio (contenitori da insalata divisi per profondità oltre che per diametro), utilità media (nonostante la forma particolare che esige un reparto ad hoc, le brocche capitano troppo raramente per meritare tale investimento), comfort (è sempre comunque meglio riempire gli scaffali e i carrelli più vicini, anche a costo di mischiare tazze coniche rigate con scodelle cilindriche lisce). In secondo luogo, danza: i due sudamericani sanno davvero ballare la salsa, la baciata, il merenghe, il tango, non è una leggenda, e tra il picchiettio coi coltelli sui piatti e il fischiettio caraibico anche sala macchine può diventare un sambodromo….con un po’ di fantasia…e qualche ora di sudore alle spalle.

La sala da pranzo.

Ai miei colleghi volontari sono assegnati lavori tra i più disparati, dalla raccolta datteri al giardinaggio alla cassa al supermercato al taglio pomodori, con assoluta noncuranza per la fatica richiesta: regola numero uno, non si discutono gli ordini. Alona è una tipa diretta, addirittura più dello standard israeliano: nella pausa pranzo di ieri la trovo a tavola con un’altra kibbutznikit, mi chiama e mi presenta come l’unico lavoratore che parla ebraico. L’amica, lavoratrice esterna da Eilat, mi bombarda di domande e rispondo con piacere, essendo la lingua veicolare delle otto ore di turno lo spagnolo, sfoderando il mio miglior lessico. Siamo nel pieno della disquizione tra i pro e i contro della vita a Gerusalemme quando Alona balza fuori con un secco ‘Ok Lorenzo, adesso vai a pulire il bunker internet con Julian. E’ in cucina, ti spiega tutto lui, ciao’. Rimaniamo entrambi un po’ spiazziati, mi commiato e vado a cercare Julian.

Il bello di attaccare alle 6 di mattina, in un luogo in cui non esistono i tempi di trasporto e

Lampioni accesi all’uscita da cena.

pressochè neanche i mezzi di trasporto se non bici, tricicli e golf car, è che si vive il doppio: finita la massacrante mattinata, alle 2 inizia la vera vita. Ieri mi sono fatto un giretto sulle alture qui intorno che, oltre a una meravigliosa vista sulle sabbie, le rocce e i filari di datteri in lontananza, offre l’esperienza di una ex zona militarizzata: trincee, bunker e filo spinato dallo Yom Kippur ancora circondano e difendono Yotvata, e nonostante tutto percorrerli scatena un brivido. Chissà quanti colpi sono stati sparati da questo nido di mitragiatrice? Chissà se e quanti sono morti? E chi? Ma soprattutto, perchè? C0sa c’è da difendere in un posto che a perdita d’occhio offre solo disitratazione e morte? Oggi quei bunker sono il nostro ritrovo delle serate tra fuochi all’aperto, birre e chitarre, mi dicono gli altri lavoratori, e le prime stelle dopo il tramonto confermano la suggestione. Per il resto dedico i miei pomeriggi alla lettura, alla contemplazione dello stile di vita di questi simpatici villeggianti perenni, all’esplorazione. Poi verso sera, quando tutti tornano dal lavoro, ci rechiamo insieme in sala mensa preparando la serata nella veranda di uno o dell’altro o la prossima partita a calcio o pallamano. Al momento di andar via, dall’altra parte del nastro trasportatore, faccio attenzione a togliere gli avanzi di humus dal vassio e a mettere i piatti ben distanziati sul carrello: fossi io, non vorrei trovarmi a lavarli a mano.

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