
La sveglia di ieri alle 5 non mi è particolarmente pesata. Dopo una tranquilla serata tra l’ufficio vista mozzafiato di un amico figlio d’avvocato e un’ottima birra al Little Prague mi ero abbondantemente accomiatato da Tel Aviv. Decisamente più traumatico, invece, è stato il perdere la fermata giusta e quindi trascinare le valigie indietro per mezzo chilometro per scoprire, alla fine, di trovarmi nella stazione sbagliata. Sembra di gusto israeliano il non chiamare le cose coi loro nomi ufficiali: il ‘stazione centrale dei bus’ del sito di Egged, la compagnia di trasporti del Paese, non è infatti la ‘stazione centrale’ dei suoi abitanti, che a furor di popolo promuovono la stazione semplice di Arlozorv a tale rango. Col mio bus per Eilat in partenza alle 6 e mezza dall’altra parte della città, ripiego sul bus per Beer Sheba delle 6.15. In viaggio chiamo Alona, mio unico contatto con Iotvata, per avvisarla dell’inconveniente: non c’è problema, chiamami quando sei al cancello, ti vengo ad aprire e andiamo a mangiare.
In bus sonnecchio per un buon 40 minuti, facendo una panoramica dei personaggi che mi attorniano: niente di particolare. Per uccidere il sonno riprendo la mia lettura della Guerra dei Sei Giorni, di Michael B. Oren: i jet egiziani stanno facendo ricognizioni sui reattori di Dimona, Israele aumenta le pressioni per ottenere appoggio militare dalla Casa Bianca. Alzo gli occhi: un cartello segnala Dimona a qualche decina di chilometri in direzione sud. Beer Sheeva mi aveva già dato l’impressione di una città di frontiera, di far west, quando ci eravamo fermati per uno spuntino quest’estate, sulla strada per il mar Rosso. Adesso, seduto sulle mie valigie alla stazione, ne sono sicuro: non messicani ma arabi, non peones ma beduini, non sceriffi ma soldati,

non saloon ma sudici baretti. Soldati ovunque in salita e discesa dai bus per le postazioni nel deserto a cui sono destinati in riserva; studenti universitari a frotte, in questa città che è diventata in meno di dieci anni la college town d’israele. Donne completamente velate di cui vedi solo gli occhi, polvere di bus che sgommano sullo sterrato, una vecchia che grida ritmicamente dal suo banchetto di giornali. L’intero complesso di stazione e servizi è in rifacimento: operai qua e là si consultano, più che lavorare, con una tazza di caffè nero (acqua bollita direttamente con la polvere di caffè) in mano. Di fianco a me una donna appena più che ragazza salmodia dondolandosi un libretto di preghiere, quando le chiedo a che ora parte il prossimo per Eilat non mi risponde, scocciata. Una soldatessa di 19 anni mi chiede se è già passato quello delle otto e mezza, le dico di no. Tacciamo seduti nel caldo per un po’, poi me lo richiede: le assicuro che sono lì dalle otto. La sua amica la raggiunge, anche lei con un borsone verde militare, e alle 9 arriva il bus. Chiedo all’autista di fermarsi a Iotvata, lui se lo segna su un pezzo di carta con le altre prenotazioni.
I villaggi beduini attorno a Beer Sheva mi tengono sveglio per un po’, col naso incollato al finestrino, poi decido di combattere il potere soporifero delle distese di pietra e sabbia di nuovo col mio libro: la guerra è ormai iniziata, l’aviazione israeliana ha già fatto saltare tutte le piste d’atterraggio egiziane nel Sinai, i carri di Sharon stanno già muovendo a sud aprendosi strade nuove nelle dune desertiche…alla mia destra. Rifare da solo, con tutta la propria vita in due zaini e la prospettiva di tre mesi di permanenza, lo scivolo che dal livello zero porta giù fino ai -400 e passa metri del mar Morto è tutt’altra cosa che percorrerlo in macchina con amici per un weekend a Eilat. La desolazione delle aride distese sotto Beer Sheba lascia ben presto spazio all’eccitazione per gli strapiombi di roccia scavati a

suon di shitafon, le piene d’acqua del deserto, mentre si scende a sud-est: la terra secca, privata della sua porosità, fa scivolare via quelle pochissime e scroscianti precitazioni all’anno in un baleno di fanghiglia, che nella sua devastante discesa trascina e corrode le montagne. Arrivati al punto più basso della terra…si risale, ovviamente. Sono ormai da ore in viaggio, l’alba sulla verdeggiante Tel Aviv sembra appartenere a un altro universo. La vallata tra Giordania e Sinai, l’aravah, si presenta come un’enorme autostrada nel nulla, piatta e, anche se impercettibilmente, in salita verso il livello zero del mar Rosso. In queste remote pendici del mondo i coloni ebrei polacchi, russi, tedeschi (ma ce lo vedete un russo a 50 gradi?) hanno deciso di far fruttare la terra del loro popolo: hanno scavato, trovato l’acqua, fatto cisterne, case, campi, filari di palme da dattero, allevamenti, fabbriche, semi o.g.m. ultra resistenti, mulini a vento, pannelli solari, scuole, auditorium, corsi di teatro. A più riprese hanno fatto la guerra, e l’hanno vinta barricandosi in trincee e bunkers. I filari di palme s’infittiscono, il Google Earth del mio telefono intelligente mi dice che mancano dieci chilometri. Faccio segno all’autista che mi zittisce in malo modo: se lo ricorda.
L’autobus riparte sbuffandomi ancora un po’ di polvere in faccia. Mentre lascio passare la nuvola mi adatto al silenzio del luogo, mentre il rombo del motore sbiadisce giù verso Eilat. Di fronte alla fermata del bus c’è una specie di Hotel nel verde, qualcosa per turisti, dietro di esso il nulla per chilometri e chilometri, un villaggio in lontananza e poi il muro di separazione con la Giordania: centinaia di metri di e milioni di tonnellate di roccia rossa, senza un filo di verde e senza una nuvola. Non una casa, non una torretta, non il rilfesso su un vetro, solo un’insormontabile parete verticale e aguzza. Mi giro quindi a ovest, dove la stradina porta al cancello d’ingresso del kibbutz Iotvata. Chiamo Alona: ‘Arrivo’. In effetti, arriva: è una donnona con una bandana a coprire il capo, guida il furgone maldestramente, senza far caso ai dossi, spiegandomi subito il programma della giornata. Carico la mia roba in macchina e la scarico subito davanti al sentierino di sabbia che si snoda tra gli arbusti e la casette monopiano: da qualche parte, al numero 8, c’è la mia. Sono due specie di bungalow in muratura, dirimpettai su di una cerchia di brande, materassi, poltrone e un rocchetto di legno di diametro un metro (suppongo per tubature o cavi) rovesciato come tavolino, in mezzo. I panni stesi su cavi, le porticine di legno consumate dalle scritte degli ex volontari mi danno un piacevole non-so-che di campeggio misto campo rom, come quando da bambini si giocava agli indiani. Ogni casetta, per quanto diversa, ha il suo lavandino e il suo bagnetto, il suo frigo e la sua piastra elettrica, ogni camera la sua aria condizionata, il tutto israelianizzato: le lampadine pendono dai cavi scoperti, la doccia ha la tenda troppo corta, l’acqua del gabinetto ha la molla rotta quindi va ritirata su a mano, la maniglia ciondola con le viti spanate, la presa del condizionatore è a vista e il cavo penzola sulla mensola. Poi pensi che sei lavoratore alla pari a 300 km dalla prima città di senso compiuto, e allora anche lo sciattume diventa uno stile di vita.
Lasciate le valigie all’ingresso, non avendo ancora le chiavi di camera mia, torno da Alona che mi porta senza una parola nell’ufficio di Cino (o Gino?): nato in Argentina, ha vissuto un po’ qua e un po’ la tra cui anche a Roma, per infine stabilizzarsi a Iotvata come responsabile della sicurezza. Tarchiato, tatuato sulle braccia con un bell’orecchino massiccio e il capello nero all’indietro, inizia a parlarmi in italiano per poi passare all’ebraico. Alona, a cui dal primo momento ho parlato in ebraico, è convita che capisca tutto quindi sguinzaglia i colleghi a parlare in lingua originale, senza sottotitoli. Chiedo a Cino di parlare piano, se ho qualche problema lo fermerò. In realtà parla molto chiaro: se dico che bisogna stare in

casa, stai in casa; se dico che non si può telefonare, non telefonare; all’interno del kibbutz sono vietate droghe; è vietato andare con ragazze minorenni; mentre lo ascolto la mia attenzione è captata dai colpi di mortaio, di diverse dimensioni, in fila sulla mensola alle sue spalle e dalla mappa del kibbutz al muro, piena di tracciati e zone colorati. Chiude dicendo che per ragioni di sicurezza nel kibbutz ci sono armi.
Dopo Cino, è il turno della mensa: saluto le cucine, la stanza-lavastoviglie, i magazzinieri. La sala conterrà almeno 500 posti a sedere e si presenta come un ottimo, per quanto spartano, self-service con primi, secondi, insalate, stuzzichini, olive, datteri, humus, reparto caffè e the, il tutto rigorosamente disposto a caso. Arrivo nel pieno del pranzo, con bambini scorazzanti ovunque, lavoratori in tuta e ragazzi a drappelli, come al liceo. Alona mi presenta al tavolo dei miei colleghi lavoratori volontari, o almeno quelli che stanno facendo adesso la pausa pranzo: quattro sudamericani, due svedesi, due danesi, due coreani miei coinquilini, Liu e Jake (indistinguibili), un etiope, tutti tra i 19 e i 30 anni. Rompendo il ghiaccio mi raccontano da quanto sono qui e le loro mansioni: alcune ragazze ai datteri, i sudamericani più casinisti alle stoviglie, due al supermercato, altri al magazzino. Nessuno parla ebraico, pochi sanno cos’è un kibbutz, ci sono finiti ad abitare un po’ per caso: come tutti, d’altronde.
Mentre gli altri lavorano, nel pomeriggio, sistemo la mia roba in camera, faccio un pisolino e mi leggo il secondo giorno dei sei della guerra dei Sei. Beccando qualcuno qua e là capisco che stasera alle 8 e mezza si gioca a calcio, iniziamo bene! Si gioca tutti, ragazze comprese, in un campo a 11 in erba vera, nel deserto, per almeno un’ora e mezza, sotto le luci dei riflettori. Sudati marci, andiamo nel locale del kibbutz: finalmente ho un impatto coi ragazzi kibbutzinik. Molti di origine africana, tendenzialmente di carnagione più scura degli israeliani di Tel Aviv e Gerusalemme, si dimostrano più cordiali dello standard, forse perchè tra tutti siamo talmente marci di sudore da ispirare simpatia. Dopo una breve prova delle qualità ritmiche dei sudamericani che, dannati loro, hanno veramente la samba nel sangue, ci trasciniamo alle nostre…case? tane? baracche? verande? per infine collassare di sonno. La sveglia aspetta tutti, chi alle 5 e chi alle 6, per le quotidiane 8 ore di duro lavoro per la comunità. Preparo i vestiti da lavoro, scelti con Juan nel ‘bunker vestiario’ dalla pila a disposizione dei lavoratori, e cerco d’immaginare cosa mi attenderà alla stoviglieria, dove sono stato assegnato: non ci azzeccherò per niente.

Si comincia con le vacanze in campeggio a 4 anni sul lago di Bled e si finisce così!
Non preoccuparti, nel turno stoviglie eri bravo: tu insaponavi e la Silvia risciacquava!
In bocca al lupo Lorenzo. Ammiro molto quello che fai e mi appassiona come lo racconti. Ciao Barbara